L'AMICA DI ORSETTA
Giulio dall'altro capo della doppia scrivania alzò la testa: “Che triste, c’ho qua uno, anvedi, un ciociaro proprio come te, vuole portà a Jersey manco mezzo mijardo, un poveraccio”. Gli sorrisi a mezza bocca: “A forza di stare qua dentro stai perdendo il senso delle proporzioni; quanto ci metteremo noi a fare mezzo miliardo ... una decina d’anni, se va bene”.
“Senti, ciociarone triste, amico mio, qua dentro o entro due anni me fanno associato o arrivederci e grazie: m’apro lo studio mio, uno studiolo fresco, co’ la donna mia come segretaria e qualcun altro de qua dentro, che so Battaglini ... persino tu che sei bravo ma lento. Je famo un didietro così a ‘sti quattro bambacioni”.
Giulio Nardoni era così, dimenticava che la madre era una nobile di origini triestine e che il padre manteneva un po’ di cadenza marchigiana, era un romano integrato e convinto.
La cosa che mi piaceva più di lui, oltre al suo sorrisone, un lampo in mezzo al viso lampadato, era il fatto che conosceva due soli aggettivi qualificativi: fresco, per tutto ciò che era positivo e triste, per tutto ciò che era negativo. E così una ragazza carina era fresca, una gratifica natalizia era fresca, una vittoria della Roma era fresca; i comunisti erano tristi, i laziali erano tristi, la camicia a maniche corte sotto la giacca era triste (e su questo per la verità ero d'accordo anch’io).
Ce ne stavamo lì, nell'ultima stanza dell’ultimo corridoio del terzo (e ultimo) piano dello Studio Legale e Tributario Internazionale Costa Colombo Granata e Labernacher, Ufficio di Roma, ordinariamente confinati alla verifica della congruità con le risoluzioni ministeriali dei contratti tra casa madre e filiale italiana di qualche multinazionale e a scovare il paradiso fiscale di moda nel semestre.
“Le Cayman le ha bruciate John Grisham con Il Socio” dicevo io; “Jersey” (o meglio lui diceva proprio Gersi), “Gersi è un paradiso triste; ce fa un freddo cane, na vorta che me c’hanno mannato con un siciliano, come minimo de San Giuseppe Iato, me so’ preso trentanove de febbre e fori ce stava ‘na bufera” diceva lui. “E’ perché non ti vuoi mettere la maglietta della salute che stai sempre raffreddato; mia madre, donna di campagna, me lo ricorda tutte le sere” rispondevo io.
Ma la storia più carina era che lo aveva battezzato Andreotti in persona. "E perché me chiamerei Giulio, se no?”. Io gli fischiettavo il motivo del Padrino e lui se la rideva. "Sei triste, Andreotti è il più grande; e poi la Ciociaria, nun era terra der divo Giulio?” “Come no” rispondevo io, “era il presidente onorario dell'Associazione tra i Ciociari a Roma e poi devo riconoscere che quando c’era lui qualche soldo nelle zone nostre arrivava, tra Cassa del mezzogiorno e sgravi contributivi. Te l'ho già raccontata la storia del sindaco del paesino ciociaro e dell'ambasciatore che aspettano fuori la stanza di Andreotti e la segretaria che gli dice ‘Faccio entrare prima l'ambasciatore, ovviamente’?”. “Sì la so già, che Andreotti j’arisponne 'Fa’ entrà er sindaco burino che se nun c’era lui, io quanno c’arrivavo a parlà con l'ambasciatore’”
“Oh ma il piano ferie per Natale?” gli chiesi
“Il ventisette è mercoledì, per cui o ventisette, ventotto e ventinove, oppure, trenta sabato, trentuno domenica, il primo è festa, quindi due, tre, quattro e cinque. Io me farei i tre di dicembre”.
Sai che palla, pensavo io, da Natale a Capodanno, solo come un cane, a Roma; quasi quasi faccio avanti e indietro; però in fondo dal trenta dicembre al sei gennaio in ferie, anzi no, al nove.
“Per me va bene” feci io.
“E’ annata” fece lui
“E’ ita” feci io.
Era l’ultima settimana di novembre e a Roma riuscivo ancora a andare in giro senza giubbotto, in una proroga incondizionata dell’ottobrata.
“Senti, ciociarone triste, fa ‘no sgaro alla triste Ciociaria e stasera fatti un venerdì sera co’ Giulio tuo”
“Party?”
“Party dalla contessina di Sant’Olmo”
“Cacchio, Giulio, ma alla Festa de noantri non ci vai mai, porchetta, grattachecca?”
“A moro, io so’ nobbile e vado alle feste dei nobbili”
“La contessina di Sant’Olmo. La scorsa settimana chi era? La marchesina Serbelloni Mazzanti Vien Dal Mare?”
“Stronzo, era la marchesina Gregori Bianchi, i proprietari di palazzo Gregori, dietro a via Veneto”
“E palazzo Sant’Orso dov’è?”
“Sant’Olmo, non Sant’Orso; nun c’hanno il palazzo, si va all’Olgiata.”
“Ma come mai sempre tutti questi nobili? E poi ti vorresti portare appresso me, che so’ così popular.”
“Ma è per tojerti quell’espressione triste; sei un bravo ragazzetto e devi comincia’ a vede la Roma bai nait. E le feste dei nobbili so’ le più fresche, mica se spareno li cannoni come li borgatari”
“Ah” lo interruppi “i nobili si fanno di coca”.
“No, nun hai capito; è l’atmosfera; ‘ste ragazze de classe, tutte affettate, tutte educate. E poi la contessina Ottilia Corsivieri di Sant’Olmo ha fatto er liceo co’ mi’ sorella. Mi’ sorella sarà annata all’Olgiata almeno quaranta volte”
“Ma tu ti chiami Giulio Nardoni e io Stefano Palmigiani; come ci presentiamo alla contessina Corsivieri di Sant’Orso”.
“Ancora co st’orso. Senti, a Ste’ parlaje ciociaro si voi, nun te preoccupa’. Si voi, te vengo a prende alle nove”.
“Parè, che te tengo da di’, iami da ‘sta contessina, fateme ude’ sta casa. Basta che te stai sitte”, gli sbottai nel migliore ciociaro che potevo.
“Che triste. Namosene a prende un caffettino, va”
*
Giulio, ovviamente, aveva un BMW. “Avevo preso er vecchio modello del 318, poi, manco un mese dopo era uscito il modello nuovo; ar concessionario j’ho detto de non prende pecculo e quello ha capito e m’ha chiesto solo cinque mijoni de differenza. Ma guarda che spettacolo”.
“Ha pagato papa’?” dissi io, un po’ scocciato.
“Perche’ quell’accrocco che c’hai tu chi te l’ha pagato?”.
“Metà io e metà l’assicurazione, dopo che m’hanno fregato l’Ibiza”, dissi pensando alla mia Rover 216 color verde Rover, che mi scarrozzava sulla A1 ad inizio e fine di ogni week end.
“L’Ibiza te l’aveva comprata tu’ padre”
“Ovvio”
“E allora stai pari a me”.
La BMW grigia di Giulio mi accolse col fumo delle Marlboro a mezz’aria; “Ce l’ho fatta, me porto er ciociarone”.
Erano le nove meno dieci dell’ultimo venerdì di novembre e mi sentivo un po’ un traditore a restare a Roma il venerdì sera, perché non l’avevo mai fatto.
A chi mi aspettava, a casa mia, avevo rifilato la più classica delle balle su un contratto da verificare entro e non oltre.
Superammo il raccordo e arrivammo all’Olgiata alle dieci meno un quarto.
La macchina di Giulio era un’utilitaria; sembrava di stare al concessionario della Mercedes, dalla jeep allo station wagon passando per le coupé, contai quattro Jaguar, ma devo dire che anche qualche altro poveraccio sfoggiava Golf Turbodiesel.
Io e Giulio eravamo vestiti come al lavoro, completi grigi, camicia celeste (questa la dico con orgoglio: io e lui eravamo gli unici senza le cifre sulla camicia) e cravatta con sfondo bordeaux.
La differenza tra lui e me era nel colore del viso: cioccolata chiara contro itterizia appena superata.
La villa ovviamente aveva un piscinone semiolimpionico, un patio che c’entrerebbe un campo da tennis ed un salone delle feste che era una piazza d’armi.
La contessina Ottilia Corsivieri di Sant’Olmo era una ragazza sui ventotto, con delle meches da quarantenne e un vestito carta da zucchero che la rendeva banalmente impeccabile: ci sorrise e io mi aspettavo una erre moscia da pazzi.
“Giulio carissimo; tua sorella mi ha detto che saresti venuto tu in rappresentanza dei Nardoni ed è sublime” aveva un tono terrificantemente privo di accento e l’ultima sillaba di sublime si era persa in una sorta di sospiro.
“Questo è Stefano, un collega, l’ho portato per non venire da solo” Giulio aveva le vene del collo tese per lo sforzo di parlare italiano e rideva mentre parlava, esattamente come quando in qualche riunione doveva sbocconcellare qualcosa in inglese.
“Piacere” dissi
“Piace’ ” rispose, troncando il finale; “Olmo e Orsetta dovrebbero arrivare più tardi. Scusatemi è arrivata la piccola Rehinstein”. Ci lasciò muovendosi come su un cuscino d’aria.
“Chi sono Olmo e Orsetta?” chiesi io.
Giulio mi fece un sorriso da vero intenditore: “Olmo Corsivieri di Sant’Olmo, trent’anni, fotogenico, è direttore generale della Donny Most inc., la merchant bank”.
“Cacchio, un nobile che lavora; e Orsetta, non mi dire che Orsetta è la sorella di Olmo e Ottilia”. Giulio annuì. “Ci butto che i genitori si chiamano Ottavio e Ornella, il maggiordomo Oscar ed il cane Oliver”.
“L’hai quasi azzeccata. Il padre è il conte Oliviero Maria, la madre è donna Oneira; sur maggiordomo ed sur cane nun c’ho notizie”.
“Ti prego, e qui dentro si chiameranno tutti Lupo, Brando, Flaminia e Guia”.
“Be’ in fondo ce stamo pure noi, che siamo Giulio e Stefano. Ma nnamo, Ste’, buttamose ner vortice degli aperitivi”.
Il catering era il trionfo di rucola e pachino, i cocktail erano tutti di colori pastello, tranne una specie di botte di succo di carota su cui le nobili si catapultavano per ordine imperioso dei dietologi di corte.
Io presi un bicchiere che conteneva un liquido celestino chiaro, il cui sapore evocava la limonata fatta in casa da mia nonna. “Ma du’ birozze n’ce le potarimo fa’, massera, Giù” sbottai a Giulio, andato palesemente in estasi sorseggiando con occhi sognanti estratto di sedano e mandarino.
“Smetti di fa’ er burino; m’ha detto mi’ sorella che er catering l’ha fatto ‘na società che fa li party a palazzo Chigi, mica pizza e fichi”.
“D’accordo, ma a volte mangiarsi pizza e fichi non mi sembra disdicevole”.
“Guarda me stai così a rompe, sei così triste, che la prossima vorta nun me te porto di certo. … Ughetta!” esclamò di colpo.
Ughetta era un metro e ottanta ed era scalza, aveva una tunica bianca che lasciava intendere una predilezione per biancheria intima piuttosto succinta; l’aggettivo filiforme la ingrassava.
“Giulio, tesooooro”. Baciò Giulio con la parte della mascella più vicina all’orecchio. “Stai sublime, veramente”. “Ughetta, sei stupenda, da quanto tempo non ci vediamo; ah da quest’estate al Gilda On the beach” “Santi numi, Giulio, Fregene è così terribilmente CPT, davvero; da Capalbio in poi si comincia a respirare. Pensa, ho passato quindici giorni a cavalcare a pelo cavalli maremmani a Punta Ala. Un'esperienza miiistica. Oh guarda, c’e’ Urbi, scusami tesoooro, vado”.
“Cosa vuol dire CPT?” chiesi a Giulio. “Vor di’ Casilino Prenestino Tiburtino, li quartieri piccolo borghesi: anche quando offendono ‘sti nobili nun sanno che esistono le borgate vere”.
“Ehi fantastico tesoooro” mi misi a sfotterlo“ c’hai un attimo sociologico”.
Mi guardò di sottecchi, come per dire ‘lo sai che sono meglio di quello che sembro’.
Intanto la musica si era fatta new age, quelle nenie dei nativi americani e Giulio tornò in sé stesso: “Senti che musica fresca; Ottilia jel’ammolla proprio, non c’è che dì. Senti a Ste’, te devo lascià che senno’ me rovini la piazza”.
“Vai da Ughetta, non ti preoccupare”
“Ma no, lascialo perde quer troione; a scola se la semo scopata tutti tranne uno perché era frocio. Piuttosto, ecco quella triste di Orsetta”. Mi diede di gomito.
Mi girai verso una ragazza che era la copia lievemente sbiadita della sorella, solo che al posto delle meches aveva i capelli rasta; facevano a pugni con un abito semplice, lievemente etnico, color sacco di juta. Era chiaro che entro i trenta avrebbe ripreso le meches, avrebbe comprato un vestito carta da zucchero ed avrebbe sposato un ambasciatore.
Vicino a lei c’era una ragazza, con i capelli castano chiari, due occhi che dai miei dieci metri di distanza sembravano celesti, il viso un po’ irregolare; quando sorrideva il mento si spostava un po’ a sinistra.
In questa parata di bellezze così convenzionali, il suo viso semplice ma particolare la faceva spiccare come una casina multicolore in mezzo alle case a schiera dei minatori del Galles.
Mi voltai verso Giulio nella speranza di vederlo tornare dalle mie parti e di farmi presentare Orsetta e, di conseguenza, l’amica di Orsetta.
Lo vidi vicino ad un tizio sul metro e sessanta con il nodo della cravatta più largo del collo, che gesticolava furiosamente. Il tizio basso era più abbronzato di Giulio e questo doveva rendere il mio collega oltremodo nervoso.
Mi girai di nuovo e ad un metro da me Orsetta mi sorrise e mi fece: “E tu chi sei?”. “Io sto con Giulio Nardoni … non nel senso letterale del termine, ovviamente”. Orsetta rise, quasi con un colpo di tosse: “Il sospetto su Giulio c’è sempre stato” fece, con una voce che al telefono avrei attribuito ad una novenne dal vocabolario particolarmente forbito.
“Sei Orsetta?” chiese
“Si’, piacere”
“Piacere, Stefano. … E la tua amica?”
Come sorpresa da un professore mentre chiacchiera con la vicina, l’amica di Orsetta si voltò di scatto verso di me: “Liana, piacere”.
“Amica intima di Tarzan, suppongo”.
Rise, forse per educazione. “Be’ almeno uno che non mi dice ‘come Liana Orfei’”.
“Cercare di essere originale è il mio forte” dissi, con voce un po’ tremante.
E per dire la verità mi tremava la voce, e mi tremavano le ginocchia e nello stomaco c’era un groviglio che non mi sembrò immediata conseguenza del cocktail color pastello.
“Scusaci … Liana, ti porto in camera mia, per quella questione…” Orsetta me la portò via.
Sussurrai un ciao in cui cercai di mettere una qualche componente arrochita da tombeur de femmes.
Cercavo di darmi un contegno, avevo un’arsura terrificante, mi misi a sussurrare un non ci posso credere, cercai un’altra volta Giulio con lo sguardo.
Urtai inavvertitamente Ughetta che ne approfittò per parlarmi: “Tu sei l’amico di Giulio. Spleendido. E come ti chiami?”. Le risposi.
“Sai cavalcare?” mi chiese.
Ci trovai subito un doppiosenso e sbottai “No, vado a malapena in bicicletta”.
“Ah ah ah, divertente questa” rise con una distanza di un secondo tra un ah e l’altro, come un nobile inglese, coprendosi la bocca con la mano. Guardandola, compresi il significato dell’espressione ‘contare le costole’.
“Scusa ho un problema sotto la spalla” mi prese la mano “non potresti darmi una mano; è qualcosa, qualcosa a metà tra un prurito ed un dolore”.
La mano era dalle parti della scapola, quando un tizio con un riporto abbastanza approssimativo le diede un pizzico in zona perizoma.
Ughetta si voltò: “Rigoooo!; ci volevi proprio tu, qui a nessuno piace cavalcare”
Non mi presentò nemmeno il tizio del riporto, che aveva una camicia a quadri celesti con le cifre che occupavano quasi mezza camicia, dato che erano R.M.C.D.S.O., che qualcuno, qualche minuto dopo, mi avrebbe evidenziato essere l’acronimo di Rigoberto Maria Corsivieri di Sant’Olmo, cugino della festeggiata.
**
Ho sempre avuto il sospetto che ogni festa a Roma ad un certo punto comporti cantare in coro a squarciagola “La società dei magnaccioni”.
Alle undici e un quarto, invece, la situazione non era ancora degenerata.
La musica era penosa, con echi celtici e a me che piace la musica popolare irlandese, quella che suonano nei pub, per intenderci, questi celtici qui mi facevano due palle.
La gente era sparpagliata in gruppetti, divisi forse a seconda del colore del cocktail.
Giulio, per non sapere né leggere né scrivere, aveva trovato una bottiglia di Braghetto, che ci stavamo centellinando insieme a pochi altri privilegiati.
Guardai di sfuggita l’orologio e le lancette dicevano undici e mezza; dato che, come molti altri fissati come me, porto l’orologio sette minuti avanti, si navigava a vista tra le undici e venti e le undici e venticinque.
Avevo appena rimesso il braccio lungo il corpo, quando sentii un tocco sulla spalla.
Mi voltai.
Liana.
Aveva sul viso qualcosa meno di un sorriso, ma il mento era già un po’ sghembo.
“Com’era la storia di Tarzan?”
Mi ero sbagliato: gli occhi non erano celesti, erano verdi, ma di un verde a cui bisognava aggiungere un ulteriore qualificativo, ancora non inventato.
“Be’ Tarzan, la liana, Cita, il signore delle scimmie, quella cosa lì, quella classica”
Mi appare Woody Allen, in Io e Annie, quando nel primo colloquio con Annie Hall, lui e lei parlano, sparano banalità, con i sottotitoli con scritto ciò che pensano davvero.
Il mio sottotitolo era: “entro dieci secondi inventatene una di altissimo livello, o perdi una delle più grandi occasioni della tua vita”.
“Per la verità mi chiamo Liliana, ma era il nome di mia nonna e allora in casa per distinguerci mi hanno sempre chiamato col diminutivo”
“Accento del nord: milanese?”
“No, veneta, di Treviso. Niente battute sul radicchio, ti prego!”
Rimasi col fiato a metà bocca. “Figurati chi sta peggio, io sono di Frosinone. Lavori qui a Roma?”.
“No, sono qui a Roma, per un corso di aggiornamento. Faccio volontariato con una sorta di consorzio tra parrocchie a Treviso; la sede centrale è qua a Roma. Al corso ho incontrato Orsetta ed eccomi qua”
“Io sono un imbucato” le feci “non volevano farmi entrare perché ho un nome normale. Mi ha portato qua il primo ministro delle Lampados” le addito Giulio, ormai groggy per il Braghetto “e spero che la sua utilitaria 2500 turbodiesel mi riporti sano e salvo a casa. Anzi, per essere preciso, lo speravo fino a un paio di minuti fa” (Sottotitolo: stai a fa’ il cascamorto).
Ridacchiò: “mi fanno un po’ lo stesso effetto anche a me. Sono andata a mangiare in un wine bar con Orsetta ieri sera e avevo sospettato qualcosa; qui è terrificante”.
“In che senso?”
“Ostentazione, lusso, macchine”
“Dovrebbero fare effetto a me, che sono un povero contadino ciociaro, non ad una figlia del mitico nord est”
“Lascia stare, mi fa effetto, un po’ come quelli che hanno la collana con il crocifisso e bestemmiano come turchi”. Per un attimo sembrò cercare la concentrazione “Ascolta, spostiamoci verso la finestra, che qui fa troppo caldo”.
Masticai un occhei, e, dato che mi sembrava quasi un invito, sentii un brivido che partiva da uno qualsiasi degli organi del ventre e finiva al centro esatto dell’inguine.
“E che volontariato fai? Scusa, è una domanda mal posta; questo seminario, scusa seminario sa di prete; questo corso, insomma …”
“Beh, faccio assistenza domiciliare ai malati terminali di cancro”
Mi si spense il sorriso e la mia bocca divenne semplicemente un segmento ebete.
“Non vorrei offenderti, ma mi hai risposto come se mi avessi detto che hai una rivendita di carpenteria metallica”
“Questo pare che sia uno dei segreti per riuscire a fare questa attività. Farla come se fosse una cosa normale, quotidiana. Sai, ci bombardano ogni giorno medici, psicologi, infermieri”
Cercai di uscirne: “E oltre al volontariato?”
“Sono laureata in Economia e tra un paio di settimane comincio a lavorare in un grosso studio di Treviso”
“Fantastico; che fai, contabilità, paghe, cose così?”
“No è uno studio che segue clienti enormi, lavora molto sull’estero…”
“Magari è Zaniolo e Rigutto”
“Sì proprio loro …”
“Cazz…, cacchio, non ci credo; io sto da Costa e Granata. E’ il nostro corrispondente in Veneto. Non ci posso credere, che fortuna!”
Feci un po’ il fighetto a parlare di convenzioni internazionali ed amenità connesse, ma compresi abbastanza rapidamente che era completamente fuori luogo.
Tornai sulla luna.
Fu una sorta di viaggio. Un’ora, forse un’ora e un quarto, vicino alla finestra; è banale, ma attorno non c’era più niente.
Cercavo di stupirla con la mia cultura enciclopedica, partendo da Dostoevskij, dalla distonia tra il mio lavoro e la passione smodata per i Pearl Jam.
Ma fu sul cinema che mi ammazzò.
“L’hai visto Un cuore in inverno?” feci
“Sì”
“Favoloso: sai, io penso che il mondo si divida tra quelli che hanno visto Un cuore in inverno e quelli che non l’hanno visto”.
“Non sono d’accordo” mi fece il sorriso sghembo “io penso che il mondo si divida tra quelli che Un cuore in inverno l’hanno capito e quelli che non l’hanno capito”.
Restai come un ebete; lei aveva un occhio, il sinistro, che le brillava di una cialtroneria da bimba.
Fu il segnale. Parlammo di noi, lasciando stare musica cinema e libri, ma infilandoceli dentro ogni tanto, come lo sfondo di un bel quadro.
Dissi cose su me stesso che probabilmente compresi solo in quel momento: riuscii a descrivere senza fare la vittima, la paura delle responsabilità, i miei tentativi di andare d’accordo con tutti (lei giustamente disse “semplicemente non vuoi andare d’accordo con tutti, vuoi che tutti quelli che ti stanno attorno ti esprimano quell’apprezzamento, per farti sentire sicuro”), la sindrome da insoddisfazione perenne.
Lei parlò di come non ne potesse più della sua aria di brava ragazza (disse: “sono stanca di essere la pecora bianca della famiglia”), di come d’altra parte facesse sforzi immani per apparire sempre perfetta; poi, le attese della famiglia più per una buona madre di famiglia (“cattolica veneta”, aggiunsi io e lei annuì sghemba) che per qualcosa d’altro, una donna realizzata, ad esempio, i sensi di colpa per un fratello più piccolo, che finiva per essere schiacciato dalla sua personalità e che, per fortuna, era riuscito a trovare una dimensione a Milano, lontano da casa e da lei.
E poi, un fidanzato (“un moroso” disse lei; io me ne uscii con un terrificante “chi è? Uno che non ti paga l’affitto?”), che sembrava tutto rose e fiori, ma che negli ultimi giorni al telefono, davanti a questa prima esperienza lontano da casa e lontano da lui, era stato, per la prima volta in otto anni, freddo, ostile.
“Perché le persone alla fine sono diverse da quelle che sono sembrate per anni?” chiese
“Prova a pensare se da domani lui non ti chiamasse più; forse la vita sarebbe identica; oppure, questa qui era la prova necessaria per rigenerare il sentimento” dissi.
“Sai, è successa una cosa strana; l’altro ieri sera ci siamo sentiti ed insomma c’era questa freddezza. Diceva ‘ma era necessario che andassi lì? Devi cominciare a lavorare … hai studiato tutti questi anni per finire a fare l’infermiera … assumiti le responsabilità da persona adulta … devi capire la vita vera come è fatta … la gente, non sono mica tutti buoni come te’. Ecco diceva qualcosa di questo genere; poi alla fine, mi ha detto ‘Liana, mi manchi’. E ho risentito quello che mi piace di lui, quel suo essere dolce e deciso, rassicurante. Poi mi ha salutato e ha riattaccato il telefono; ma in realtà non ha chiuso la comunicazione e io l’ho sentito per cinque minuti che girava per casa, con una voce normale, che diceva alla mamma cose del tipo ‘sarebbe il caso di portare fuori il cane’ o ‘i biscotti sono finiti?’; poi è arrivato qualcuno, una zia, e si sono messi a parlare del tempo, di un vicino di casa sempre ubriaco. Era tutto così normale, stava vivendo, e aveva quel tono … anonimo, senza sentimento, né ostile né appassionato. E io pensavo, ha una sua vita, banale, nella quale io esisto o non esisto è la stessa cosa. E … quindi, hai ragione tu, forse se da domani non chiamasse più, la vita sarebbe identica o forse è la vita che è così, banale”
A quel punto si mise a fissare un punto, indefinito, forse dalle parti della mia spalla sinistra. Venti secondi buoni, così.
“Si vede proprio, la forfora, eh?” provai.
Scoppiò a ridere; “scusami, mi ero persa”
“Io sono sempre perso”
Stemmo zitti; ci guardavamo soltanto. La guardavo respirare; poi passavo lo sguardo dall’uno all’altro occhio. Non dovevo sforzarmi per liberare uno sguardo forte: il mio sguardo era forte, i miei occhi erano naturalmente brillanti. I suoi, di occhi, sapevano di leggerezza e di stupore e le sue lacrime, se mai avesse pianto, non potevano essere salate.
Quando mi scossi, mi accorsi, girandomi, che il salone esisteva ancora, che c’erano altre persone, che parlavano, qualcuno rideva, ma nessuno poteva essere felice.
Giulio, a quanto riuscii a capire, se ne era già andato, con una discrezione che me lo rese immensamente caro.
Liana all’una doveva prendere servizio dalle parti di corso Trieste.
Chiamammo un taxi.
Liana andò a salutare Orsetta, dandosi appuntamento, a quanto compresi, per l’indomani pomeriggio; bevvero qualcosa insieme, mentre, quasi sulla porta, guardavo quell’ora e qualcosa passata vicina alla finestra e la confrontavo con altre ore, con altri giorni, con la vita normale.
Il taxi, Belgio 24, arrivò piuttosto rapidamente e Liana diede l’indirizzo.
Era una vecchia Regata gialla ed il sedile del guidatore era stato sostituito con un materiale che ricordava le sedie a sdraio con lo schienale fatto di strisce di gomma rossa.
I sedili di dietro potevano essere stati di velluto.
Mi misi a guardare fuori, perché la presenza dell’autista mi sembrava impedire qualsiasi tipo di atmosfera.
Mi sbagliavo.
La mano sinistra di Liana e la mia mano destra stavano piuttosto vicine sin dal momento in cui eravamo saliti in macchina.
Penso che nessuno dei due cominciò, ma le dita si sfiorarono, si toccarono, si intrecciarono, poi si sfioravano ancora, come se non volessero fare rumore; io guardavo fuori verso sinistra, Liana guardava avanti, come se fosse preoccupata che l’autista sbagliasse strada.
Le mani si strinsero, forte, dotate, direi, di vita propria.
Non ce la feci più e chiusi gli occhi, sopraffatto dalla tenerezza.
Ebbi la sensazione che anche lei li chiudesse, gli occhi; fuori poteva pure fare freddo, ma le due mani stavano lì immerse in un dormiveglia di dolce tepore.
Mi vennero in mente, non so perché, dei vecchi Smiths; si vede che il tempo lo volevo fermare.
And if a double-decker bus
Crashes into us
To die by your side
Such a heavenly way to die
And if a ten ton truck
Kills the both of us
To die by your side
The pleasure and the privilege is mine
Il tempo non poteva avere senso, ma in una ventina di minuti, in quella notte di fine novembre arrivammo dalle parti di corso Trieste.
Scendemmo tutti e due e lei aveva fretta, perché era l’una passata e doveva essere dal paziente, dall’assistito, o come lo chiamava, all’una, per dare il cambio al suo collega.
Per il sabato sera avevano previsto una riunione finale, alle sette e mezza, del loro gruppo e lei avrebbe staccato dal turno alle dieci, probabilmente insonne.
Negli unici venti secondi di lucidità avuti dentro Belgio 24, avevo deciso cosa fare per l’indomani.
Liana accettò.
***
Alle dieci meno dieci, con la mia Roverina, ero dalle parti di corso Trieste.
Scese alle dieci e qualcosa.
“Mi piacerebbe lavarmi; anzi per la verità mi piacerebbe dormire” disse, comunque sorridendo.
“Per la seconda, ti fornisco il sedile del passeggero. Per la prima …”.
“Per la prima, passiamo dieci secondi in collegio”.
“In collegio?” chiesi.
“Già, non te l’avevo detto; alloggio in collegio di monache. Un’allegria …”
Il collegio era poco lontano, per fortuna; salì e stette una ventina di minuti.
Tornò con i capelli ancora umidi, essenziale in jeans, camicia bianca, maglione blu e giubbotto.
“Ok, si va” dissi io, con il tono di John Wayne che comanda la carovana delle diligenze.
Lei sbadigliò: “Com’era la storia del sedile del passeggero?”
Mi accennò rapidamente ad una notte terrificante, per l’assistito e per lei; nessuno aveva chiuso occhio e così all’altezza della prima area di servizio della Tangenziale Est, Liana si era già addormentata.
****
Si svegliò che erano quasi le tre. Vedere Liana dormire era stata un’esperienza di una dolcezza disarmante.
L’alba ci colse con la sua dolcezza
Un dormiveglia di gesti più belli
Mi svegliai con in mano una carezza
E gliela sciolsi a lungo tra i capelli
David Riondino era divenuto col passare delle ore una sorta di mantra.
Quando ancora si stropicciava gli occhi, le accarezzai i capelli al lato della testa e glieli misi dietro l’orecchio.
“Dove siamo?” gemette
“A Bari; anzi per la precisione siamo a Palese, sul lungomare”.
Riuscì a mascherare la sorpresa.
“Andiamo, che lo chef il pesce sotto sale fra un po’ ce lo butta appresso”.
Mangiammo quasi in silenzio, guardando l’Adriatico muoversi con lentezza e accarezzare i frangiflutti.
Gli angoli della bocca mi si alzavano da soli, senza sforzo, perché la gioia, quella a cui tutti quanti per qualche minuto tutti abbiamo diritto, io ce l’avevo davanti.
Gli occhi verdi + aggettivo qualificativo non ancora inventato giocavano con i riflessi del sole sulla tovaglia, cercavano i miei occhi.
Sapevamo che non c’era tanto tempo.
Alle quattro e venti ci alzammo e i tre gradini del ristorante li scendemmo abbracciati, o qualcosa di simile.
Stemmo qualche minuto dalle parti dello sportello del passeggero, poi risalimmo in macchina.
Casello di Bari Nord.
Tutto cominciò cinque chilometri prima dell’uscita di Canosa.
Il sole stava per raggiungere le ultime colline delle montagne tra l’Irpinia e la Puglia.
Il cielo verso quelle montagne era a metà tra rosa e arancio.
Liana e io guardavamo quella parte di cielo, con gli occhi sereni di chi ha già capito.
Allo svincolo tra la A14 e la Napoli – Bari, dopo una curva che sembrava non finire mai, il sole ce lo troviamo davanti.
Il lunghissimo rettilineo che va da Canosa a Candela.
Attorno, campi di grano a non finire, come possono essere i campi di grano a fine novembre: nient’altro che la nostra autostrada, la nostra macchina e attorno, attorno il deserto nostrano.
Se la macchina non avesse fatto il rumore che faceva, non si sarebbe sentito niente; l’unico rumore sarebbe stato quello di un sole che stava tramontando.
Poi il sole finì dietro Candela, divenne rosso fuoco e il cielo intero a ovest divenne rosso fuoco; le tre nuvole blu che striavano il tramonto sembravano ideogrammi scritti in una lingua perduta.
Poi il cielo divenne rosso tiziano.
“Ci sono delle persone che non si conoscono, che stanno separate, a volte non si incontrano mai per tutta la vita. Tra queste persone c’è un legame, un’affinità, chiamala come ti pare. A volte non si incontrano per tutta la vita; certe volte, se sono particolarmente fortunate, si incontrano al momento giusto e hanno la fortuna di poter fare insieme qualcosa che somiglia ad un lungo viaggio. Che so, un matrimonio, un’amicizia, di quelle vere. Altre volte il momento non è quello giusto, il posto neanche, magari sono separati da chilometri, o da anni; ma se esiste, il legame, dico, queste persone si riconoscono. Si riconoscono e la loro vita non può rimanere uguale, perché sanno che quello che magari hanno cercato per tutta una vita esiste davvero. Rimane dentro qualcosa, per sempre, la sensazione di una mano accarezzata, il più bel tramonto mai visto nella storia dell’umanità. Si riconoscono e gli iceberg che avevano dentro si sciolgono”. Liana smise di parlare, perché dentro un mare di rosso ormai bruno, l’ultimo pezzettino di sole se ne andava dietro una montagna e lasciava il cielo a sanguinare e lasciava le nuvole, gli infiniti campi morti di novembre, e pure noi, senza più niente da poter aggiungere.
Liana fece un respiro, che somigliava a quello che, un giorno, sarà l’ultimo respiro dell’ultimo uomo sulla terra.
Io avevo tante di quelle lacrime, che non mi ricordai nemmeno di piangere.
“Anch’io ti ho riconosciuta” dissi io, nel momento esatto in cui tutto finì e il cielo divenne definitivamente buio.
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Le ho scritto una volta, qualcosa a metà tra un tentativo e una provocazione.
Lei mi ha risposto, con la più bella lettera che abbia mai letto.
Ho provato a chiamarla una volta, ma penso che l’ultima eco di quello che avevamo vissuto sia stata quella lettera, che finiva con queste tre parole: “Non siamo soli”.
Sono otto anni ormai, questo novembre e la mia vita ha seguito il più logico binario.
A Treviso ci sono stato, tre o quattro volte, ma l’amica di Orsetta non l’ho più vista o sentita, o meglio, non l’ho più cercata.
Non so dove sia, cosa faccia, e a volte la immagino, sola, ai bordi di un prato.
Non so perché, ma immagino quegli occhi verdi guardare il tramonto e stare ancora a aspettare.
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