mercoledì 25 gennaio 2012

UN VOLTO FUORI DAL CONTESTO
Il treno che doveva arrivare a Roma alle otto e mezza arrivò effettivamente a Roma alle otto e mezza.
Il ragionier Giancarlo Stellati scese con tutta calma perché doveva arrivare dalle parti di Borgo Pio a mezzogiorno e quindi di fretta proprio non ce n’era.
Anzi, si rallegrò del fatto che erano anni che non aveva un paio d’ore per girare Roma e decise che a Borgo Pio ci sarebbe arrivato a piedi.
Uscito da Termini si fermò qualche secondo a guardare il cielo, che sembrava non promettere nulla di buono. Era stato in dubbio per molto se portare con sé una borsa, ma poi aveva deciso di arrivare a mani libere.
Non era il primo colloquio di lavoro degli ultimi mesi e ormai aveva capito che arrivare con la borsa non comportava che l’intervistatore pensasse necessariamente che aveva qualcos’altro da fare nella giornata.
La Tecnocarta Palladini era fallita ad agosto del 2001; quindici mesi senza un lavoro ufficiale pesavano ormai troppo sul ragionier Stellati.
Del resto, erano stati quindici mesi terribili, per altri versi.
Da aprile del 2001 nessuno aveva più messo piede nello stabilimento e quindi il ragionier Stellati si era trovato senza niente da fare; sua moglie non c’era abituata, a vederlo girare per casa.
Ma, soprattutto, dopo più di vent’anni, il loro matrimonio si basava più sull’assenza che sulla presenza. Si vedevano la sera, si scambiavano due parole davanti al telegiornale, sceglievano il programma da guardarsi in TV, qualche volta aspettavano insieme che Luca, loro figlio, tornasse da qualche discoteca o pub alle due di notte, di solito senza fiatare. La domenica il ragionier Stellati andava a pesca in un laghetto di pesca sportiva per tutta la mattina, con un paio di colleghi e con un appuntato dei carabinieri, anche se a pranzo pesce non ne mangiavano mai; la domenica pomeriggio era dedicata a fremere per la Lazio, qualche volta in qualche bar con la pay tv.
La prima settimana senza andare a lavorare, la presero tutti e due come una sorta di vacanza; da una parte sembrava impossibile che lo stabilimento chiudesse definitivamente, dall’altra uscire a guardare qualche vetrina o a vedere qualche parente divenne un momento di svago inatteso.
Dopo un mese fu chiaro a tutti che lo stabilimento non avrebbe riaperto; ma a quel punto ormai il ragionier Stellati non usciva più di casa, spesso senza togliersi il pigiama per tutto il giorno.
**
Pensava queste cose, il ragionier Stellati, mentre scendeva via Nazionale, guardando più le persone che le vetrine.
Il rumore del traffico gli sembrò di colpo quasi insopportabile e decise di entrare in un bar per una spremuta d’arancia; al momento di pagare cacciò qualche moneta e sorrise a pensare che dentro al portamonetine, i centesimi ce li aveva messi sua madre.
Il sorriso sfumò in un digrignare di denti; decise che era il caso di affrontare il traffico, anche perché qualche nuvola un po’ più scura sembrava riempire la quota di cielo che spettava a chi passeggiava per la fine di via Nazionale.
“Giancà, Giancà, alzati che perdi il treno”, l’eco della cantilena della mamma alle sei e spiccioli stava ancora nelle orecchie.
Viveva con sua madre da maggio, sei mesi ormai; una scelta obbligata e perché così non c’era affitto da pagare e perché poteva contare su un po’ d’aiuto con la pensione di reversibilità di sua madre.
Sua moglie l’aveva cacciato di casa a gennaio; ma cacciato non era la parola giusta.
La loro convivenza era giunta al suo fisiologico termine: sua moglie faceva la maestra e accanto allo stipendio aveva la fortuna di avere avuto un padre benestante che le aveva lasciato tre o quattro tra appartamenti e locali e mieteva un buon mensile di affitti e quindi non aveva bisogno del marito per campare.
“Non ci lega più niente” era stata la constatazione la mattina del primo gennaio, dopo una sera del trentuno in cui il momento più emozionante era stato il messaggio di Ciampi.
Il ragionier Stellati non aveva avuto forza di litigare ed era andato via di casa, che era di sua moglie; si erano accordati per vedersi una o due sere la settimana, quando Luca era a casa, per mangiare tutti insieme, di solito in silenzio, senza nemmeno la consolazione di un telegiornale.
E Stellati pensava a due sere prima, quando Luca non era andato a cena, per un’improvvisa convocazione a una imperdibile partita di calcetto. Pensava a quanto sembrava incredibile preferire a una cena con quella che era la sua famiglia, qualsiasi altra cosa al mondo, persino pasta e fagioli con mamma che guardava Incantesimo.
Un solo gesto di rottura aveva fatto, andando via di casa: aveva buttato via tutti i vecchi pigiami.
***
La società di ricerca del personale aveva il solito nome inglese: stavolta era Tom Bosley & co.; Borgo Pio a mezzogiorno meno un quarto sembrava quella che doveva essere Roma quarant’anni fa, senza macchine, qualche bicicletta, un paio di Ape Piaggio e delle facce da film di Fellini.
Stellati pensò che chi aveva deciso di mettere la sede a Borgo Pio o ci aveva abitato o voleva comunque avere attorno un ritmo di vita lento e romanesco: all’indirizzo che era scritto sull’e mail, c’era un palazzetto di un rosso scrostato, con un androne stretto tra vecchi contatori dell’Enel e un paio di passeggini.
Il ragionier Stellati suonò alla porta e il contrasto con Borgo Pio e con l’androne fu quasi stridente: un ingresso ampio e luminoso, una receptionist all’altezza della situazione e un paio di sale discrete dove aspettare il colloquio.
A mezzogiorno e dieci Stellati non era stato ancora chiamato; aveva ormai finito di leggere tutte le scritte in latino sotto le stampe seicentesche di Roma.
Cominciò ad innervosirsi e sentiva che lo stomaco gli si stava svuotando in fretta, lasciando in bocca un sapore cattivo.
A mezzogiorno e venti entrò nella sua stanza un uomo sui trentacinque, con un bell’abito blu e una camicia con le cifre; Stellati pensò che fosse l’intervistatore e invece in qualche attimo capì che si trattava di un altro candidato.
Dopo trenta secondi di silenzio l’uomo in blu gli disse: “Nella stanza accanto ci sono altre due persone. A proposito, a che ora aveva il colloquio lei ?”
“A mezzogiorno” disse Stellati.
“Io a mezzogiorno e mezza, ma qua non si vede nessuno”. L’uomo in blu aprì la finestra; “Sarebbe da farsi una sigaretta” disse “ma, guarda caso, ho smesso di fumà tre settimane fa”. Dopo l’approccio iniziale abbastanza educato e composto, l’uomo in blu era passato all’accento romanesco.
Stellati, che pure non adorava i romani, fu più tranquillo, che se l’uomo in blu fosse un rivale superabile nella corsa al posto.
“Io ho smesso l’anno scorso. I primi tempi furono terribili: uscivo di casa alle dieci la sera e mi faceva cinque chilometri a piedi per calmarmi” disse.
“Nooo, io ho smesso dalla sera alla mattina, un po’ de sforzo certo, un paro de caffè de più e è annata.”
Il cameratismo finì così e all’una, dopo una dozzina di minuti di nervoso silenzio, la porta si aprì.
“Venite” disse la receptionist “se volete seguirmi”.
Seguirti, ma certo, pensò Stellati con gli occhi fissi sulla ragazza, che aveva un passo sicuro e un corpo spettacolare.
Entrarono in una sala riunioni molto bella, con un paio di arazzi alle pareti.
Tra il momento in cui la porta si chiuse e quello in cui una donna in tailleur grigio d’ordinanza cominciò a parlare, Stellati ebbe il tempo di contare sette persone.
“Purtroppo a Milano c’era nebbia stamattina” disse la donna con cadenza anglo-lombarda “e il dottor Garegnani non è potuto arrivare come previsto per le undici. Questa situazione è spiacevole, perché avremmo voluto fare i colloqui con cadenza di venti minuti e con la massima tranquillità, sia per voi, ma anche nell’interesse del nostro cliente. So anche che alcuni di voi hanno difficoltà per oggi pomeriggio, ma purtroppo i nostri tempi non possono dilatarsi e quindi riprenderemo alle quindici, nello stesso ordine di stamattina. Quindi cominceremo da Bernardi, che aveva il colloquio alle undici e venti, poi Gallo, poi Stellati e così via”.
Dopo un lieve brusio, un paio di persone andarono a parlare con la donna anglo-lombarda; Stellati stette un attimo a pensare come scansare l’uomo in blu per farsi una passeggiata, quando si sentì toccare un braccio. “Ragioniere Stellati, come sta?”
****
Stellati si girò a guardare: vide un viso di una donna poco sopra la trentina con capelli tinti di nero, abbastanza corti, occhi neri appena truccati, un twin set beige e pantaloni panna.
La donna lo fissava con un mezzo sorriso “Ragioniere Stellati?” disse di nuovo.
Niente.
Stellati non la riconosceva.
“Non si ricorda? Sono Annamaria Adernò, della TYK”.
“Oh mamma mia; niente, niente non l’avevo riconosciuta. Sa, un volto fuori dal contesto…”
Scesero le scale e appena fuori si incrociarono con un “Cosa fa qui?” ed il coretto un po’ sghembo li fece ridere.
“Beh” cominciò Stellati “dovrebbe sapere come è andata a finire la Tecnocarta Palladini. Siamo falliti” Stellati rise “vede, parlo come se fosse stata la mia azienda. E’ fallita e io è un anno e mezzo che sto a spasso, colloqui, cose così. E lei?”
“La mia storia è un po’ articolata e di molto preferirei non parlare. Quando ci siamo visti per l’ultima volta? Il piano industriale, forse aprile 1998. Beh, diavolo se ne sono successe di cose in questi anni. A me tante, almeno. Senta, ma ha da fare qualcosa fino alle tre?”
“No non ho da fare. Vogliamo andarci a mangiare qualcosa?”
Si incamminarono lungo la strada, piena di caciara e di studentesse della Lumsa.
Trovarono un baretto piccolo, con un bancone messo in diagonale e un barista che aveva la faccia di chi la sapeva lunga.
Stellati prese un pasta gratinata e la Adernò prese un misto di verdure lesse.
Con due vassoi e un litro di minerale se ne andarono in una stanza quasi senza finestre dove c’erano i tavolini e stampe di pubblicità di Coca Cola alle pareti.
Si sedettero e Stellati non poté fare a meno di cacciare in un sospiro “La madonna ingioiellata”.
“Prego?” chiese la Adernò, anche se sembrava aver intuito qualcosa.
“Sa, la chiamavamo così in ufficio: la madonna ingioiellata. Sa, tutti quei braccialetti, i ninnoli e le collane”.
“ A casa ne ho quasi cinquecento, alcuni valgono soldi, davvero, altri sono pezzi di rame. Mi piacciono e vorrei portarli ancora; ma dopo il primo colloquio, un paio di mesi fa, ho capito che l’esposizione di gioielleria e bigiotteria non era gradita agli esaminatori”.
Stellati sorrideva: l’accento siciliano spuntava fuori ogni tanto. La “r” di rame era stata fantasticamente arrotata, ma anche “esposizione” e “esaminatori” erano dette con quell’accento quasi canzonatorio.
Quel silenzio li avvicinò un po’: “Ah e così mi prendevate in giro, eh? La madonna ingioiellata”.
“Sì come quella delle processioni di paese, con le collane degli ex voto e tutto il resto. Pacicchi, l’altro della tesoreria, si faceva dei braccialetti con le attache e certe volte a mensa faceva un’imitazione favolosa. Che so: ‘fondo svalutazioooone’, cose così. La sua specialità erano le ti e le erre di trattamento di fine rapporto”.
La Adernò rise: “Sapevo che mi prendevate in giro, lì da voi, come in altri posti: cercavo di mascherarlo l’accento, ma di Catania ero e di Catania resto. Allora mi incavolavo; adesso ci rido” disse, arrotando con cura la erre.
Anche Stellati rise.
Un paio di rigatoni alla fine del piatto.
“Allora, qualcuna delle cose successe si può dire?”
Si pentì subito dell’eccesso di confidenza; si giustificò mentalmente dicendosi che erano mesi che non incontrava una persona diversa da sua madre, sua moglie, Luca e i pescatori della domenica mattina.
“Ricorda Santoni, il manager?”
“Bravo, un po’ stronzo, magari, ma bravo”.
“Giudizio stringato ma calzante. Bene, Santoni me lo sono sposato, a dicembre del 2000”.
“Mi scusi…” una goccia gelata di sudore per la gaffe.
La Adernò sembrò non farci caso.
“Allora, alla Tecnocarta Palladini, stavamo già insieme da un annetto. Ma in TYK la politica era chiara e se due stanno insieme, uno, la donna di solito, se ne deve andare; sa, quelle questioni dei pagellini, delle valutazioni. Ma io ero entrata da poco e Santoni stava per divorziare: quindi resistevamo.” Rise; “Quando qualcuno gli chiedeva se la donna misteriosa di cui ogni tanto parlava esisteva davvero, France… Santoni, diceva soltanto: si chiama Miss A.. Così sono stata Miss A. per un tre anni ed era dura, dura davvero. Certe volte, il sabato sera, entravamo nei ristoranti, eravamo terrorizzati che qualcuno della società o qualche cliente ci potesse vedere; però sa, queste cose clandestine, questo vederci e non farci vedere, in fondo era bello, c’erano brividi. Magari erano soltanto brividi di paura.”
Gli occhi di Annamaria si persero un attimo in una stampa Enjoy Coca Cola; Stellati voleva dire qualcosa del tipo “e poi…”.
Annamaria capì e lo guardò negli occhi, tamburellò con le dita sul tavolo, si pulì la bocca con il tovagliolino, anche se erano cinque minuti buoni che non mangiava nulla.
“E poi, alla fine facemmo il grande annuncio. Doppio annuncio, ovviamente: il matrimonio e le mie dimissioni. Lasciare la TYK mi costò davvero, ma Francesco era il centro della mia vita e mi sembrò la scelta ovvia. No, non ovvia, fu la scelta giusta. A settembre andai a fare la controller ad una subsidiary italiana di un network televisivo giapponese: il nome non lo dico, perché se solo lo pronuncio mi viene da rigettare. Cosa fossero venuti a fare in Italia non era granché chiaro, però io dovevo fare i mie budget, i miei report e lo stipendio era quasi il doppio che quello che prendevo in TYK.”
Si prese la radice del naso tra pollice e indice, come se un’emicrania improvvisa le avesse trapanato la fronte. Sospirò e guardò di lato, dietro una spalla di Stellati, come quello sguardo che fissava un oggetto, il tavolino con sopra le posate o la borsetta di una studentessa, potesse farle forza.
“A luglio di quest’anno, un anno e mezzo senza infamia e senza lode; insomma, un viaggio di nozze fantastico, abbiamo vista mezza America, poi qui a Roma, il lavoro, spesso anche il sabato, e insomma quei brividi… insomma non dovevamo più nasconderci da nessuno”.
A Stellati sembrò che stesse per piangere.
“Beh insomma a luglio, l’amministratore unico della mia società, un maledetto giapponese, chiama tutti i dipendenti a raccolta e in un italiano terrificante fa ‘Lunedì società no apre; venerdì ultimo giorno. Spiegazioni dà mister Bianchini’. E Bianchini, il consulente del lavoro della società, ci comincia a parlare di chiusura della filiale, nell’ambito di una cazzo di ristrutturazione globale, che qualcuno potrebbe andare a Ginevra o a Parigi e che comunque le procedure di mobilità e cazzate così. Ci siamo guardati l’un l’altro; e per fortuna eravamo quasi tutti abbastanza giovani… oh mi scusi”
“Non c’è problema” Stellati sorrise quasi. “I mutui, vero?”
“Sì ragioniere; qualcuno monoreddito, col mutuo appena preso; la mia segretaria si doveva sposare a ottobre; tutto rinviato; tutto all’aria. Io torno a casa quello schifo di sera, alle otto e provo a chiamare Francesco sul cellulare, perché Francesco stava a Pescara per TYK. Volevo parlargli, dirgli quello che era successo, del lavoro. Alle otto niente, spento; alle nove niente; alle dieci mi viene un flash e mi ricordo di un albergo dove ero scesa anch’io qualche anno prima per andare dallo stesso cliente. Insomma chiamo l’albergo e chiedo che mi passino la stanza; me la passano e mi risponde una donna. Io per un attimo penso di avere sbagliato, poi sento una voce sotto del tipo ‘che fai’ e quella voce è di Francesco; in un momento riconosco la voce di una collega che era appena entrata in società quando io mi ero dimessa, una carina, di quelle con quei visini angelici, le fossette sulle guance; nello stesso momento realizzo e urlo ‘Passami Francesco’. Me lo passa e io urlo ‘Cosa cazzo ci fa quella in camera tua?’. E lui niente. Non ha detto niente, per trenta secondi l’ho sentito respirare, anzi no, trattenere il fiato. Quella sera la sua voce non l’ho sentita e non l’ho sentita più. Alle udienze di separazione è stato sempre zitto, guardava davanti a sé; il mio avvocato mi ha detto che nelle riunioni non ha parlato mai. Quella sera stessa, la sera della telefonata, ho preso e me ne sono andata a Catania, una settimana: quando sono tornata a casa, che era casa mia, grazie a papà, non c’era più traccia di lui, nemmeno un capello sul cuscino. Niente, più niente.”
******
Alle due e mezza uscirono dal bar, e andarono verso Castel Sant’Angelo.
Il sole ora era più forte e a novembre c’era persino qualche turista, un paio in calzoncini, calzini e sandali.
Un paio di venditori ambulanti parlavano tra di loro ad una velocità impressionante.
Il ragionier Stellati camminava senza fretta verso la spalletta che dava sul Tevere; Annamaria gli camminava distante, con gli occhi fissi all’altra sponda.
Si appoggiarono sul parapetto e si misero a guardare il fiume.
“Che posto stupendo” disse Stellati, “un giorno di questi ci voglio tornare”.
Annamaria fissava il fiume adesso, la mano sotto il maglioncino del twin set, come se volesse riattivare la circolazione. “Quante schifezze si porta appresso ‘sto fiume” sorrise.
Stellati le poggiò una mano su un braccio, qualche secondo e sorrise a quel volto e le disse “Dai che è ora di andare”.

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