mercoledì 25 gennaio 2012

IL DOTTOR CORTESE
Il dottor Pierangelo Cortese, vicepresidente dell’Ordine dei dottori commercialisti di ***, se ne stava, porta chiusa e serrande abbassate, alla luce di un vecchio lumetto, che sua nonna gli aveva regalato per l’abilitazione.
La scrivania era vuota; sul computer un salvaschermo fatto di tubi sibilava.
La scrivania era classica, la poltrona presidenziale sobria, gli armadi con i libri divisi per argomenti, tre stampe di Kandinsky.
L’ultima mezz’ora era passata così. Aveva chiesto che non gli passassero telefonate e aveva sperato che nessun collaboratore lo disturbasse per un consiglio.
Del resto era la sera dell’ultimo giorno utile per i pagamenti delle tasse, fine giugno: tutti gli anni era serata quasi di festa, le ragazze della contabilità se ne andavano un’ora prima dell’orario stabilito.
Non riusciva a fare nulla.
Cercava di stare pressoché immobile.
Ogni tanto alzava gli occhi verso la foto di sua figlia, Gaia, che aveva ormai diciott’anni, dei quali gli ultimi due passati a lottare contro disturbi alimentari, con alternanza quasi ritmica di anoressia e bulimia.
La fase peggiore sembrava passata, l’estate precedente erano stati, Gaia, lui e sua moglie, in una clinica deprimente in un posto in Alto Adige che in altre occasioni avrebbe potuto sembrare piacevole.
La porta si aprì: era il dottor Giovanni Puglisi, il suo socio di studio, l’unico che poteva entrare senza bussare.
“Hai visto: fatta anche quest’anno!”, sorrise con quel sorriso siciliano che sembrava sempre canzonare piuttosto che esprimere gioia.
Il dottor Puglisi sembrò non fare caso all’assoluta assenza di attività nella stanza.
Il dottor Cortese aveva conosciuto il suo futuro socio di studio ad un corso dell’Ordine al quale stava facendo una lezione sulle novità della legge sulle manette agli evasori; Puglisi si era abilitato da un paio di settimane e faceva domande estremamente petulanti. Cortese non se lo fece scappare, perché intuì il potenziale di pignoleria e di puntiglio che per la gestione di contabilità era sinonimo di regolarità e correttezza.
Puglisi era antipatico, vestiva male, era un omarino grigio, con una moglie altrettanto grigia che insegnava religione ed una venerazione per il padre, vecchio funzionario dell’Intendenza di Finanza: ma era esattamente il tipo di persona che toglieva qualsiasi problema negli aspetti pratici della professione.
“Fatta, fatta” ammise Cortese.
“Senti, per domani sera è confermato tutto” fece Puglisi
“Tutto, cosa?”
“Come tutto cosa? La festa per i tuoi venticinque anni di professione. Abbiamo prenotato da Natalino, Piuttosto tua moglie viene? E Gaia?”
“No” disse Cortese, ripresosi dall’attimo di smarrimento. “Non vengono; poi sai come è mia moglie, meno gente vede e meglio si sente e Gaia, meglio se esce con qualche amica”
“Va bene. Che è questa luce così bassa?”
“Favorisce la concentrazione” Cortese sorrise
“Ah, certo” Puglisi rispose con quel sorriso che sembrava dire “A me non mi freghi”.
**
Il dottor Cortese salì sulla Audi A4 station wagon grigia, per tornarsene a casa, poco dotto le otto.
Non era appassionato di auto e non amava fare sfoggio; così guardava senza invidia le Jaguar o le Mercedes classe E di colleghi suoi coetanei, che probabilmente davano loro il brivido borghese del professionista arrivato.
Del resto non amava gli abiti particolarmente costosi e cercava di essere sempre sobrio. Non che provenisse da una famiglia povera, anzi, suo padre era stato uno dei primi ingegneri della città e spesso il dottor Cortese si incantava a guardare qualche palazzo o qualche ponte che suo padre (e poi suo fratello maggiore) aveva progettato.
Accese la radio e, come in ogni tragitto casa – studio e viceversa negli ultimi due mesi, fece partire la terza traccia di un cd.
Sapeva perfettamente il punto in cui gli sarebbe salita in gola un’amarezza fatta di bile e lacrime. A volte sentiva dei brividi violenti, un paio di volte aveva persino urlato.
Respirava sempre più lentamente; poi la strofa, inesorabile arrivò:
Ed il più grande conquistò nazione dopo nazione
E quando fu di fronte al mare si sentì un coglione
Perché più in là non si poteva conquistare niente
E tanta strada per vedere un sole disperato
E sempre uguale e sempre come quando era partito
Eppure negli ultimi mesi qualcosa di stimolante era arrivato; il Giudice delegato l’aveva nominato coadiutore del fallimento della Compagnia Casearia Italiana, una spa con quattro stabilimenti sparsi per il centro Italia.
Aveva avuto la ventura di conoscere meglio il curatore, l’avvocato Abbamonte.
Abbamonte era un uomo un po’ più in là dei settanta, con una fede incrollabile nel valore supremo della legge, un amore smisurato per il lavoro ben fatto. Era un uomo pignolo, onesto e rigoroso: ogni lunedì pomeriggio facevano una riunione per fare il punto della situazione e decidere gli atti da fare nella settimana successiva. “Sono il primo avvocato del foro, in ordine alfabetico, ovviamente” aveva detto l’unica volta in cui si era lasciato andare ad un argomento diverso dalla gestione della procedura.
Come fa Abbamonte?, si chiedeva Cortese, come si fa alla sua età, con il suo prestigio, ad avere ancora l’entusiasmo di un praticante alla prima settimana di Tribunale?
Pensare ad Abbamonte era o il preludio o il corollario a quella terribile e disperante strofa di Vecchioni.
Arrivò a casa svuotato, quella sera; uscendo dal garage montò sulla sua faccia qualcosa che poteva somigliare ad un sorriso. Gaia poteva averne bisogno.
***
“Allora andiamo?”; Puglisi era spuntato dalla porta preceduto dai granelli di forfora che cadevano dalla giacca blu.
“Solo un secondo” disse Cortese.
Premette il tasto Esc del computer; il salvaschermo a tubi si dissolse ed apparve la maschera iniziale di Windows. In tutto il pomeriggio non aveva aperto neanche un file. Per la verità non ricordava come aveva passato il tempo dalle quattro alle otto.
La mattina aveva trovato un espediente.
Alle dieci e mezza aveva preso la borsa, con dentro un’edizione tascabile del Testo unico e un codice delle società e nient’altro, bofonchiando un “Vado in Tribunale” abbastanza credibile.
Entrando nella A4 aveva acceso al massimo l’aria condizionata, era riuscito a non cadere nella tentazione – punizione di accendere il cd ed era partito. Era passato davanti al Tribunale; era andato oltre, un chilometro più avanti c’era l’ingresso dell’autostrada, il pigolio del Telepass, si era diretto a caso, verso Nord e dopo tredici chilometri si era fermato all’Autogrill.
Aveva trovato miracolosamente un posto all’ombra, era sceso ed era entrato nell’Autogrill: l’aria fresca del locale gli era piaciuta, come il fatto di essere in un bar dove non conosceva nessuno.
Aveva preso un cappuccino senza infamia e senza lode e aveva bighellonato vicino agli scaffali dei libri e dei dischi per una mezzoretta. Tornato indietro, aveva comprato la Gazzetta dello sport ed era tornato alla macchina, che adesso era per la metà al sole.
Aveva deciso quindi di partire, e si era messo a guidare in autostrada con il giornale poggiato sul volante.
Qualche pagina di calciomercato, uno sguardo ai nomi dei cavalli, che di solito lo mettevano di buonumore. Poi alla prima uscita utile aveva lasciato l’autostrada, il tempo necessario per fare l’inversione a U e rientrare in autostrada.
Era risalito in studio che era quasi l’una, quasi sereno.
****
La tavolata da Natalino era allegra e caciarona.
Puglisi, le tre ragazze della contabilità (Cortese continua a chiamarle le ragazze anche se la più giovane era sopra i trentacinque), Paola, la segretaria, la moglie di Puglisi, Piero e Angela, i due colleghi – collaboratori di studio, che a forza di stare sempre insieme a fare ricerche si erano fidanzati ed un ragazzo che Cortese non riconobbe.
“Quello chi è?” chiese sussurrando Cortese a Puglisi.
“Si capisce che stai sempre recluso da un mese a questa parte; è Federico Chiari, il figlio del professor Chiari. Ti ricordi quel mio collega, che è morto di tumore tre anni fa, quello che recitava, spesso anche durante le lezioni di tecnica. Si era fatto promettere che avremmo fatto fare la pratica al figlio da noi”.
“Ah già, ora mi ricordo” disse Cortese. Fissò il ragazzo, esile, quasi malaticcio, con una giacca a scacchi beige e marroni ed una polo a strisce rosse e blu, messe una sopra all’altra in maniera evidentemente casuale.
La serata scorreva più o meno sui suoi binari: antipasto maremonti, tagliolini zucchine e gamberetti, grigliata di carne con le mitiche patate al forno di Natalino.
E poi aneddoti di lavoro.
Piero: “Ve la ricordate Fabiola, quella che secondo Michele doveva fare la capo contabile alla società di costruzioni. Io gli faccio: ma le spese di manutenzione, l’eccedenza rispetto al cinque per cento, per capirci, ex articolo 67, la devi riprendere a tassazione. E lei: ma se non è più in vigore ‘st’articolo 67 perché lo devo applicare? E io: in che senso. E lei, seria seria: l’hai detto tu Pié, ex articolo 67 vuol dire che mo’ non esiste più.”
E Puglisi: “Allora andiamo alla Finanza per una perizia penale: i finanzieri ci raccontano di tre soci scalcagnati di una snc di costruzioni che vanno dai carabinieri e denunciano che tutta la contabilità della società, roba tipo dieci anni, stava tutta dentro una Uno e la Uno gliel’hanno rubata. E allora il maresciallo che sta scrivendo il verbale gli chiede la targa. E uno dei soci, tutto spedito gli dice tipo Roma 9E2109. Un altro socio gli va sottovoce “come fai a ricordartela a memoria la targa?”. E quello che ha detto la targa gli ammicca verso il monitor della telecamera dell’ingresso, dove si vedeva distintamente la Uno. Insomma, questi pazzi scatenati non solo si inventano che la contabilità di dieci anni entra nella Uno, ma vanno a fare la denuncia proprio con la Uno e dove la parcheggiano? Praticamente all’ingresso della stazione dei carabinieri”.
Così, raccontando storie già sentite, ogni tanto parlando dei problemi da risolvere l’indomani, arriva quasi mezzanotte.
A un certo punto Paola fece: “Ma lo sapete che Federico fa l’attore?” Tutti si misero a guardare verso il praticante ed il viso malaticcio si accese di imbarazzo. Una delle ragazze: “Dai, recita qualcosa”, altri lo incoraggiano.
Dopo un minuto buono, Federico accettò. “Due cose: non mi metto in piedi, perché se no mi sembro il bambino che recita la poesia di Natale. Secondo: non vi faccio un pezzo, ma dato che stiamo facendo un recital di poesie del Novecento, vi recito la poesia di Montale che mi piace di più”
“Ok vai Federì” disse Puglisi.
Si fece un gran bel silenzio, a tavola.
Federico chiuse un secondo gli occhi e quando li riaprì sembrava trasfigurato. Non era più il timido, l’ultimo dei praticanti, era l’attore.
Anche il respiro che fece prima di iniziare sembrava il primo verso della poesia, e poi:
“Forse un mattino andando in un'aria di vetro,
arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore di ubriaco.
Poi come s'uno schermo, s'accamperanno di gitto
Alberi case colli per l'inganno consueto.
Ma sarà troppo tardi; ed io me n'andrò zitto
Tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.”
Era quello l’imbuto in cui tutti i pensieri di quei mesi dovevano finire.
Il dottor Cortese cominciò a sudare freddo, avrebbe voluto cacciare fuori il grido più forte del mondo, ma si sentiva come, da bambino, cercava di stare il più a lungo possibile sott’acqua, con le tempie a martellare e i polmoni a bruciare.
Cercò di fare finta di niente, ma qualcuno probabilmente riuscì a leggergli il tremendo pallore del viso, qualcuno dovette sentire il rumore delle nocche strusciate sulla paglia delle sedie, fino a farle sanguinare.
Si ritrovò in macchina, senza sapere come.
Nonostante non fosse una sera calda, mise comunque l’aria condizionata al massimo.
Partì, con la mente che non riusciva a fare altro che il minimo per non finire fuori strada.
Arrivò davanti al vialetto che portava a casa sua, ma andò oltre. Passò davanti al Tribunale, ma andò oltre, un chilometro più avanti c’era l’ingresso dell’autostrada, il pigolio del Telepass, si diresse a caso, verso Nord, passò l’Autogrill, passò l’uscita dove la mattina aveva fatto l’inversione ad U e continuò ad andare avanti.
Tutta la notte, ed altre ore dopo, guidando e guidando, cercando di fare il minimo indispensabile per non finire fuori strada.

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