mercoledì 25 gennaio 2012

L'ASSENZA
Interno pizzeria, sabato sera. Di sabati sera cosi’ ne ho visti forse trecento. Saverio, Rosario, altri amici e la scuola e lunedi’ ricominciano le lezioni e l’inverno cosi’ e l’abbonamento al treno.
C’è un patto di sangue con Saverio, che anche se siamo lontani, siamo vicini, incollati; ma c’è silenzio e null’altro, ‘sto sabato sera. Lunedi’ si comincia e io vado e lui resta, lavora qui a un terminale.
Fuori la pizzeria c’è un’aria da stazione e ci stringiamo forte la mano e negli occhi e sorrido a mezza bocca. Poi guardo anche gli altri e, mi passo la mano nei capelli e sorrido a mezza bocca pure a loro e dico ci vediamo un altro sabato sera.
Poi faccio due passi e Saverio che arriva e mi dice: “In provincia c’e’ solo gli amici”; io lo guardo di nuovo e il sorriso e’ solo di labbra. “In provincia c’e’ solo gli amici” gli dico e lo guardo. Lui mi dice ingegnere e ci scherza per qualche secondo, io lo guardo e penso maledetti integrali, sei giorni su sette lontano da qui che c’e’ solo gli amici.
A Roma sono solo ingegnere, nel senso delle lezioni, della fila alla mensa e poco altro.
E allora quattro passi nei vicoli un po’ illuminati, e i passi rimbombano nell’una di notte e le mani in tasca e la testa un po’ china.
A casa gia’ dormono tutti, un po’ di televisione, porcate del sabato sera, poi la radio e non mi va di dormire. Come sempre.
Mi sveglia una domenica ancora assopita; decido di partire subito, l’impatto con Roma di giorno e’ piu’ lieve; un bacio un saluto e poi giu’ alla stazione.
La domenica ha le fabbriche chiuse e l’azzurro di inizio novembre e’ un azzurro da occhiali da sole. Forse anche per le occhiaie del sabato sera, tre del mattino.
Il mercoledi’ e’ meno pudico e le occhiaie non le nasconde e si aspetta il treno fremendo per poter sonnecchiare; la domenica il treno arriva per forza di inerzia e si va verso Roma nei colli, controsole, mammelle di blu che non sembrano veri.
**
La settimana e’ scivolata via senza passioni, soffocata da orari di ferro ed e’ ancora un altro inverno, le stesse abitudini. Ora e’ ora di tornare e il posto sul treno l’ho trovato per miracolo, accanto ad un vecchio gia’ addormentato e a due matricole.
Origlio i loro discorsi da vicine di casa: quella a sinistra e’ ossigenata e il suo ragazzo ha finito il militare e due spalle che non ti dico e ora non gli va di lavorare che tanto il padre conosce e un posto quando e’ ora si trova, ma non giu’ in fabbrica che e’ sprecato, mi piacerebbe l’indossatore con le spalle che c’ha.
Quella a destra e’ mora, ma si ossigenera’, degli occhi brillanti e un filo scuro di baffetti sopra le labbra e si sente l’invidia e il ragazzo non ce l’ha, c’hai in mente Riccardo, il fratello di Nadia, quello riccio e ne parla e, peccato per gli occhi brillanti che perdono luce.
E parlano del futuro come, che so, fossero nell’ottocento e cucissero sotto una veranda, ragazze da marito.
Dall’altra parte c’è un padre che dorme e non dorme, la Gazzetta fa da mezzo cuscino; la madre con gli occhi cerchiati non ha manco una mezza illusione e guarda e non guarda suo figlio, sette anni, giocare con un coso che fa un rumore spaziale. Mezzore senza parole e mi sembra di vederla il sabato sera al supermercato gridare a quel figlio mezzo spaziale, Fermati o ti do due schiaffoni, e il carrello pieno di quello che avanza dalle bollette e da quattro vestiti e stasera due ore di televisione e stavita manco piu’ un’illusione.
Mezza strada e’ gia’ fatta e mi chiedo se la gente che sta sopra ad un treno e’ la vita che vado a trovare, ragazze che sognano una bolla bella sicura dove rinchiudersi a preparare una vita bella sicura, la posizione e liquori e piante a Natale, ragazzi che inventano qualche avventura da raccontare al biliardo la sera, famiglie nel muto di un supermercato affollato a cercare un tre per due da comprare, a comprare un sorriso dal televisore, niente gesti, intendo dire carezze, sorrisi spontanei, sfiorare.
Io sto meglio da solo, mi gioco le carte, le mie, e se sento che e’ uno di quei giorni di ridere e divertirsi, e allora bisboccia, se no tutto scorre.
Io sto meglio da solo, ne’ bolle, ne’ carrelli, la televisione solo per le partite, io me ne sto da solo, io non sono fatto per i compromessi.
Io sto meglio da solo, come il sole, che li’ e’ l’unico dominatore di questo mezzogiorno di novembre; e come lui io sono orgoglioso. Sono orgoglioso della mia solitudine, proprio cosi’, orgoglioso della mia solitudine.
Giusto il tempo di sorridermi per la frase ad effetto ed e’ ora di scendere. Cerco un passaggio, ma non trovo nessuno, solo il dottore che abita verso San Rocco, e’ passato, ma di certo non mi ha notato.
E allora compro il biglietto per la circolare, mi appendo agli appositi, e mi sorbisco cinque fermate e i piedi di un bambino che passeggia sui piedi, i miei.
A casa mia madre mi dice che ieri ha chiamato Saverio, che stamattina andava su al monte fino al pomeriggio e cosi’ ci si vede stasera cosi’ mi riposo.
E’ meglio cosi’: ho fame e sonno e percio’ mangio e dormo. Il letto cigola se mi ci rivolto e gli spiragli delle serrande lasciano filtrare segmenti di luce che sembrano finti.
***
Un maglione irlandese, la camicia fuori dal maglione, la barba appena fatta, la strada e miei passi rimbombano che e’ strano che non passi nessuno a quest’ora di sabato sera.
Gia’ so che sono quattro minuti, fra casa mia e il Belvedere, e la cinquecento bordo’ di Casimiro e gli occhiali-John Lennon di Saverio.
Canticchio qualcosa, una vecchia canzone da spiaggia, attraverso la piazza e le bifore del municipio e il campanile scrostato e due rampe di scale e di fronte c’e’ gia’ la ringhiera del Belvedere, e al Belvedere ogni giorno, ogni sera.
Saverio e Casimiro stanno appoggiati sulla cinquecento, sul cofano arrugginito; io arrivo e squittisco un Salve ragazzi, vecchio gia’ di sei giorni. Si voltano e sono perplessi e stupiti.
Saverio mi guarda stupito e preplesso, con l’occhio sinistro semichiuso, come fa sempre per concentrarsi su una mossa letale di scacchi o su un ricordo sbiadito.
“Salve ragazzi”, ripeto gia’ un po’ scocciato, “Saverio,”, mi volto “Casimiro”, non ci ho mai saputo stare agli scherzi, “dai smettetela; bella accoglienza per il vostro figliol prodigo”. Saverio pare imbarazzato. “Non te la prendere” mi dice “ma quanto e’ vero Iddio non ti ho mai visto prima, davvero”
Casimiro mi guarda gia’ un po’ di traverso: “ma di dove sei, della campagna?”.
“Sono io, sono Stefano, non mi riconoscete; Saverio ... Casimiro, piantatela”, mi dico a mente che non e’ possibile, che cacchio di scherzo e quasi alle lacrime “Davvero non mi riconoscete?”.
Loro sono inebetiti; Saverio con disagio evidente sussurra “No, mi dispiace, davvero”.
Mi sento annientato.
Mi allontano su passi malfermi, mentre mi sto allontanando, Saverio e Casimiro si scambiano frasi, impressioni a mezza voce. Questa poi, dice Casimiro. Sembrava davvero stravolto, mah, aggiunge Saverio.
Trattengo la rabbia fra i denti, ma allora non e’ per niente uno scherzo.
No, deve essere un pessimo scherzo e ora basta e vado a chiamare Rosario che abita qualche passo piu’ giu’ e a smetterla con questa farsa.
Premo il bottone del citofono con foga e la madre di Rosario mi gracchia un Chi e’ da dentro il muro. “Sono Stefano”. Mi sembra che resti un secondo dubbiosa, poi “Va bene, Rosario ora scende”.
Poi sbatte la porta e sento Rosario che scende le scale, lui mi riconoscera’.
Quando apre il portone a Rosario si aggrotta la fronte e mi dice “Chi e’ lei scusi?” Lei? come lei? “Rosario, sono io!” devo avere una lacrima che mi nasce da un occhio.
“Io chi?” mi fa lui, “io non l’ho mai vista; pensavo fosse qualcuno per le fotocopie”.
“Rosario...” “Prego” “Niente, mi scusi, devo avere sbagliato”.
“Va bene, fa nulla” se ne va conciliante, mi ha dato del lei, e mi sbatte quel vecchio portone di ferro battuto e come vernice lanciata dal secchio su un muro, cosi’ mi allagano gli occhi, mi si secca la gola.
La via gia’ stretta di suo mi sembra sprofondi e le case mi si stringono addosso; sento un fiotto di sangue nel naso; tutto attorno e’ un incubo di quelli che si sa che si dorme ma si corre e si soffre come fossero veri.
****
Per qualche minuto, non saprei dire quanti, ho girato angoli senza far caso a case, cose e persone; poi, non so neanche dove, mi fermo a guardarmi indietro, intendo dire nel tempo, a quei pochi terribili minuti.
Saverio, Casimiro, Rosario, frasi brevi, anche troppo, magari sognavo, magari e’ uno scherzo ben riuscito davvero, Saverio ne sarebbe capace.
Saverio lo conosco che saranno dieci anni e lo so quando mi prende in giro; negli occhi invece gli ho visto imbarazzo, pieta’, vorrei dire.
Eppure mi chiedo se un po’ non e’ colpa mia, che sono scappato un po’ troppo presto, sono io che non so farmi riconoscere.
Decido di tornare su la Belvedere, su perche’ e’ stato piu’ facile scappare per i vicoli in discesa e sono quasi fuori le mura, quasi alla vecchia statale. Risalgo al Belvedere, che sono le otto e mi dico addirittura le otto, quanto tempo sono stato a scappare.
Cerco facce note, e vedo ragazzini sciamare, forse terza media, per loro e’ quasi ora di tornare a casa; poi ecco di nuovo Saverio e Casimiro, e’ arrivato pure Rosario e Bergamo, il figlio del giudice. A qualche metro Angelo e Peppe, i gemelli, e Peppe quello basso, che fischia a una che avra’ quindici anni e il rossetto di un rosso sboccato le ha macchiato un po’ i denti.
Mi vado a sedere nella parte piu’ alta del Belvedere, dove la mattina stanno i vecchi a guardare la valle, a scatarrare, a guardare i lavori in corso del nuovo parcheggio, per ore.
Da li’ mi guardo il mio sabato sera e i miei amici e io non ci sono, sono qui a guardarli darsi pacche sulle spalle e ridere forte, come chi sa che puo’ permetterselo, come fossero a casa loro. A casa nostra, direi.
Passano altri dieci minuti e il coraggio alla fine mi torna e mi avvicino al gruppetto; e’ arrivato anche Dante e Rocco alle otto esce dal negozio di frutta e verdura.
“Saverio, scusa un attimo” “Ah sei ancora tu” “Mi rendo conto che e’ stupido, forse” comincio “visto che non mi riconosce nessuno, e io ... quindi ... non conosco nessuno, certo nemmeno voi, ma, ti prego, Saverio, mi piacerebbe stare qui con voi, oggi, stasera, poi, non so ...”
Saverio annuisce, che amico, io penso, anzi no, che persona; mi presenta agli altri (ai miei amici), e dice che sono appena arrivato in paese e non conosco nessuno, che ci siamo visti gia’ al mare, qualche anno fa e guarda i casi della vita.
Io stringo le mani con foga ad uno per uno e aggrappo al mio “Stefano, ciao” una speranza che dura solo qualche secondo. Cerimonie nessuna e mi ritrovo da solo, escluso da tutti i discorsi che ho fatto pure io, magari parlando dei miei ricordi.
Prendo da una parte Peppe quello basso, che ci ho fatto le elementari insieme e le famiglie si conoscono da sempre. “Non ci siamo gia’ visti noi due?” gli chiedo con un sorriso che deve fargli un po’ schifo. “No, non sono mai stato al mare da Saverio”. “No qui, qui; qui ci ho fatto le prime classi delle elementari” “No, ... come ti chiami? Stefano, vero? Ecco i miei compagni delle elementari be’ li frequento anche ora; giusto Alfredo che era figlio del maresciallo dei carabinieri e’ tornato in Sicilia”.
Mi lascia di botto, c’e’ un’altra ragazza che passa, la ferma, ci si mette a parlare; io cosi’ ogni tanto prendo da parte qualcuno e gli chiedo non ci siamo gia’ visti e mi accorgo che Saverio mi osserva, mi squadra, mentre dice come e’ andata in montagna e che ci vuole tornare.
Sto parlando con Dante quando Saverio afferra il mio braccio e mi porta alla ringhiera. Quante volte ci siamo staccati dagli altri per andare alla ringhiera, a parlare di cose diverse da quelle che puoi dire agli altri; l’ultima volta a settembre mi ci aveva portato per dirmi di Valentina, che era finita, finita davvero e ci stava di un male.
Stavolta mi guarda spietato e mi dice “Non so chi tu sia, non discutiamo nemmeno sul fatto che conosci tutti, perche’ non e’ vero e basta. Smettila di angosciarci; se vuoi venire andiamo in pizzeria fra mezzora, e li’ puoi venire; poi basta”.
Sento un no a denti stretti alle mie spalle, devo avere gia’ rotto abbastanza un po’ a tutti; poi penso, ci pensi, Saverio, poi basta vuol dire che dopo la pizza voi andrete al Barnaba Bar a sentire le storie di Barnaba sugli anni settanta, di quando i fasci gli gridavano “Compagno” alle spalle e se lui si girava lo sprangavano a sangue e degli esercizi che facevano per imparare a non girarsi al grido “Compagno”.
E quanti chinotti mi hai offerto, Saverio, all’una del sabato notte, sentendo un Bruce Springsteen d’annata, parlando di ragazze, canticchiando con Barnaba le ultime frasi di Thunder Road, che questa e’ una citta’ di perdenti, e che per vincere bisogna scappare.
Lo guardo e gli dico va bene, mi basta la pizza e lo vorrei ringraziare, ma ecco che arriva Duilio, il suo profumo francese, i suoi denti rifatti, la cravatta a striscioni (lui dice regimental); petulante che parla di vestiti, palestra e se’ stesso, soprattutto se’ stesso. Al Belvedere lo odiano tutti.
Mi si avvicina e un sussurro, neanche troppo sussurro “Vai che se lo becca Duilio”, viene da sinistra, forse Peppe il gemello. Giuro che me la paga.
Duilio cinguetta “Ciao Stefano, sono Duilio” (come fa gia’ a sapere il mio nome, se non mi conosce nessuno) “ho saputo, sei nuovo di qua. Io sono Duilio” (l’hai gia’ detto, cretino) “faccio giurisprudenza, ho gia’ fatto otto esami, ed ho quasi ventotto di media; mai come mia sorella, no, bravo come lei non ci diventero’” E comincia a parlarmi di Roma, di un negozio a via della Croce, e quest’anno ritornano le cravatte di lana, e diritto del lavoro fra due settimane e avanti cosi’ per due o tre minuti. Mentre mi sto inventando dove avevo abitato prima di venire qui, mi blocca e mi dice “Ma sai che la tua faccia non mi e’ proprio nuova; ti ho gia’ visto in paese”.
Lo fisso giusto qualche secondo, immobile, fisso quel viso di gomma, sudore e profumo.
Poi quasi senza volerlo, gli sferro un pugno giusto sopra uno degli incisivi finti.
*****
Il mio pugno mi deve aver messo in una luce migliore, se Rocco si avvicina e mi comincia a parlare della squadra che quest’anno va davvero alla grande. Salgo nella sua 128 e si va da Rocco e Giulia, una pizzeria che sta giu’ nella valle e, che strano, non c’ero mai andato.
La pizza scorre normale e snocciolo qualche parola qua e la’, senza impegno eccessivo. Non so di cosa parlare e puo’ darsi che tutti i ricordi con loro siano cancellati.
A Dante dovrei dire di come si e’ sfregiato la faccia, ad Angelo di come Romina gli mettesse le corna e della volta che ci mando’ Peppe il gemello all’appuntamento.
Ma forse non e’ ancora il momento e mi sento in un limbo, in mezzo ad un suono di trombe stonate; preferisco il banale, la risata facile di una barzelletta.
A fine mangiata Saverio mi prende da parte e magari e’ finito lo scherzo e Dio solo sa se e’ riuscito.
Fuori dalla pizzeria invece mi dice soltanto “Va un po’ meglio ora?” “Sara’ che mi sono sfogato” rispondo; “Duilio cercava da anni quel pugno, ma nessuno voleva sporcarsi le mani”. Mi accorgo che oltre queste piccole frasi c’e’ soltanto silenzio e disagio.
Gli vorrei dire di tutte le cose che abbiamo vissuto, di quella volta in montagna che portammo la bandiera per piantarla vicino alla croce in cima alla vetta, delle discussioni sul gambetto di donna, di Ivano Fossati, di quando a quattordici anni camminavamo con i compagni di classe gia’ giu’ al Belvedere e bastava un cenno ed insieme ci voltavamo per restare da soli e parlare di quel romanzo che volevamo scrivere insieme, di quell’uomo che si chiude in se’ stesso e poi perde la chiave, di quando Valentina gli aveva detto stasera i miei non ci sono, di quando in Germania ubriaco si era gettato vestito nel lago, del concerto di Dylan.
Ma capisco che non posso fiatare, tutto questo e’ dissolto, scomparso, non mi resta che ricominciare.
“Come si vive di solito, qua; cioe’ che fate, chi siete, dove andremo a finire?” gli chiedo. Lui ride “In provincia c’e’ soltanto questo, il Belvedere, la pizzeria, qualche amico, le ragazze e tante parole, giuste, sbagliate, nessuno sta zitto”; non mi basta, in provincia c’e’ solo gli amici, vorrei dire o sentire.
“E oltre questo, qualche amico basta?” “ Basta se sai farlo bastare; che vuoi andare a cercare, l’unione perfetta, il per sempre?”.
“Be’ l’unione imperfetta” dico io “a che serve; o è totale, definitiva o è meglio stare da soli, che dici?”.
“Dico che così cerchi qualcosa che non sta né in cielo né in terra. E certamente non la trovi da ‘ste parti”.
“Io penso che in provincia c’e’ solo gli amici” ci provo
“E in città, che c’è, c’è forse qualcosa di meglio?” Saverio svicola e vedo che sta smettendo di prestarmi attenzione
“Figurati, ma certe volte, anche qui, le vedi le situazioni, false, ipocrite, di comodo; non è meglio restare da soli?” chiedo e mi pento
“E’ meglio cosa?”
“Che so, riuscire a volte a fare a meno degli altri, che so, è meglio contare fino a uno che fare complicate combinazioni probabilistiche” cazzo, penso, voglio fare colpo, parlando complicato.
“Che vuol dire? Se ho capito bene, non hai bisogno di nessuno, giusto? Stai alla tua finestra, in cima a un tuo cazzo di monte, a un piedistallo; come e’, combinazioni probabilistiche; ma che fai, tratti le persone come cosa? Equazioni. Ho l’impressione che ti piaccia giudicare gli altri e che la voglia o cosa di solitudine sia solo mancanza di coraggio” mi fa un po’ teso
“Non pensi che a volte è meglio bastarsi da soli che nuotare senza salvagente nella piattezza, nell’abitudine, nello squallore. A volte nella falsità” mi sto infervorando, quel cacchio di pensiero del treno che torna e non capisco da dove. “Non posso pensare di tarpare i miei sogni e le aspirazioni per un’altra persona che a sua volta si tarpa le ali; penso sia idiosincrasia a certi rapporti cosiddetti d’affetto”.
Saverio ne ha avuto abbastanza. Chiude un occhio del tutto, l’altro è un lampo di una lama: “Ti farei un complimento se ti dicessi che sei un’isola. Tu dici che in chissà quale cacchio di vita siamo stati amici e sono io che non ti riconosco” le parole le sembra sputare. “Ma, ti giuro, non so proprio come avrei potuto avere per amico uno come te, uno che pensa come te”.
Apre gli occhi, come se avesse visto qualcosa nei miei, poi si volta e torna nel ristorante.
Vedo che si chiude la porta e decido di anderemene e cosi’ me ne vado.
Su al colle ci arrivo, penso, con l’autostop o con l’autobus.
L’ultima frase di Saverio mi rimbomba dentro e dietro e forte e chiara e me la ululano gli alberi che stanno ai lati della strada. E sembrano quelli delle favole con le mani alla fine dei rami e i nodi dei tronchi sembrano bocche deformate in un ghigno.
E questi minuti bastardi e soli che vorrei fossero incubo, ma che sono disperati, ma veri.
******
Sono arrivato a casa, a piedi, a pezzi, e mi sono gettato sul letto vestito.
Alle otto e mezzo sono già sul treno e desidero Roma e voglio studiare e ho occhi gonfi come non mai.
Il panorama è cosi’ consueto che preferisco la Gazzetta, che quando sono triste faccio sempre così, Gazzetta o Corriere e non penso.
Roma è una settimana così, e alla fine mi ricordo ragazze annegate nel fard e ragazze col viso buche e bolle dopo essere annegate nel fard.
Il mercoledì sera mi sono ubriacato, che di birra non è mai il caso, ma mi sono ubriacato di birra e il giorno dopo tutto il mondo e qualcosa di più pesa sulle palpebre, che pure se le alzi ci hai un male cane. Ma tutto è inutile.
“Ma, ti giuro, non so proprio come avrei potuto avere per amico uno come te, uno che pensa come te”.
A mensa cerco di non incrociare gli occhi con chi penso di conoscere, che non si sa mai.
E poi la codardia mi convince a restare a Roma anche il sabato e la domenica, che non l’ho mai fatto.
Mi guardo allo specchio e mi sistemo i capelli, abbasso gli occhi e in una domenica sera che neppure il pallone, capisco cos’è la codardia.
Avere paura di prendere l’aereo.
Avere paura di chiedere per paura di sentirsi rispondere no.
Avere paura di rischiare, nuove cose, nuovi amici, una nuova ragazza.
Guardarsi allo specchio solo per sistemarsi i capelli.
Non sono mai stato capace di fare il primo passo, ho sempre mandato qualcuno davanti e poi sono arrivato io.
Il lunedì mattina quasi mi convinco a chiamare Saverio, per sapere non so cosa, se mi riconosce o chissà.
Poi vado alla stazione Termini, salgo sul treno giusto, ma scendo due stazioni prima e so dove scendo, ai piedi di un paese che da lontano sembra un presepe e dentro è solo voglia di scappare.
Il paese è quasi deserto, che quelli che sono andati a lavorare nella valle devono ancora tornare e chi è rimasto qua, a mezzogiorno ha finito le cose da dire.
Ieri qui ha piovuto e io esco dal paese e salgo su una strada che ci passano solo le coppiette il sabato sera.
Ieri ha piovuto e si sente dentro all’erba ai lati della strada e nello stillicidio degli alberi vecchi in mezzo ai tornanti.
Il vento che mi passa tra i capelli ieri ha portato la pioggia e stanotte l’ha spazzata via, ma oggi è ancora freddo e tagliente e porta quasi neve. Un’ora e qualcosa senza pensare o fischiare e arrivo su una piazzola che dà sulla valle: davanti a me l’intera valle e i campanili sui colli e c’è anche il campanile della mia città e il duomo e c’è la striscia dell’autostrada e i camion che corrono sull’autostrada sembrano modellini spinti da un bimbo.
*******
Ho sempre fatto così, nei momenti che pensavo fossero tristi; sono sempre venuto quassù, a sentirmi il dominatore della valle, io e il mio occhio pennuto quassù, il mio occhio pennuto a spaziare tra i colli.
Oggi mi sento un ridicolo codardo.
Mi ricordo, qualche anno fa, capelli più lunghi e qualche ruga di espressione in meno, seduto al Belvedere a parlare male delle coppiette occhi negli occhi mano nella mano e vicino a me Saverio e sentirlo amico. E pero’ Saverio non parla, che questo deve essere un ricordo vero.
Che differenza ci passa tra un ricordo e tutti gli altri minuti passati a non fare niente di importante; solo nei ricordi, in quei momenti cerchiati di rosso, si stava bene.
Ma cacchio, perché mi ricordo che a Pisa a sette anni al ristorante mi incavolai perché mi misero troppo parmigiano sulle lasagne; perché mi ricordo di quando d’estate ci mettevamo a disegnare le astronavi facendo il rumore dei dischi volanti, perché mi ricordo tutte cose che sembrano inutili, perché proprio questo.
Perché non ricordo la voce di Saverio adesso; perché mi ricordo quanti sono i campanili giù nella valle che da qua se ne vedono otto e otto croci e trantadue campane e tante quante i denti e i campanili sono simboli fallici e perché Freud diceva che quando uno sognava di perdere i denti sognava di farsi una sega e, porca vacca schifosa, chi mi ha sbattuto su questa terra, qui dietro proprio a questi occhi e perché sono io e penso in me e non riconosco le mie idee quando mi guardo allo specchio.
E gli altri visi, se lo sono chiesto perché sono proprio lì dentro e da dove viene quella voce, quella che legge a mente, che canticchia, che dice e qualche volta sembra voler venire fuori; e canticchio pure io e cerco di farlo con una voce in falsetto che non è la mia.
E se continua così va a finire che si vive una volta sola e ovviamente si spreca tutto in pensieri progetti sussurri che invece si dovrebbe gridare e gridare e godersela, che si vive una volta sola e non se ne accorge nessuno, se non quando un attimo esatto prima di crepare si rivede l’inutile inutile e non ci si può perdonare che si poteva morire da giovani ma si è morti, e vissuti, da vecchi.
********
Sono sceso, a tratti di corsa, e forse mi ha dato solo uggia e mal di gola, il vento tagliente sulla piazzola.
Così torno a Roma. E vado a lezione e mi impegno a seguire matrici o qualcosa del genere, a guardare passare la vita degli altri per le scale, in sala studi, la fila della mensa, la fila alle cabine telefoniche; ed incontro qualcuno, in fila, gli parlo, forse sorrido persino e mi presti il giornale e che tempo schifoso, forse dovrei avere qualche amico qui a Roma.
Ma come si fa a avere amici così, che non ricordano nemmeno il tuo nome, magari il telefono e se non hanno la macchina è radio, tivu’ e computer e così credono che quel compagno di brioche e cappuccino e mi presti il giornale di cui non ricordano il nome, magari il telefono li pensino e li chiamino amici.
E dentro ad un tubo di metrò, in cima a qualche barrato, restano lì a vederla appannare, la fotocopia dell’amicizia, dentro distanze che non sono soltanto chilometri e strade, ma anche l’incredibile nulla che c’è dentro i palazzi, che i vicini li senti solo gridare, la notte, a guardare la targhetta del peso sull’ascensore, a girare le chiavi, a guardare l’orologio, tutti a correre verso un divano, una tele, e una vita normale normale normale.
Ora alla fine di questa settimana che è già sabato e risalgo sul treno, me la vedo sfilare, la fotocopia ingiallita e la vedo restare in questa Roma di grigio novembre e i giorni sono scappati perché stavolta voglio tornare.
L’ho preso alle dieci, quasi da solo quel treno, che non torna nessuno a quest’ora, e c’è il sole, ma no, ora piove; e la pioggia scheggia i vetri dei finestrini e i bambini la guardano scheggiare i vetri dell’aula, la pioggia, che il sabato a scuola è quasi giorno di festa e l’occhio sta fisso oltre il vetro per un sabato sera e una domenica che tornano che poi se ne vanno.
E la pioggia e il sole di prima esistono perché quei bimbi li stanno a guardare, come me che me li guardo apparire e sparire, come tutto quello che ho visto apparire e sparire.
E così tutto ciò che ho guardato ho potuto sapere e ora sento, tutto quello che ho capito, tutto quello che sono riuscito a farmi passare tra le mani e negli occhi e me lo racconto in una nenia un po’ strana e tento di trovare la rima, la rana fa rima con strana.
E ora so che questa cantilena e questo fiume di parole e sussurri che quella vocina dentro di me mi fa sapere, ora so che non posso più farla sentire solo a quel solo e orgoglioso me stesso; quel me stesso che pensavo superiore e infrangibile e che, come mi ha detto il vento freddo su alla piazzola, ora lo riconosco piccolo, vile, un angolo.
E quello che ho visto e quello che ho sentito, che cosa riesco ad essere o sono, il nevrotico osservare e guardare e spiarmi è inutile, fine a sé stesso, se rimane in questo vagone su questo sedile da non fumatore, in me.
Certo, le stelle le ho viste da solo e la luna e i colori e la valle e i campanili e Roma e Saverio e la pioggia e i vetri scheggiati e il sorriso di un bimbo, li ho visti da solo e me li potrò raccontare quanto mi pare, ma chissà se poi sono veri se non trovo qualcuno che dice che sì sono veri e mi racconta e mi inventa le sue stelle, i suoi colori e la valle e i campanili e Stefano e Milano e il mare e, infine, una spiaggia.
E per ricominciare su una spiaggia c’è un bimbo.
*********
Alla stazione c’è il capostazione con una bandiera rossa per far andare un treno pieno di macchine verso il nord e un militare, da solo.
La piazza è già la mia città, con corriere che non partono e non arrivano mai in orario e se partono in orario chissà che non è quella di prima.
Ho paura, lo ammetto, ma sono tornato.
Appeso agli appositi, teso come un tamburo, appendo me stesso a uno strano riflesso di un vetro un po’ sporco, che sembra un miraggio e mi divide la faccia, me la rende un po’ sghemba.
Scendo, sono a casa, mangio, poi dormo.
Dopo dormito esco e sono al Belvedere che non c’è ancora nessuno, sono le sei e fa freddo e il freddo lo respiro. Chissà se si ricorderanno di un ragazzo che hanno portato a mangiare una pizza e stava lì lì per crollare; chissà se mi faranno stare ancora con loro, mi chiedo e mi guardo il Belvedere sempre uguale a sé stesso, non cambia di certo in due settimane, anzi deve essere stato sempre così.
Una mano sulla spalla, un tocco e “Stefano, vecchia carogna” è Saverio che mi abbraccia “Cristo” mi fa “è quasi un mese che non ci vediamo; trovato qualcuna giù a Roma eh?”
“Ma come un mese” balbetto “Saverio …” ma è Saverio e io sono io ed è un mese e mi abbraccia.
“Perché non ti sei fatto sentire, carogna. Bionda? Lettere, ci butto che fa Lettere”.
Mi sorride e mi guarda con gli occhi distesi.
“Guarda Saverio che due sabati fa …” “E’ di qua, allora; chi è, se è di qua me lo devi dire”.
“Stronzo, te l’avrei detto subito se era di qua, più o meno subito” rido anch’io.
“Mi sa che una festa al figliol prodigo non gliela leva nessuno” dice, mentre arriva la cinquecento di Casimiro e Casimiro mi dice “chi non muore eccetera eccetera”.
“Eccetera eccetera” rido e poi loro parlottano e passano due ragazzine, quindici anni forse, trucco pesante e passano l’amico di Barnaba, quello scoppiato che parla alle mosche, e Sandro, che ci ha due pupille a spinello, e poi macchine, moto, ragazze, è sabato sera.
E lo guardo il mio sabato sera e non capisco come sono scomparso e poi ricomparso e dov’ero?, eppure era vero che nessuno mi riconosceva ed ora è normale e i sorrisi e gli sguardi, normale.
E il Belvedere è davvero un belvedere e il tramonto se n’è andato via e ha lasciato le luci di paesi più o meno lontani, che l’umidità che le fa tremolare, entra i dentro i polmoni e rimane.
Saverio mi guarda col suo sguardo più vero e mi dice “Niente pizza, che ne dici del mare?”.
Io dico va bene e ci andiamo, giù al mare, e la sabbia d’inverno è fredda davvero e castelli non se possono fare, ma è meglio star zitti e lasciare che il vento dal mare ci passi i cappotti e ci faccia lacrimare.
E così ci stringiamo tutti per sentire più caldo e lacrimiamo, piangiamo e piangere è finto, ma così, a noi sembra vero.

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