mercoledì 25 gennaio 2012

FUORI DA UN BAR



La rividi dopo un mese.

Avevo lasciato un libretto degli assegni e il passaporto in fondo a un cassetto, in camera da letto.

Lei però me l’aveva messi sul tavolo della cucina, perché, probabilmente, era la prima stanza in cui si entrava dall’ingresso.

Io avevo suonato e lei aveva aperto, poi era scappata, verso la stanza da letto, la più lontana.

Un amico comune mi aveva avvertito e aveva preso accordi per me, il giorno e l’ora.

Io l’avevo vista di spalle, con una tuta grigia e le ciabatte da piscina. Le maniche della tuta erano tirate giù a coprirle le mani.

Quel gesto mi era familiare; lei aveva sempre freddo.

Ero andato via un mese esatto prima, e il fatto che fossi lì a un mese esatto di distanza mi sembrò quasi un modo per festeggiare l’avvenimento.

Ero andato via durante il giorno. Fumare, non ho mai fumato e la storia di andare in strada a comprare le sigarette per poi non risalire più, beh, quella non l’avrebbe bevuta.

Era un giovedì. Io ero di riposo e lei invece era fuori Roma, per un corso di aggiornamento, forse a Chianciano, un posto così.

Perciò ebbi tutta la giornata per sbaraccare. Presi due vecchie borse da ginnastica; in una c’entrarono tutti i vestiti; nell’altra cd e libri, l’accappatoio, il rasoio elettrico, scarpe e ciabatte.



Misi un po’ di roba, vecchi pigiami, una giacca a due bottoni, magliette lise, dentro buste di plastica e le buttai, senza tanto rimpianto.

I mobili li avevamo comprati insieme, ma non me ne feci un cruccio. Stavano bene dentro quella casa piena di luce, quel divano panna, la cucina verde chiaro, il tavolino che pareva quasi di formica, come i banchi di scuola.



Un foglio, anzi, un post-it giallo. "Me ne vado. Non cercarmi".

Faccio l’autista dell’Atac e quindi non ho un ufficio; mi sono fatto cambiare tutti i turni, le linee; ho fatto corse in periferie, in canyon di palazzoni lunghi chilometri. Non sapevo nemmeno che esistessero, quelle strade, quei quartieri.

Il telefonino, quello l’ho buttato, insieme coi pigiami.

Mi sono preso una stanza, in una pensione, in una traversa di via Cavour. Il bagno è in corridoio e non c’è manco un italiano. Meglio, così non parlo con nessuno.



Me ne sono andato. No, non era premeditato. E’ che quella mattina non mi andava di fare colazione a casa e ero andato giù al bar, latte macchiato e un cornetto duro e secco.

Quando sono uscito sono andato a sbattere a due vecchi.

Lui ci aveva quegli occhiali con la montatura pesante e una lente appannata; lei una crocchia in testa, che sembrava sporca di settimane.

La fede scavava quasi l’anulare di lui; la busta di plastica la portava lei con due panini e due peperoni.

I tre occhi che ero riuscito a vedere erano acquosi, morti, un passo oltre la rassegnazione.



Lei aveva la voce quasi rotta, dalla stanza da letto; disse il mio nome quando stavo aprendo la porta di casa.

Era uguale, in fondo, era come me la ricordavo, come l’avevo conosciuta: due begli occhi celesti, anche se appesantiti dalla mia assenza, bassina ma ben disegnata. Le braccia conserte, le mani invisibili, sotto le maniche.

Stava per aprire bocca. "Non dire niente, non capiresti", le dissi e chiusi la porta e scappai, prima che potesse fare qualcosa di clamoroso, che so, cercare di picchiarmi, urlarmi bastardo nella tromba delle scale.

Non avrebbe capito, che avrei voluto per sempre ricordarla così, giovane, bella, un corpo ben fatto, gli occhi vivi e brillanti.

Mai e poi mai saremmo diventati due vecchi, con gli occhi morti, una busta in mano, fuori da un bar.

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