mercoledì 25 gennaio 2012

IL GENERO

Ho sempre avuto le fossette sulle guance. Una delle due è più profonda. Ora come ora non saprei dire se è la destra o la sinistra, perché io, come tutti, le mie guance le guardo allo specchio.

Ma stamattina mi stavo lavando i denti. In camera da letto Toni e Margherita stavano litigando; io mi lavavo i denti distratta: Toni aveva detto, l’avevo sentito distintamente, aveva detto ‘vaffanculo’. A sei anni già ‘vaffanculo’. Sulla guancia, la fossetta più profonda non era più una fossetta; era una ruga.

Ho fatto trentacinque anni a agosto e non dovrei preoccuparmi. E invece è uscito un urlo. Panico puro.

Toni e Margherita sono stati cinque secondi zitti. Cinque secondi che mi sono sembrati un secolo.

Una goccia gelata di sudore sotto il pigiama, dalla spalla è arrivata giù fino al fondo della schiena.

Simone non c’è; stanotte hanno arrestato Benito Martino, che è cliente di mio padre da vent’anni. "Uno dei clienti di punta" aveva scherzato papà a tavola a Natale due anni fa; la mattina della vigilia avevano arrestato Benito Martino con una ventiquattr’ore piena di pasticche, e papà si era perso la cena della vigilia per un interrogatorio.

Papà ha chiamato Simone alle sei e mezza stamattina; l’interrogatorio è a Rebibbia alle nove e sono partiti presto; io e i bambini dormivamo ancora.

Simone non ha fatto il minimo rumore; si sarà vestito in bagno. Non mi ha salutato con un bacio sulla fronte; qualche volta l’aveva fatto.

Mi sono svegliata e non c’era, semplicemente.

Non era colpa dello spazzolino. La ruga c’è davvero; sembra profonda, sembra quasi una cicatrice.

**

Sono vent’anni che io e Simone stiamo insieme; due mesi fa siamo andati a cena fuori per festeggiare vent’anni dal primo bacio. Erano due anni che non mangiavamo da soli, io e lui; siamo andati in un ristorante di pesce, poco fuori città. Io ero la prima volta che ci andavo; Simone, invece, chiamava per nome i camerieri e loro lo chiamavano, con deferenza, avvocato.

Il proprietario si è seduto un quarto d’ora al tavolo. Hanno parlato di vini, poi di un assessore un po’ chiacchierato. Io ho provato tutti e tre i tipi di pane farciti, alle noci, alle olive e il terzo, non me lo ricordo; mi sono riempita di pane e non sono riuscita a toccare l’orata.

Andando a casa, lui ha passato il tempo a sistemare la temperatura dell’aria in macchina, quasi in maniera nervosa, 20 gradi per lui e 22 per me. Nel silenzio ho sorriso pensando al fatto che io sono sempre stata la freddolosa di famiglia.

Io e Simone stiamo insieme dal quinto ginnasio.

Betta, la mia migliore amica, dice che è impossibile nominare uno dei due senza aggiungerci subito il nome dell’altro; nessuno ha mai detto Simone e basta, ma Simone e Milena, Milena e Simone, da più di vent’anni ormai.

Ci siamo diplomati lo stesso giorno; del resto lui di cognome fa Ranieri e io Russo e quindi eravamo uno dopo l’altro nell’elenco alfabetico della classe.

Abbiamo fatto giurisprudenza insieme; ci sembrava naturale. Già allora papà era uno dei più noti penalisti della città. Ovviamente abbiamo fatto tutti gli esami insieme; ci siamo laureati lo stesso giorno, in diritto penale. Io la lode e lui no; per la verità ho passato sei mesi ad aspettarlo perché ha avuto qualche problema con diritto commerciale.

Abbiamo cominciato a fare pratica da papà; ci siamo abilitati insieme; abbiamo giurato da avvocati lo stesso giorno, prima lui, perché ci fecero giurare in ordine alfabetico.

Siamo sposati da otto anni; Antonio, Toni, ha sei anni, l’ho già detto, Margherita tre.

Sono i nomi di papà e di mamma. Simone ha insistito tanto perché li chiamassimo così.

***

Quando esco dal bagno trovo Margherita in lacrime. Toni è spietato: "se l’è fatta sotto".

Il letto di Margherita è bagnato. "Non fa niente, piccola" cerco di consolarla. "Tu" faccio a Toni "vai al bagno a lavarti; e poi vestiti che è tardi".

Margherita mi abbraccia; quando mi abbraccia sembra avere una forza spropositata rispetto al corpicino tutto pelle e ossa che si ritrova.

Dire che è attaccata a me è limitante. Ogni mattina che provo ad andare a lavorare urla; riesce già a tre anni a inventarsi malattie psicosomatiche per fare in modo che io non la porti da mamma. Da una quindicina di giorni sembra andare un po’ meglio. Dopo le vacanze di Natale voglio provare a portarla alla materna.

"Io non voio il pannolino" dice tirando su con il naso.

"Lo so che sei grande ormai, stellina" le sorrido.

"Vuoi metterti la gonna stamattina?"le propongo.

"Quella cozzese" ora sorride.

Le prendo dal cassetto una gonna scozzese rossa con le pieghe. Non se la toglierebbe mai. Quando la metto in lavatrice sembra Linus con la coperta, non riesco a convincerla che la gonna uscirà intatta da lì dentro.

"Mamma sei superbella" lo dice con occhi quasi sognanti. Ha voluto i capelli tagliati come i miei e spesso ho visto che imita i miei gesti: accavalla le gambe tutte le volte che si siede sul divano dopo aver passato le mani sulla gonna come per lisciarla, esattamente come faccio io.

Dopo che le ho messo la gonna, una calzamaglia bianca e un maglione rosso che sembra un’anticipazione del Natale mi guarda e mi dice: "Oggi da nonna no" e mi accarezza; anzi non mi accarezza, ma segue dall’inizio alla fine, per tutta la guancia, l’incisione profonda di quella fossetta che si è fatta ruga.

****

Ho portato lo stesso Margherita da mamma; ha pianto e alla fine le ho messo Gli Aristogatti e ha cominciato a calmarsi quando Edgar girava per Parigi con la motoretta smarmittata.

Sono andata verso lo studio; in Tribunale non ci vado quasi mai, vado la mattina in studio e curo tutte le pratiche di civile che abbiamo, poche per la verità.

Poi a discuterle in udienza ci va Simone o uno dei praticanti; un paio di volte che ci sono andata, mentre aspettavo il mio turno per la discussione ha chiamato mamma perché uno dei bimbi stava male o qualcosa del genere e ho finito per lasciare l’udienza scoperta. Simone mi dice che quando anche Margherita sarà andata alle elementari sarà più semplice e potrò tornare a lavorare, se non proprio a tempo pieno, almeno per un paio di pomeriggi alla settimana. ‘Sei troppo importante per i bimbi. Sono piccoli e hanno troppo bisogno della mamma’ mi dice spesso ed è ovvio che è vero.

Anche stamattina dovrei preparare una comparsa conclusionale per una pratica di anatocismo di un piccolo imprenditore che papà difende da un’accusa, fondata per la verità, di sfruttamento della prostituzione.

Da un paio d’anni papà e Simone hanno trasferito lo studio in un palazzo nuovo, pieno di studi legali; papà ha comprato lo studio e l’ha intestato a me e Simone, dice che lo studio è il nostro e quindi non aveva senso che se l’intestasse lui; io ho una stanzetta piccola di fronte a quella di Franca, la storica segretaria di papà, accanto alla sala d’attesa.

Simone e papà hanno due grandi stanze in fondo; si sono fatti fare i mobili su misura da un vecchio falegname che andava lentissimo ma che alla fine ha fatto un piccolo capolavoro. Hanno gli stucchi veneziani al soffitto e due scrivanie uguali, classiche, di noce, pesanti, che danno un immediato senso di solidità e serietà.

Mi fermo sotto lo studio; ho fortuna e trovo subito un posto senza fare i tre o quattro classici giri dell’isolato.

Ho una bella borsa di pelle, nera e lucidissima, un regalo di Simone, con dentro la pratica della conclusionale. Avevo provato a portarla a casa ieri sera, per lavorarci un po’ col portatile, ma è stato impossibile. Margherita avrà impiegato un’ora e un quarto per cenare.

La versione di Spiderman di Michael Bublé è a metà e non ho voglia di scendere dalla macchina prima che finisca; Micheal Bublé mi piace, anche se Betta dice che è l’idolo delle quarantenni e quindi è un sintomo di un mio invecchiamento precoce. Me l’ha detto l’altro ieri, mi sembra e mi ci sono fatta una risata.

Stamattina chiudo gli occhi ma Spiderman non mi appare; li riapro e guardo nello specchietto, ma non per vedere se per caso mi sono sbaffata il rossetto.

La ruga sta lì, profonda e feroce, e Micheal Bublé canta con la sua voce da Sinatra dei poveri a una donna di quarant’anni, che non ha il coraggio di scendere dalla macchina.

****

Spengo il cd. Comincia a piovere, un’acquerugiola quasi invisibile. Tra la macchina e il portone del palazzo dove sta lo studio c’è un bar; è nuovo nuovo, i cornetti sono surgelati e al bancone ci sta un’ucraina a cui bisogna sempre ripetere l’ordinazione due volte. Potrei prendere un cappuccino, penso, o addirittura una cioccolata calda.

Sono paralizzata.

Ho trentacinque anni e potrei tranquillamente scomparire. Adesso. Toni e Margherita ne soffrirebbero, certo, poi magari con il tempo. Simone si riprenderebbe subito, ha la sua scrivania di noce, nei ristoranti lo chiamano avvocato, a me mi chiamano signora, la moglie dell’avvocato.

Lo studio andrebbe avanti, senza problemi; le pratiche di civile, per quelle basta un praticante un po’ sopra la media, oppure potrebbero darle a qualcuno dei colleghi che fanno civile e che quando si presenta da loro qualcuno con qualche problema di penale, un abuso edilizio, un figlio fermato con una dose, fanno il nome di papà. O di Simone. Di papà o di Simone. Mai il mio.

Vorrei tornare da Margherita; c’è il pezzo in cui Minou cade nel fiume che la spaventa sempre. Quando vediamo insieme il dvd, lei mi stringe la mano forte.

Ecco, se sparissi Margherita ne soffrirebbe di certo. Toni no, Toni è come il padre, è destinato a una scrivania di noce.

*****

Una settimana fa.

Sono convinta che una settimana fa la fossetta non era ancora diventata una ruga.

Siamo andati io e Simone, insieme nell’altro Tribunale della provincia, per un processo per truffa.

In quella cittadina c’è un dietologo, uno di quelli che dicono ti faccia dimagrire togliendo qualche alimento. Questione di intolleranze. Ho approfittato del fatto che Simone aveva il processo per andare; mi scoccia guidare in autostrada.

Alle nove Simone mi ha lasciato davanti allo studio del dietologo. Nello studio non c’è nessuno, io sono la prima.

Entro, il dottore mi visita, una visita generale e mi dice: "Signora dopo due gravidanze è normale che i tessuti si rilassino un po’; in fondo lei ha solo un po’ di depositi adiposi sui fianchi. Ma vedrà..." E poi mi ha detto di non mangiare latte, latticini e derivati del latte per un mese e poi tornare da lui. Sono le nove e mezza; non mi aspettavo di fare così presto.

Il corso principale era quasi vuoto; i negozi sono i soliti franchising e quindi i vestiti, le scarpe, i cappotti esposti, mi sembrava di averli visti milioni di volte.

Sono entrata in un bar e ho deciso di dire addio al latte e ai suoi derivati con un maritozzo alla panna e un cappuccino chiaro.

Si era messo a piovere anche quella mattina, così ho deciso di andare in Tribunale per vedere a che punto era Simone.

L’aula penale era quasi piena, ma il collegio non c’era; mi sono messa a cercare Simone.

Alla fine l’ho visto di spalle, la toga appoggiata sul braccio. La toga di papà.

Sta parlando con il PM; anche se saranno sette anni che non andavo in quel Tribunale, ho riconosciuto il PM, un volto noto per un processo per l’omicidio di un ragazzino di tredici anni da parte di una banda di balordi.

Il PM sta ridendo, sta con le mani giunte; mi sembra di interpretare il labiale, ‘avvocato, ma che sta dicendo?’, ma il tono sembra canzonatorio, confidenziale.

Io ero tra il pubblico e stavo per superare la sbarra, quando mi hanno urtato due ragazze, due praticanti sui venticinque anni.

Si sono scusate e poi si sono fermate proprio al passaggio tra la parte riservata al pubblico e quella riservata agli avvocati.

Stanno guardando verso Simone ed il PM.

Una ha chiesto all’altra: "Ma chi è quello che sta parlando col PM?"

"E’ Simone Ranieri, è il genero di Tonino Russo". Un attimo di silenzio, poi ha continuato con il tono più basso. "E’ uno di quelli che sulla carta d’identità al rigo della professione ci dovrebbe essere scritto genero".

******

Ora ho cominciato a piovere forte; anche i tre passi che mi separano dal marciapiede, che è al riparo di un balcone, mi ridurrebbero come un pulcino.

Il vetro si è appannato; mi sono messa a pensare al silenzio di ghiaccio del viaggio di ritorno da quel Tribunale.

Dentro la Mercedes classe E nuova di sei mesi il silenzio è stato rotto solo da due telefonate di papà; la macchina ha quel sistema di viva voce incorporato nella radio o come diavolo funziona.

"Simone, come è andato il processo?"

"La parte lesa non s’è presentata per testimoniare"

E poi sono andati avanti così per due minuti, poi è caduta la linea; papà ha richiamato e si sono dati appuntamento alle quattro di pomeriggio a studio per una difesa di un ragazzino ricco che si era messo a spacciare coca.

Manco ciao Milena; manco è venuta pure Milena, sta qui, la saluta.

Prima e dopo quelle telefonate il silenzio.

La pioggia assorbe tutti i rumori della città; forse il rumore della pioggia è solo un particolare tipo di silenzio.

Sto piangendo; le lacrime mi colano sul viso, come l’acqua sul parabrezza.

Vent’anni; anzi no vent’anni e due mesi.

Che cosa sono io?

La moglie dell’avvocato.

Che cosa sono io?

Una toga ripiegata sul braccio; cosa mangia avvocato stasera?; una scrivania in noce; stucchi veneziani; una Mercedes classe E, che ci puoi parlare al telefonino senza auricolare; ma sì chiamiamolo Antonio, come tuo padre; i bambini hanno bisogno di te; lui avvocato, io signora; due scrivanie in noce, uguali; hanno arrestato Benito Martino, il cliente di punta, l’interrogatorio alle nove e mezza; professione: genero.

Certo di asciugarmi le lacrime, ma non le trovo più.

Tutte le lacrime che ho pianto sono finite dentro la ruga, quella ruga nuova nuova che mi è spuntata sulla guancia.

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