mercoledì 25 gennaio 2012

IRLANDA
Sono gia’ due anni, a settembre. Antonietta pensava a Guido, che da due anni era finita, due anni a settembre.
E nelle cinque e mezza dell’ultimo giorno di lavoro prima delle ferie, Antonietta non riusciva a pensare ad altro, solo a Guido.
Il boss era via già da due settimane e, Antonietta si rammaricava ad ammetterlo, l’assenza del boss le dispiaceva. Giambuia, il dottore, il boss, era un signore di mezza età, dall’aspetto piuttosto grigetto, tranne i capelli tinti di nero-lucido da scarpe: era un buon capo, anzi un ottimo capo, che la strapazzava di sarcasmi e la seppelliva di lavoro.
La segretaria di direzione in una società di consulenza di direzione, diceva il boss ad Antonietta, è quasi mezzo capo. Antonietta obiettava la differenza di reddito di un paio di centinaia di migliaia di euro, ma in fondo era l’unica segretaria che si pappava a Natale il bonus per lo staff; e persino quando il boss era andato in ferie, dopo la fine del lavoro per la Anson & Williams (e’ andata benone, aveva detto il boss), ci era scappato un bonus di cinquecento, buono buono per le ferie.
Ma alle cinque e mezza dell’ultimo giorno di lavoro prima delle ferie, Antonietta non pensava alle ferie. Sempre Guido di mezzo.
L’anno prima era stata a casa, al paese, dai suoi; erano quattro anni che non ci tornava ad agosto.
Poi squillò l’interno e la centralinista le disse “E’ una tale Luisa”. Antonietta si riscosse e Luisa le disse “Ciao Anto, ho preso i biglietti”. Anto, per fortuna; Guido preferiva Ninetta. “Ci vediamo martedì per i bagagli e tutto il resto, rimani a dormire da me, perché alle quattro e mezza di mercoledì mattina ci dobbiamo svegliare. Il volo è alle sette”.
D’accordo, aveva risposto Antonietta; il boss avrebbe detto “benone”.
**
Luisa aveva un’erboristeria o era di sua cugina; comunque stava in questa erboristeria e la sera del martedì e del giovedì andava in palestra, la stessa di Antonietta. Antonietta c’era finita per seguire Daisy, la segretaria americana di Ian Davis, il gallese responsabile delle relazioni internazionali. Daisy andava in palestra perfino nell’ora di pranzo e tornava con le guance rubizze.
Antonietta per non stare da sola due sere la settimana l’aveva seguita.
Luisa portava un bodino anche troppo discinto e per ridere un po’ l’istruttore le aveva messe insieme per qualche esercizio in coppia. Antonietta era uno e sessantadue, sì e no, Luisa le portava quindici centimetri, ma era cosi’ magra che pareva uno e novanta.
Dopo la doccia ne risero anche loro e Antonietta notò che le ossa ai lati del collo erano così sporgenti che sembravano voler schizzare via; cominciarono a parlare di shampoo (Luisa quel giorno aveva qualcosa che sembrava ortica), poi pensarono a una pizza, forse un sabato sera.
Il sabato sera erano andate ad un ristorante vegetariano e la prima cosa che scoprirono fu che erano quasi gemelle. “Gli anni di Cristo” fu l’ovvio commento di Luisa.
Luisa disse da subito: “l’estate me ne sto da sola; l’inverno no, d’inverno voglio cambiare ogni sera, stasera ad esempio volevo stare da sola”.
Io sto sempre da sola, pensava Antonietta, ma chiese “In che senso?”.
“Nel senso che d’inverno mi piace avere qualcuno, senza impegno, con impegno, voglio qualcuno che pensi a me, che mi inviti a ballare, a proposito vai mai in discoteca? Dicevo” (aveva visto gli occhi di Antonietta sbiadire) “mi piace cambiare, qualcuno direbbe che ci sto” rideva. “D’estate, d’estate mi piace viaggiare, andare dove mi pare, senza nessuno che mi imponga niente. A volte sono felice come una bambina, a volte mi sento sola come una cagna, però alla fine mi piace. L’anno scorso volevo andare ad Ibiza, poi mi è sembrato troppo futile, troppo facile e mi sono fatta un giro dei Pirenei. Pensa che sono andata persino a Lourdes: di un mistico, un’esperienza con tutte quelle sedie a rotelle, i vecchi e i malati, le processioni notturne, le suore, non pensavo che ci fossero tante suore. Due anni fa sono andata in Grecia, volevo provare ad entrare al Monte Athos, ci hai in mente quel monte con i monasteri ortodossi dove ci stanno soltanto gli uomini; avevo pensato adesso mi travesto e c’entro, poi magari mi spoglio cosi’ davanti a tutti e vediamo che succede. Sono capace di queste cose, davvero.”
Questa che va per monasteri e per Madonne, si disse Antonietta.
“Quest’anno ho pensato, quando ti ho conosciuto ho pensato, con Anto” Da quand’è che mi chiama Anto?, pensò Antonietta, “se dovessi andare con qualcuno st’estate, ci vorrei andare con Anto. Perché ho capito che sei come me, che cerchi qualcosa di diverso, che ti faccia davvero felice. Tu sei felice?” “Poco” rispose stavolta Antonietta, non ora, lo sono stata a volte con Guido, avrebbe voluto precisare, ma se comincio a parlare di Guido dove vado a finire?
“E stavo pensando, cosa c’è di più bello, più pacifico, più tranquillo dell’Irlanda?”
***
La sera prima di partire, alla fine di un lunedì di caldo spossante, Antonietta si trovò a non avere niente nel frigo.
Scese dai suoi cinquanta metri quadri in affitto all’inizio della Nomentana e finì nella solita rosticceria, dove quasi sempre finivano tutti i propositi per la dieta.
“Piccola e rotondetta, mi piaci così, piccola e rotondetta”; Guido le diceva così, quando voleva farle un complimento; certo lei avrebbe preferito altro, qualche parola più precisa, tesoro mio, magari, ma, davanti allo specchio della rosticceria, “piccola e rotondetta” le mancava da morire.
Guardò il banco delle pietanze, un po’ desolato in verità, e prese una pasta fredda con pachino e rucola, una cotoletta impanata e un po’ di cicoria ripassata.
Stette un attimo a pensare se spararsi una birra, poi pensò che dominava il frigo una lattina di Diet Coke; pagò, prese le tre vaschette di stagnola, in una busta di plastica mezza rotta e se ne tornò a casa.
La pasta non era fredda, ma scotta; la cotoletta era così e così, la cicoria era niente male.
La busta di plastica della rosticceria divenne busta dell’immondizia e alle dieci e mezza scese per il conferimento al cassonetto alla piazza del bersagliere.
Sotto il bersagliere: classico appuntamento dei ragazzi romani; il primo appuntamento con Guido, ovviamente, sotto il bersagliere.
Si erano conosciuti a una festa, dove Antonietta era andata insieme alla sua compagna di stanza e di università, Rossella. La festa, se non ricordava male, era di un cugino di Rossella e lì aveva visto Guido.
Lei aveva ventiquattro anni, lui venticinque, capelli neri lisci, pettinati con la riga sopra una testa perfettamente rotonda. Gli occhi neri si accendevano solo quando il sorriso non era di circostanza.
Non li presentò nessuno, semplicemente, si trovarono a canticchiare tutti e due a memoria Tunnel of Love dei Dire Straits e perciò tutto cominciò da Mark Knopfler.
“Ti piacciono i Dire Straits” “Da morire” e così via.
Il sabato sera successivo l’appuntamento era per le otto sotto il bersagliere.
Lui arrivò con un BMW e (ma Antonietta l’avrebbe capito un po’ di tempo più tardi) non per fare colpo.
Lui mise Making Movies appena lei entrò in macchina e stettero una mezzoretta così sotto il bersagliere a sentire gli assoli di Mark Knopfler.
Guardava il bersagliere con il sacchetto dell’immondizia e sentì, nota per nota, dentro la testa, l’assolo finale di Tunnel of Love e le venne in mente Guido, il Guido di quella sera, quello che era stato così delizioso da non parlare se non dopo tutta la cassetta, per evitare di commettere sacrilegio.
Buttò l’immondizia nel cassonetto, fece un sospiro e, sperando di non pensare più a nulla se ne tornò a casa.
****
A Dublino, ovviamente, pioveva.
Luisa aveva dormito dal momento del decollo a quello dell’atterraggio, senza soluzione di continuità e, a quanto pare, senza Valium.
Antonietta, un po’ rincoglionita dai tranquillanti, guardava le nuvole basse su una campagna più marrone che verde.
Recuperarono i bagagli, spostarono gli orologi, e fecero la più anglosassone delle file per il taxi.
Non si scambiarono praticamente una parola fino all’hotel, che appariva un po’ decentrato rispetto al Trinity College, che, avevano letto, era il cuore della città.
Avevano un po’ discusso al momento della prenotazione se prendere una doppia o due singole, poi la differenza di prezzo le aveva convinte alla convivenza.
Ad Antonietta ricordò un po’ i tempi dell’università; anche la casetta di via Nomentana in realtà era divisa con Gioia, che però continuava a pagare la sua metà dell’affitto, nonostante stesse per nove mesi l’anno in qualche paese dell’ex Unione Sovietica a fare l’ingegnere minerario.
Luisa aprì la valigia e cominciò ad organizzare la divisione dei cassetti e dell’armadio. “Io dormo nel letto più vicino alla finestra. Per te è ok?” chiese.
“Ok, ok” rispose Antonietta, mentre guardava spuntare dalla valigia di Luisa alcune tuniche arabeggianti, forse un po’ troppo leggere per Dublino.
“Vado a farmi la doccia” disse Antonietta, più per trovarsi un attimo da sola che per effettiva esigenza.
“Il bagno com’è, Anto?”
“Niente male; ovviamente non c’è il bidet”
“Poco male, faremo la doccia”.
Antonietta si spogliò e si guardò di sfuggita allo specchio. Piccola e rotondetta, pensò; capelli con la tintura nera, pensò, per quei fili bianchi ostinati sopra le orecchie. Occhi un po’ persi e di la’ una ragazza con le tuniche che forse si metterà a bruciare incenso prima di dormire.
Si fece un mezzo sorriso allo specchio e quindi si fece una doccia come Dio comanda.
Quando usci’ dalla doccia, Luisa era davanti allo specchio che si truccava o si struccava. Antonietta ne fu un po’ imbarazzata, anche se poi si ricordò che in fondo si erano conosciute nello spogliatoio di una palestra.
Antonietta si mise un paio di jeans, una camicia celeste di taglio maschile e un cardigan di lana. Caccio’ fuori un k-way blu dalla valigia e si sentì pronta alla prima passeggiata nell’autunno dell’agosto dublinese.
Luisa uscì dal bagno struccata e si mise una tunica viola e oro che le arrivava alle caviglie, senza calze, con dei sandali con l’occhiello per l’alluce ed un maglione di cotone color panna.
Uscirono verso il Temple Bar; le due guide che avevano con loro, definivano unanimemente il Temple Bar come il quartiere dei bar e dei ristoranti e quindi decisero di obbedire.
In realtà non era una passeggiata: si resero conto che ci volevano venti minuti buoni a piedi, durante i quali un paio di volte ad Antonietta vennero i brividi solo a guardare Luisa.
Passarono in mezzo al St. Stephen Garden, delizioso e pulito e quel rettangolo di aiole fiorite le mise di buonumore.
Si misero a parlare di fiori e scoprirono una comune passione per i bonsai.
“Ho un ficus bonsai in ufficio e tengo più a lui che al mio capo” disse Antonietta
“Quando torniamo a Roma, ti porto in un posto fantastico; mia cugina ha un negozio solo di bonsai, con un’aiutante giapponese con un nome da cartone animato”
“Fujiko!” fece Antonietta
“Vedevi anche tu Lupin III? Diavolo, è favoloso, comunque questa si chiama Masako. La chiamano da tutta Roma”.
Così andarono avanti, fino al Temple Bar. Davanti ad un paio di ristoranti c’era la fila che sembrava Londra, più che Dublino. Da un paio di posti usciva una caciara terrificante, violini e gente che batteva le mani.
Entrarono in un locale un po’ strano, che al piano terra aveva solo l’ingresso e al piano di sopra i tavoli.
Si guardarono attorno e c’erano soltanto coppie. Luisa non sembrava affatto imbarazzata, anzi la luce un po’ soffusa sembrava metterla ancora più a suo agio.
Antonietta non riusciva a togliersi dalla mente un locale in una viuzza dalle parti di via dei Coronari, dove era stata con Guido, ancora più buio. Stavano insieme forse da un paio di mesi, poco più. Arrossì quasi, pensando che in quel locale avevano scambiato forse tre parole in un’ora e avevano passato il tempo a pomiciare.
*****
Stettero a Dublino quattro giorni, che passarono ininterrottamente a passeggiare, parlando abbastanza di rado, ma in fondo facendo le turiste come Cristo comanda.
Luoghi joyciani, cattedrali cattoliche e protestanti, porridge la mattina e patatine fritte la sera.
La sera del quarto giorno, rifacendo i bagagli, vide, in fondo ad una delle valigie un paio di vecchi jeans celeste chiaro, quasi bianchi, ormai. Una volta, in un agriturismo, Guido si era sbagliato e aveva cercato di metterseli, la mattina presto; a metà della gamba sinistra, davanti alle contorsioni di Guido, Antonietta aveva avuto uno di quei momenti in cui ridi e non ti riesci a fermare.
Un mese dopo aver lasciato Guido, Antonietta si era ripromessa dopo una sera di lacrime e buio pesto che si sarebbe infilata in un’altra storia, una qualunque, soltanto il giorno in cui sarebbe riuscita a stare un giorno intero senza pensare a Guido, neanche una volta.
Le venne quasi un brivido a pensare che quella sera, guardare quei pantaloni lisi le aveva fatto venire in mente Guido per la prima volta nella giornata.
******
Né Antonietta né Luisa ebbero il coraggio di affrontare le strade irlandesi, per via della guida a destra.
Il giro dell’Irlanda, perciò, lo dovettero fare in autobus.
Il primo giorno arrivarono direttamente a Cork, saltando un paio di posti dove le guide consigliavano di andare.
La via centrale di Cork ricordò ad Antonietta la Rinascente di piazza Fiume.
I marciapiedi erano pieni di gente.
“Guarda, è ancora peggio che a Dublino; ogni mamma ha almeno due figli. Guarda quella, con due carrozzine gemellari”: Luisa sembrava scandalizzata dalla prolificità delle irlandesi.
Additava famigliole numerose nei MacDonald, ragionava sugli effetti del cattolicesimo radicale sulle donne.
“Come fai a lavorare con quattro figli?; e, se sei un uomo, come fa a piacerti una rossa piena di lentiggini, sformata da quattro gravidanze?”.
“Be’, in Italia sta venendo su una generazione di figli unici” poi pensò che sia lei che Luisa avevano trentatré anni e non avevano ancora messo in cantiere nemmeno il figlio unico che spettava loro per statistica.
Dopo un’oretta a cercare qualcosa di degno in un centro commerciale, da cui uscirono con un po’ di biancheria intima industriale divenuta indispensabile, trovarono una chiesa protestante da cui uscivano strani suoni di campane.
Sotto il campanile c’erano delle corde con i nomi delle note (ovviamente A B C e così via) e chiunque poteva mettersi a strimpellare le campane.
“E’ favoloso” urlacchiò Luisa “pensa alla libertà: invece della solita nenia, vieni qui e ti metti a fare, che so, Obladì Obladà dei Beatles”. Ad Antonietta le si aprì il sorriso e per la prima volta nella sua vita pensò che cinque anni di conservatorio erano serviti a qualcosa. Obladì Obladà durò i tre minuti canonici e Luisa ballò in sagrestia qualcosa di simile ad una tarantella con due ciccione americane e tre ragazzi giapponesi, invece di mettersi a fotografare, tenevano il tempo con le mani.
Per un attimo Antonietta si immaginò una mamma irlandese, piccola e rotondetta, con quattro bambini che si prendevano per i capelli in soggiorno, che accendeva e spegnava fornelli battendo il piede al ritmo di un campanile lontano.
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Guido era ricco, anzi terrificantemente ricco, anche se aveva il pregio di non curarsene. Suo padre era un professore di dermatologia all’Università e, senza dubbio alcuno, il più bravo dermatologo di tutta Roma. Sei mesi dopo averlo conosciuto, Antonietta andò con Guido in una villa sterminata sulla Cassia: la dependance per l’esercito di filippini era grande come il podere di campagna dove il padre di Antonietta passava la domenica mattina a zappettare.
Quando il padre morì, di infarto, Guido aveva trentadue anni. Era ancora studente in medicina, anzi era piuttosto lontano dalla laurea in medicina.
Fu un periodo non particolarmente diverso dagli altri: morì a metà luglio ed il primo di agosto la Guido, sua madre e la sorella, più piccola di Guido di tre anni, laureata in economia e commercio, se ne andarono come tutti gli anni all’Argentario.
Fu lì all’Argentario, una sera, tornando da una cena nell’entroterra, che Antonietta ebbe un puro e terribile flash: quell’uomo che guidava un fuoristrada Mercedes, che aveva una polo bianca e pantaloni di lino beige, scarpe da barca a vela, qualche filo bianco sopra le orecchie di quella testa perfettamente rotonda, che aveva non un sorriso, ma un’aria, un’aura, serena, quell’uomo, il suo fidanzato, era semplicemente un inetto.
Non aveva mai lavorato un solo giorno nella sua vita; si sarebbe laureato a quarant’anni, quando sarebbe scomparsa anche l’eco del nome di suo padre e non sarebbe riuscito nemmeno a specializzarsi. Non sapeva cos’era lottare, non sapeva cosa voleva dire sacrificio, come potesse essere una gioia regalare alla mamma un foulard veramente di marca, invece della solita imitazione presa in qualche bancarella.
Gli guardò quel non sorriso e non ebbe il coraggio di dirgli subito quello che, dopo tutti gli anni, aveva capito.
Da quel momento, ogni volta che si concentrava un attimo su Guido, persino nella spossata felicità dopo una giornata in barca al Giglio, le rimbombava in testa quella parola. Inetto. Inetto e nient’altro, né l’aura serena, né la cortesia, né le attenzioni.
Così, la prima domenica di settembre, una domenica oltremodo banale, quattro passi in centro la mattina, sotto un cielo che minacciava pioggia e un salto a Fregene nel pomeriggio, qualche raggio timido di sole, tornando a casa, anzi proprio sotto casa, le parole uscirono da sole, già consunte.
Guido strizzò gli occhi e non fece nulla per non lasciarla andare.
Guido la chiamò per gli auguri di Natale, poi Pasqua, poi il compleanno a fine maggio.
Un amico comune le disse che l’estate dopo Guido era stato all’Argentario con la mamma e la sorella. Poi, nient’altro.
********
A Killarney c’erano tre laghi ed un parco attorno ai laghi veramente stupendo.
“Pace, pace e solo pace” sospirò Luisa; “ecco quello che sento qui: solo pace”.
Antonietta stavolta era perfettamente d’accordo: quello che sentiva dentro di sé non era quel vuoto dato dall’assenza di emozioni, ma una piccola brezza, che lasciava il cielo pulito.
Si misero a camminare a piedi scalzi su un’erba quasi asciutta; poi misero i giubbotti di jeans per terra e se ne stettero in riva ad uno dei laghi a godersi l’esangue sole irlandese.
“Ma poi quel tuo vecchio fidanzato di cui mi avevi detto una volta … come si chiamava? Guido? Che fine ha fatto? L’hai più chiamato?”.
Rotto l’idillio, ad Antonietta venne fuori la prima frase con quel tono ingoiato di chi parla tra le lacrime. “No, da tempo non lo sento; ma sai, frequentiamo persone diverse, ormai…” Antonietta sperò che Luisa finisse lì e sperava soprattutto che non chiedesse di qualcuno che lei frequentava, dato che ormai da troppo tempo non frequentava praticamente nessuno.
“Peccato, sei dolce, simpatica e pure carina. Sai mia madre come ti avrebbe definito: una donna che sa stare al suo posto”.
“E’ un complimento o un’offesa?” chiese Antonietta.
“Un complimento, ovviamente; e non hai idea di quello che dice di me. Fa dei giri di parole incredibili, ma il succo è quello di tutte le mamme: vogliono i nipoti, vogliono rientrare nelle nostre vite rifacendo da capo le mamme. Ma tu mi hai guardato? C’è qualche parte di me che ti fa venire in mente un desiderio di maternità?”
Risero e ad Antonietta tornò un po’ di pace; qualche nuvola, per ora bianca aveva osato spezzare la perfezione dell’azzurro.
“Il cielo d’Irlanda è Dio che suona la fisarmonica
si apre e si chiude col ritmo della musica”
Antonietta si mise a fare i conti, come ormai faceva troppo spesso. Ho solo sette anni per avere un figlio; a quarant’anni mi ritroverò zitella, sola al mondo, papà già sta male e se mamma resta sola, va a finire che mi tocca tornarmene al paese. Certo, che vita sto facendo a Roma adesso?; chi m’è rimasta: Luisa? ‘sta cosa secca e allampanata, direbbe papà. Solo sette anni; mi metto a guardare gli uomini nei supermercati e prima di guardarli in faccia guardo se alla mano sinistra c’hanno la fede. Perché faccio l’orgogliosa così: se chiamassi Guido, torneremmo insieme. Una famiglia, figli. L’inetto; io a lavorare e lui a cercare di laurearsi prima di rimbambire di demenza senile. Un uomo, cavolo: Luisa sembra una da una botta e via. Io mi metto lì a parlare, ragionare, sognare. Cavolo, è una vita che non succede niente.
“Dal Donegal alle isole Aran
e da Dublino fino al Connemara
dovunque tu stia, danzando tra zingari o re
il cielo d’Irlanda si muove con te”
Mentre tornavano dal lago alla strada il silenzio era totale, neanche il rumore delle scarpe sull’erba.
Era vero, mentre camminavano su quel prato, il cielo d’Irlanda si muoveva, veloce, vivifico e vivo ed era un cielo enorme, che in certi momenti sembrava più vicino alla terra del cielo di Roma; si era chiesta, cosa ci vado a fare in Irlanda e ora sapeva qual era la risposta: “ci sono andata a guardare il cielo”.
*********
Il bed and breakfast era gestito da una signora con la pelle spropositatamente chiara, con un tono di voce così esile che sembrava quello di una zombie particolarmente gentile.
“A cup of tea?” disse la voce dall’oltretomba o qualcosa del genere, perché comunque sul tavolo da pranzo c’era una teiera e dei biscotti al limone deliziosi.
La lunga passeggiata finì con il tè delle cinque, in un clima assonnato, nella piccola stanza da pranzo che stava proprio davanti alla loro stanza; Luisa scribacchiava su un quadernetto (Antonietta pensava che Luisa era vestita proprio come le persone che tengono un diario, anche se poi non riusciva a spiegare perché quelle tuniche etniche comportassero l’obbligo di tenere un diario), mentre Antonietta cercava di intuire qualcosa in un articolo di un giornale inglese.
“Ho scritto semplicemente ‘giornata di pace’: le giornate di pace come oggi, sono così rare e preziose che me le appunto solo con queste tre parole. Dall’inizio dell’anno” Luisa sfogliò velocemente il quadernetto “il 4 marzo e il 20 giugno sono state giornate di pace; per la verità non ricordo perché.”
“Senti, andiamo a cena alle sei e mezzo come le tribù locali o cerchiamo un locale un po’ più pepato?” chiese Luisa; “dopo una giornata di pace potremmo provare a farci una sera da battaglia”.
“Ok, comincio a fare la doccia”
“Buona idea; quando sento il phon rientro in camera”
Antonietta rientrò in camera si fece una doccia che durò forse venti minuti; poi si stese dentro l’accappatoio, sul letto e se ne stette ad occhi chiusi a cercare di non pensare a niente. ‘Sera da battaglia’: per una volta Antonietta si sentiva, come dire, pronta, voleva divertirsi, conoscere qualcuno, un ragazzo, un uomo.
Per la sera da battaglia cacciò fuori dalla valigia un vestito avana che le lasciava visibili le spalle, che andava meglio per le sere a Fregene che per le mattine di Killarney; prese un maglione di cotone carta da zucchero che finiva subito sotto il seno e si ritenne così vestita da battaglia.
Accese il phon e aspettò che Luisa entrasse; invece, si asciugò i capelli, poi si truccò, poi si mise a leggere il libro che si era portata dall’Italia (un giallo di Elizabeth George), smise e si mise a leggere una guida dell’Irlanda.
Alle otto e un quarto, quando cioè il novanta per cento della popolazione irlandese aveva cenato, entrò Luisa, con occhi un po’ strani.
Dopo un minuto buono di mezzi convenevoli, Luisa ridacchiò: “Abbiamo un appuntamento per stasera”.
“Come un appuntamento?” chiese Antonietta
“Sai, quando sei venuta a fare la doccia, sono uscita verso il paese e nel primo bar ho incontrato due ragazzi spagnoli, andalusi se non ho capito male. Una parola, un’altra e insomma alle nove ci vediamo in un pub in paese, dove loro sono già stati ieri e dove giurano ci sia una confusione bestiale”
Si rimise a ridere.
“Che c’è da ridere?” chiese Antonietta, curiosa e spaventata
“Usciti dal bar, in un parco vicino a un cimitero ci siamo fatti una canna coi controfiocchi. Roba high level, ti giuro. Roba che il mio amico marocchino, quello che rifornisce la cerchia che gira attorno all’erboristeria, se la sogna” e rise.
Il silenzio di Antonietta era un po’ pesante.
“Non mi dire che non ti sei mai sparato un cannone”. Luisa rise pesantemente
“Sinceramente ho fumato in vita mia due sigarette; l’ultima, avevo dodici anni”
“La canna è bella; è da compagnia. Stai lì in cerchio, tutti amici; uno caccia fuori la roba, prepara lo spinello; poi ha il diritto a farsi la prima aspirata, poi la passa in giro, ognuno si fa la sua tirata. C’e’ il senso di comunità, di amicizia.”
“Sarà …” Antonietta pensò alle canne, alle sigarette, poi all’alcool, poi ai sette vizi capitali e oltre alla gola e all’accidia non si sentì personalmente coinvolta.
“E non è che usciamo con questi tizi per farci le canne?”
“No, è un invito a cena; a quanto ho capito loro sono tre e ci aspettano. Tu con questo tubino sei perfetta; io, vediamo un po’” Luisa infilò prima il naso, poi mezzo viso dentro alla valigia e ne uscì una minigonna nera, tanto semplice quanto mini.
Luisa ci mise su una canotta nera con scritto “pretty baby”, con un buco a forma di cuore dalle parti del cuore e una camicia giallo evidenziatore.
‘Senza calze schiatterà di freddo’ pensò Antonietta.
Si guardarono insieme, nello specchio dell’armadio e Antonietta, senza sapere il perché, sentì salire da sotto il tubino una strana angoscia.
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Felipe e due Miguel, uno bassino e moro e l’altro alto e distinto.
Chi comandava era chiaramente il Miguel alto. Parlava più di qualche parola di italiano, ma con Luisa parlavano in inglese e Antonietta capì che era il modo di escludere sia lei, che l’inglese parlato in fretta da un andaluso proprio non lo afferrava e gli altri due spagnoli, che conoscevano, a quanto pare, le parole necessarie per sopravvivere.
Antonietta intuì agevolmente chi fosse stato il pusher di Luisa.
A mozzichi e bocconi, la conversazione andò avanti. Era chiaro solo a guardarli che i tre dovevano avere al massimo ventitré – ventiquattro anni e il “Trenta y tres” scandito da Luisa fece loro uno strano effetto, un misto di spavento e incredulità.
Alle dieci i tre ragazzi spagnoli erano alla terza Guinness da 0,4, Luisa alla seconda e Antonietta si ostinava a non voler finire una 0,2 di birra chiara.
Avevano mangiato qualcosa che poteva essere tradotto come stufato di agnello, ma non ne aveva il sapore.
L’orchestrina irlandese attaccò con Irish Rover e il pub si incendiò.
Felipe batteva la mano sul tavolo, con grossi pericoli per le birre.
Quando, dopo Irish Rover, l’orchestrina attaccò Molly Malone, Miguel alto, praticamente fece il controcanto; cantava piuttosto bene, tanto che a tre quarti della canzone lo invitarono a cantare al microfono e fece un figurone.
Tornò al tavolo dove fece un high five con i suoi due amici e con Luisa.
Alle dieci e tre quarti l’orchestrina si fermò: il locale era pieno di fumo a mezz’aria e sapeva di sudore e di Guinness. Miguel alto e Luisa si allontanarono un attimo (per una canna, pensò Antonietta).
Miguel basso e Felipe, abbastanza alticci, si misero a parlare velocemente in spagnolo; ad Antonietta parve di sentire un “vieja” in una risposta di Miguel basso.
Qualcosa che sembrava “pero es vieja” o giù di lì. Dal tono e da una mezza occhiata Antonietta intuì che la risposta poteva tradursi in italiano in qualcosa di simile a “Ma non vedi che è vecchia?”.
Stava per alzarsi con una scusa quando, vicino all’ingresso, vide che Luisa ringraziava il suo fornitore con un bacio, che si tradusse in pochi attimi in una pomiciata.
Dopo un minuto abbondante Luisa e Miguel alto tornarono al tavolo tenendosi per mano; sedendosi Luisa fece l’occhiolino ad Antonietta.
‘E’ una da una botta e via; ecco che cos’è una sera da battaglia’ pensò Antonietta e si chiuse senz’altro in un mutismo abbastanza offeso.
“Alla grande, eh?”, le gridò Luisa quando l’orchestrina riprese a suonare e Felipe si rimise a battere la mano sul tavolo.
Quando l’orchestrina suonò un altro lento e un paio di coppie si misero a ballare nel minuscolo spazio tra il cantante e i tavoli, Luisa appoggiò la testa sulla spalla di Miguel alto e dopo un po’ si scambiarono qualche bacio lì al tavolo.
Mentre si parlava con qualche fatica dell’erboristeria di Luisa, Antonietta sentì la mano libera di Felipe che si poggiava poco sopra il suo ginocchio.
Antonietta si sentì paralizzata: Felipe faceva finta di niente.
Antonietta lo guardò bene, il viso banale, i capelli sudati e qualche brufolo sulle guance. Brufoli; un bambino, praticamente, pensò Antonietta.
E mentre pensava cosa fare, cosa dire, la mano di Felipe, abbastanza lentamente, stava salendo.
Nei trenta secondi che seguirono Antonietta pensò a quanto tempo era passato dall’ultima volta in cui Guido l’aveva accarezzata, poi pensò all’ultima volta con Guido, poi pensò ai brufoli, poi pensò che stava per diventare una da una botta e via.
La mano era a un centimetro dallo slip.
A quel punto Antonietta si alzò e scappò via.
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La faccia sul letto, il tubino avana ridotto a un cencio buttato via con un urlo soffocato.
Pugni sul cuscino, dopo i pugni sullo stipite della porta.
Antonietta piangeva lacrime isteriche; urli soffocati dentro un cuscino ricamato da paffute rosee mani irlandesi.
‘Perché, perché; ci stava provando e allora? Ci potevi stare, lo potevi mandare affanculo, potevi divertirti un po’, potevi buttargli la birra in faccia. Invece sei semplicemente scappata. Una vecchia; una vecchia vigliacca. Zitella e vigliacca’. Ebbe un secondo di mezzo sorriso pensando a tutti i sinonimi di zitella, soprattutto quelli che davano alle vecchiacce zitelle su in paese.
Si mise seduta, il cuscino calcato in pancia.
Un uomo, cavolo, un uomo; un bacio, una pomiciata, persino una botta e via. Tutto le sembrava meglio che scappare.
Due anni a settembre.
Da sola, A scappare. Se Guido era un inetto, tu che sei? Paura, una vita sprecata, senza un lampo di coraggio.
Un ragazzo, coi brufoli, una mano, uno straccio di vita; mezza birra chiara e undici birre scure; né azione né reazione, solo fuga.
************
All’una tornò Luisa.
Disperata.
“Quello stronzo, sembrava tanto titin titin. Tutto distinto, perfettino” piangeva e parlava a scatti “Stronzo … con quel suo inglese … carino”
Antonietta si riscosse dal torpore con gli occhi ancora rossi delle sue di lacrime “Che è successo?”
Ora Luisa piangeva senza ritegno, con una mano sulla bocca, come una bambina.
“Quando siamo usciti … insomma mi ha fatto fumare un’altra canna … poi baci … poi toccava … poi non so come … non ero lucida … mi trovo sul sedile di una macchina …chissà che macchina era … insomma quello stronzo mi metteva le mani dappertutto … sì pomiciavamo … poi è arrivato quall’altro …”
“Felipe?” chiede Antonietta, persino preoccupata
“No, quello basso, l’altro Miguel … insomma mi spogliavano e … io ho detto no … e loro sembrava che mi volessero … che lo volessero fare lo stesso … mi stavano prendendo … Insomma sono riuscita a tirare uno schiaffo a quello spacciatore maledetto e sono scappata … cazzo, ci ho lasciato le mutande e la camicia l’ho buttata in un cassonetto … me l’hanno strappata”.
Antonietta abbracciò Luisa che piangeva, a singhiozzi, ora.
Anche Antonietta piangeva, con quel pianto sordo, ma persino più disperato, di chi si strapperebbe l’anima da dentro.
Piangeva, vergognandosi, pensando a Felipe, alla sua fuga, e a tutta una cavolo di vita come poteva essere e non è.

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