mercoledì 25 gennaio 2012

AMNESIA

Quel rumore, come di strappo, che il treno fa quando entra in galleria a tutta velocità.

Quel rumore lo svegliò. Si sentì la bocca impastata, gli occhi incastrati, un piede addormentato.

Si guardò attorno e, quando il treno uscì dalla galleria, vide prati e qualche casa su una collina distante.

Cercò di concentrarsi. Dopo una decina di secondi sentì una goccia di sudore gelato scendergli sul collo.

Provò un impulso irrefrenabile di alzarsi e mettersi a gridare.

Si era reso conto che non sapeva cosa ci stesse a fare su quel treno, dove stessero dondolando quei vagoni.

Non sapeva niente. Non si ricordava nemmeno come si chiamava.

Nello scompartimento c’erano solo una signora sulla settantina con i capelli bianchi, quasi viola, che leggeva Confidenze, e un tizio con i baffi e un riporto disordinato che dormiva, con gli occhiali da lettura a metà della fronte.

Decise di correre in bagno.

Mentre correva si guardava le mani, sperando che gli facessero venire in mente qualcosa.

Quando entrò in bagno sentiva un odore acre di sudore; aveva già due aloni piuttosto estesi sulla camicia.

Chiuse a chiave il bagno, chiuse gli occhi dieci secondi.

Li riaprì.

Non si riconobbe.

Si sembrò un perfetto estraneo.

Era ben vestito; o meglio, da asciutta la camicia doveva essere di fattura pregiata.

Si lesse le iniziali ricamate: SDS.

I pantaloni avevano ancora la piega quasi perfetta.

Aveva i capelli che stavano tendendo al brizzolato; gli occhi, se non fossero stati quelli di un uomo sull’orlo della pazzia, erano di un bell’azzurro intenso.

In un attimo di lucidità, si disse che quell’uomo che vedeva allo specchio gli faceva venire in mente l’espressione aspetto distinto.

Cominciò a toccarsi; nella tasca posteriore dei pantaloni trovò il portafogli.

Trovò la patente, ma ci trovò una versione dell’uomo allo specchio di almeno vent’anni prima, con riccioli neri e un’espressione singolarmente spavalda.

Richiuse subito la patente.

Aprì la carta di identità.

Il nome del comune non gli disse nulla.

Il suo nome, Salvatore Di Stefano, non gli disse nulla.

La sua professione, avvocato.

Anno di nascita, 1961.

Queste due cose avrebbe potuto capirle anche un estraneo.

Si guardò allo specchio.

Lui era un estraneo.

Sarà un’amnesia temporanea, si disse.

Cercò di calmarsi, si lavò la faccia.

Si tolse la camicia e con qualche salviettina e il sapone, il cui odore ricordava le corsie degli ospedali, cercò di lavarsi e togliersi di dosso la puzza di sudore.

Stava per aprire la porta del bagno, quando vide la fede.

Era sposato, quindi. Con fatica se la sfilò e lesse dentro: "Rossella 14 luglio 1992".

Niente.

Tornò al suo posto. Guardò fuori e gli sembrò di riconoscere il paesaggio: la campagna e le colline a nord di Roma.

Ecco, questo gli sembrava giusto: era su un treno Firenze – Roma; l’orologio diceva che era da poco passata l’ora di pranzo. Gli venne in mente qualcosa, un nome: Fantini. Si alzò e dai ripiani sopra i sedili prese la borsa, la aprì.

C’era una cartellina di un verde chiaro intenso; c’era scritto "Studio dell’avv. Salvatore Di Stefano – Civile, Penale, Amministrativo". E poi più sotto, con un pennarello blu: "Fantini Rosa / Comune di Empoli – TAR di Firenze".

Sì, quella cosa se lo ricordava, una questione di espropri. La signora Fantini era la moglie di un farmacista, una signora con chili d’oro addosso e l’aria di chi si aspetta di essere servita e riverita.

In borsa trovò il cellulare.

Con qualche difficoltà riuscì a trovare la rubrica.

Stava per chiamare il numero memorizzato con "Rossella", ma poi gli sembrò più naturale tornare un po’ più in alto.

Fece il numero.

Una voce di una donna non più giovane, ma ancora determinata e brillante, gli rispose: "Toto, come va?"

"Bene, mamma, sono in treno". Furono le prime parole che si sentì dire da quando si era svegliato. La voce gli sembrava adattarsi bene a tutto il resto.

"A Benedetta è scesa la febbre, con un po’ di Tachipirina. A proposito hanno riaperto l’autostrada verso le undici". Ecco perché il treno, pensò.

"Ah davvero, bene". Poi entrarono in un’altra galleria e cadde la linea.

Quando il treno uscì dalla galleria l’avvocato Di Stefano cominciò a tranquillizzarsi: chiudendo gli occhi cominciavano a delinearsi delle forme.

Sua madre, con i capelli tagliati corti e gli stessi occhi celesti che aveva visto in bagno sulla sua faccia, una bambina di due – tre anni, un bambino più grande, forse sette o otto anni, con un braccio ingessato, una donna sulla quarantina che sembrava dire qualcosa del tipo Matteo non sta mai fermo.

Poi gli apparve una stanza con una scrivania massiccia e degli armadi pieni di libri e riviste; poi, con una fitta di dolore, un uomo, abbastanza vecchio, con un pigiama leggero steso su un letto, con gli occhi chiusi.

La fitta, per un attimo, passò. Poi, a mano a mano che le immagini di quella che doveva essere la sua vita gli correvano avanti, cominciò a sentire prima un sapore amaro in bocca, poi un fastidio fatto di noia e immobilità; poi, da qualche parte, sorse un senso di rancore, che si fece intenso, quasi insopportabile.

Riuscì a dominarsi e non si mise a urlare, come tutte quelle sensazioni avrebbero preteso.



Riprese il portafogli dalla tasca.

Aprì la patente. Guardò quel ragazzo di diciott’anni, con i riccioli neri e lo sguardo spavaldo.

Quel ragazzo sembrava che sapesse quello che voleva.

Decise che sarebbe ripartito da lì.

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