mercoledì 25 gennaio 2012

MALEDETTO ANDY WARHOL!
Maledetto Andy Warhol!
E maledetta la sua storia del quarto d’ora di celebrità!
Luisanna Gandolfi il quarto d’ora di celebrità l’aveva già avuto.
Era stata la prima bambina a nascere in città il primo gennaio di un anno alla fine degli anni sessanta.
Occupava mezza prima pagina della cronaca locale: nella foto sua madre aveva l’aria riposata, stranamente, con i capelli neri con una specie di soppalco alla Brigitte Bardot, Luisanna con gli occhi chiusi, ovviamente, e qualche mazzetto di ciuffi neri sulla testa.
“Benvenuta Luisanna” era il titolo del giornale.
All’epoca, per la verità c’erano tre giornali nazionali che avevano l’edizione locale e la tradizione di famiglia voleva che suo padre era andato a comprare i giornali la sera del 2 gennaio, quando gli altri due erano esauriti. Un primo segnale di incompletezza, si diceva Luisanna.
Perciò c’era solo un giornale nel cassettone del grande mobile con specchiera del salone e ogni anno sua madre l’andava a riguardare e rideva per quella pettinatura terrificante.
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Dopo un pomeriggio a Roma, per andare alla Biblioteca Nazionale, a metà dicembre, Luisanna stava sul sedile del primo vagone del treno, a guardare, più che fuori, un panorama fin troppo noto, il suo viso riflesso nel finestrino.
Fu quel pomeriggio che in quel surrogato di specchio, non vide più una ragazza, ma una donna, attorno ai trentacinque, con i capelli tinti di henné, con occhi tanto scuri che l’iride si confondeva con le pupille e con il labbro inferiore in mezzo ai denti, che stringevano quasi a farlo sanguinare.
Quello che fino al giorno prima troppo spesso aveva sentito l’aveva chiamato depressione.
Ci rideva a volte, come quella storia dell’autobus qualche mese prima, che aveva raccontato a Rachele. “Insomma, sto su quest’autobus, con una sorta di dolore allo stomaco e stavamo in cinque sull’autobus, compreso il guidatore e mi metto a pensare al titolo di un giornale letto quella mattina ‘Un italiano su cinque soffre di depressione’; ecco, gli altri quattro passeggeri dell’autobus erano fortunati perché l’italiano su cinque che soffre di depressione ero io. Poi mi accorgo che sta per scendere una donna africana, una di quei donnoni con quelle tuniche tutte colorate e col turbante e penso, diavolo, per fortuna che è scesa, perché mi rovinava la statistica”.
Poi, ripensava, quasi con dedizione, alla storia di Andy Warhol.
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A dire il vero, Luisanna quel pomeriggio non ci aveva messo piede alla Nazionale.
Era partita con l’intenzione, perché aveva sentito parlare di articoli su vecchie riviste usciti subito dopo la prima traduzione di A Passage to India.
Le era sempre piaciuta la definizione che Forster aveva dato di A Passage to India: “il mio romanzo indiano influenzato da Proust”. E Luisanna voleva riuscire a pubblicare un saggio che dimostrasse il più scientificamente possibile quanto Forster fosse stato davvero influenzato da Proust.
La parte generale, su Forster, non era altro che uno sviluppo della sua tesi sui personaggi secondari dei romanzi di Forster; il resto stentava ad arrivare un po’ per mancanza di tempo, un po’ per non eccessiva convinzione.
Una settimana prima, in sala professori, aveva detto alla De Angelis che sarebbe andata a Roma, alla Nazionale, per la ricerca; il giorno prima, uscendo dalla III B, si era trovata davanti Castaldi che le aveva detto “Andiamo insieme a Roma domani? Vado anch’io alla Nazionale”.
Castaldi insegnava italiano e latino, e stava lì allo scientifico solo da settembre.
Sulle prime, sembrava un po’ defilato.
Luisanna lo aveva giudicato in maniera, pensava, definitiva, al primo sguardo: le era sembrato un po’ impiegatizio, con un viso abbastanza banale ed un abbigliamento abbastanza scontato per un professore di italiano sulla quarantina, maglioni a V, camicie a quadri, jeans e Clark. Aveva, secondo Luisanna, un tono di voce di quelli che dopo mezz’ora di spiegazione stende anche il primo della classe, un tono senza slanci, quasi da predica.
Questa sua opinione (‘le impressioni le cambio, le opinioni no’, diceva Luisanna) faceva a pugni con la nomea che aveva Castaldi presso le Cariatidi, come lei e la De Angelis chiamavano le vecchie insegnanti di lettere e di filosofia a un soffio dalla pensione, il cui nome faceva ancora tremare i muri portanti della scuola, come la Reali, la Di Bello e la Ieracitano.
Le Cariatidi erano venute a sapere che Castaldi era separato, con un figlio in età prescolare e la moglie, che insegnava matematica, pare si atteggiasse da sedotta e abbandonata.
Quella proposta davanti alla porta della III B era stata la prima frase di senso compiuto che Castaldi aveva rivolto a Luisanna da quando era arrivato.
L’obiezione di Luisanna (“ma io vado la mattina, ho il giorno libero”) era stata superata agevolmente, poiché il mercoledì era il giorno libero anche di Castaldi.
Non venendole in mente altro, Luisanna si accordò per il treno delle dieci e venti, per avere il tempo di fare le cose con comodo.
Come Castaldi fosse venuto a sapere della trasferta alla Nazionale preoccupò Luisanna giusto il tempo necessario per arrivare al parcheggio.
***
Luisanna adorava il personaggio di Lucy Honeychurch, in Camera con vista. Anzi, tutta la storia della tesi, era nata dopo aver visto il film di James Ivory, aver letto il libro, aver rivisto il film, trovandolo semplicemente perfetto nella sua fedeltà al libro, trovando Helena Bonham-Carter deliziosa e Julian Sands, il maschio da sognare per gli anni a venire.
Il suo problema è che per un po’ un Julian Sands l’aveva aspettato davvero, convinta che potesse rivivere una storia con qualche somiglianza a Camera con vista; si sarebbe fidanzata con un tipo piatto e noioso (certo che però era Daniel Day Lewis, rifletteva Luisanna) e poi un giorno avrebbe detto di Julian Sands “Certo che lo amo, cosa credete tutti” e lacrime di gioia e camere con vista.
Iacopo non era noioso come Cecilio, anzi tanto nel film Daniel Day Lewis era rigido ed impettito, quanto Iacopo era una forza della natura, sempre in movimento, con un brevetto da sub e una passione per gli sport estremi.
Iacopo aveva dei difetti; ad esempio, le sembrava a volte troppo accondiscendente, le sembrava che a volte annuisse impercettibilmente mentre lei parlava, come per convincersi di essere d’accordo.
Iacopo stava sacrificando una laurea in giurisprudenza, invero non brillantissima, facendo il subagente di assicurazioni per potersi permettere di vivere in affitto in una città che non era la sua.
“Perché non ti sposi?” le aveva chiesto, con tono di sfida la De Angelis qualche settimana dopo che Luisanna era stata immessa in ruolo. Luisanna aveva dimenticato che forse per la De Angelis era stato più facile sposarsi con un commercialista figlio di commercialista, ma non le andava di addurre ragioni economiche che in fondo non la toccavano più di tanto.
Le sembrava di essere incompleta, questa era la verità, e le sembrava che la strada per eliminare questa sensazione non potesse essere il matrimonio. O meglio, il matrimonio non le bastava, a volte pensava che Iacopo non le bastava, ma poi tornava a pensare che l’incompletezza fosse dentro di lei.
Da una parte pensava di poter effettivamente riuscire in qualcosa di particolare, nel saggio ad esempio, dall’altra la frase di Andy Warhol sembrava obbligarla ad una vita senza ulteriori momenti di gloria.
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A metà del ritorno in treno, Luisanna cercò un fazzoletto per soffiarsi il naso e trovò in tasca qualcosa che aveva una consistenza simile.
Tirò fuori dalla tasca un tovagliolo di carta e si sentì arrossire per aver fatto, qualche ora prima, un gesto, probabilmente meccanico, per infilarselo in tasca.
Aprì il tovagliolo e vide due tabelle di due colonne: una aveva sopra LG, le sue iniziali e l’altra aveva sopra PLC, le iniziali di Castaldi.
Nella sua tabella, alla colonna di sinistra ci aveva scritto sopra i libri che aveva letto nell’anno e che le erano piaciuti e nella colonna di destra quelli da evitare.
Sorrise guardando nella colonna di sinistra Underworld, La versione di Barney, Gli anni con Laura Diaz, ma anche, pure se le sembrava un po’ popular, La scomparsa di Patò e La gita a Tindari.
Nella colonna di destra Pastorale americana, Libra, Stanotte nella battaglia pensa a me.
Sotto PLC c’era scritto a sinistra “Tutto Ammaniti e tutto Lucarelli”, Altri libertini e a destra, “tutto quello che è stato scritto prima del 1901”.
Luisanna aveva protestato, perché adorava Victor Hugo e Zola, ma anche il Master di Ballantrae, per dire di un inglese.
Dopo aver piegato il tovagliolo a metà con un mezzo sorriso, Castaldi le aveva sfiorato la mano e a quel gesto Luisanna pensava mentre si mordeva il labbro.
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“Mi sono laureato con una tesi su Ariosto. Il titolo non lo dico per non fare pubblicità”; Castaldi aveva cominciato così, con una battuta che non la aveva fatta ridere.
Alla stazione di partenza Luisanna non lo aveva visto e aveva tirato un sospiro di sollievo.
In treno si era messa a leggere La Repubblica, più per isolarsi dagli altri che per effettivo interesse.
Sul marciapiede a Roma Castaldi si era materializzato accanto a lei. “Ti eri nascosta bene!”. Luisanna non aveva chiesto come fosse arrivato a Roma, ma se lo trovò a fianco e attraversarono tutta la stazione Termini senza dirsi quasi nulla.
A metà di piazza dei Cinquecento Castaldi disse: “che ne dici se facciamo un salto da Feltrinelli?”. A Luisanna non sembrò un’idea malvagia e, sempre senza parlare, arrivarono da Feltrinelli.
Luisanna si portò prima verso i libri in edizione originale: voleva comprare l’edizione americana di Underworld, per vedere se la traduzione italiana, seppure spettacolare, potesse avere rubato qualcosa.
Si gingillò un po’ e alla fine prese il libro dallo scaffale; poi andò verso la narrativa italiana e lì ci trovò Castaldi che le disse perché non leggi Ammaniti?, anzi tanto disse e tanto fece che finì per regalarle Ti prendo e ti porto via.
Insomma, ridendo e scherzando, con i brividi che Luisanna provava ogni qual volta entrava in una libreria (riusciva a paragonarli solo a quello che provava quando affondava l’indice in un barattolo di Nutella appena aperto) e con le gote rosse per l’aria un po’ viziata, videro che era quasi l’una.
“Qui alla Galleria Esedra penso che riusciamo a mangiarci qualcosa” le fece Castaldi
Si sedettero in un tavolino che bastava a malapena reggere la minerale e i due bicchieri; mangiarono senza attenzione i tramezzini e, alla fine dei tramezzini, Castaldi se ne uscì con la frase sulla sua tesi.
“In realtà, mi sento uno dei massimi esperti italiani su Ariosto; conosco aspetti secondari sull’esistenza, recito a memoria tutto L’Orlando Furioso. E ti giuro, non lo dico per vantarmi. Ma è tutto nato da lì. Un paio d’anni fa, di questi tempi; stavo allo Scientifico di ***. Stavo facendo la lezione introduttiva all’Ariosto e cercavo di fare un Bignami dell’Orlando Furioso, una cavolo di presentazione. A un certo punto li guardo ad uno ad uno negli occhi e capisco: ‘Cosa cazzo gli frega ad un ragazzo del terzo millennio di Ariosto; questi sono ragazzi che si fanno la letteratura con gli sms, che leggono sì e no tre libri l’anno, che a malapena ricordano a memoria un testo di Vasco. E io, che ci sto a fare ad insegnare cavolo di cose che non sanno che farne’. Bè, da allora ho deciso: leggo solo romanzi di scrittori viventi, o comunque quantomeno, prendi Tondelli, che potrebbero essere viventi; ah, e la musica, Pearl Jam, Radiohead, solo cd nuovi, basta con i nice price che so, di quelle cose che ci piacevano quando eravamo ragazzi, i cantautori, Dylan. Ecco, la vita l’ho cambiata io”.
Luisanna avrebbe voluto rispondere qualcosa sulle ultime parole, ma si limitò a dire qualche banalità sulle ultime generazioni, sul fatto che se ne stiano anche per la strada accucciati a fissare il cellulare.
Quando ebbe finito di parlare, Castaldi stette quindici secondi in silenzio, poi disse. “Non mi hai risposto alla domanda, anzi, hai ragione, forse non te l’ho fatta la domanda. Non pensi che siamo ad un punto della vita che bisogna cambiare tutto? Non parlo della crisi di mezza età, parlo di consapevolezza dell’unicità dell’occasione, parlo del fatto che chi si ferma è perduto sembra una banalità ma è una legge di natura. Io, da allora non mi sono più fermato.
Sai come dicono i Pearl Jam?
I know I was born and I know that I’ll die
The in between is mine
E non te lo traduco perché l’inglese me lo insegni tu. E così non mi accontento più di leggermi le recensioni dei film per poi vederli d’estate: se mi piace l’idea vengo a Roma a vedere la prima; e poi i libri me li voglio leggere appena usciti. Sai, ho cominciato a partecipare ai forum su internet e, insomma, gira che ti rigira, sono diventato redattore di una rivista telematica sulle novità librarie. E poi…”; e poi Castaldi disse altre cose e Luisanna aveva cominciato a sudare.
Dopo avere annuito e negato quasi a comando ed avere buttato lì qualche ‘certamente’, ‘direi’, ‘d’accordo’, Luisanna si sentì dire “E perché hai lasciato tua moglie? Perché a un punto della vita bisogna cambiare tutto, pure la moglie?”.
Castaldi si esibì in un sorriso spettacolare, poi divenne serissimo: “Conosci il significato della parola consunzione? Bene, applicala ai sentimenti.”
*****
Dopo un respiro un po’ troppo sonoro di Luisanna, Castaldi disse “che ne dici del caffè?”.
Quando arrivarono il decaffeinato di Luisanna e il macchiato di Castaldi, lui se ne uscì con “Vuoi fare un piccolo gioco?”
Prese il tovagliolo da sotto il piatto del panino, disegnò due T e poi disse: “Scusami, come ti chiami, precisamente, di nome?”. “Vedi”, ridacchiò lei “a volte penso che il mio nome sia un po’ il simbolo di come sono: quando sono nata i miei non vollero fare torto a nessuna delle due nonne e quindi da Luisa e Anna, uscì fuori Luisanna” “Bè, è particolare … “ “Vedi, su certe scelte penso di essere una persona decisa, su altre rimango lì a guardare le due strade e alla fine non scelgo né Luisa né Anna: resto una via di mezzo”.
“Non pensi …” cominciò Castaldi. “Ti prego” lo interruppe Luisanna, “non dirmi che ormai sono abbastanza adulta da fare scelte chiare e definitive: primo, è un discorso troppo articolato e, forse, troppo personale; secondo, forse qualche problema ce l’ho, a mettermi in discussione e questa è la cosa più personale che sono disposta a dirti”.
Stavolta il sorriso fu qualcosa a metà tra la complicità e la presa in giro. “Pensa che i miei non mi hanno chiamato Pierluigi, tutto attaccato; forse sembrava banale e mi hanno chiamato Pierre Luigi, con il Pierre alla francese. Pare che mio padre avesse letto qualche articolo sul fulgido futuro che attende i nascituri con i nomi particolari, che so, Alcide, Amintore …”
Risero e a Luisanna sembrò di aver smesso di sudare.
Castaldi scrisse le iniziali sulle due tabelle e disse. “Semplifichiamo un po’ tutto: nella colonna di sinistra i libri che ti sono piaciuti e nella colonna di destra quelli che ti hanno fatto rivoltare lo stomaco”.
“Devo avere proprio vomitato, o basta, ad esempio, che abbiano deluso le attese?”
“Direi che basta che abbiano deluso le attese”
Ci volle una buona mezz’ora per scrivere le tabelle e si misero a commentare (lui disse qualcosa del tipo ‘Underworld è fenomenale, ma l’ho sentito poco vicino a me, per quello tra i buoni ci metto solo italiani’), si persero dentro una serie di coinvolgimenti personali, di pezzi citati a memoria, si scambiarono consigli e promesse di prossimi prestiti.
Luisanna guardava Castaldi e ripensava alla storia delle impressioni e delle opinioni.
Castaldi disse “Non mi ero sbagliato”, poi aveva piegato il tovagliolo a metà, poi le aveva sfiorato la mano. Anzi, no. Castaldi le aveva accarezzato la mano.
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Sul treno c’era lei, c’era Forster, Lucy Honeychurch, c’era Don DeLillo, c’erano mucchi di libri già letti, mucchi di libri da leggere, film, c’erano giornate, c’erano facce, c’era pure Iacopo.
Luisanna si mordeva il labbro e si mise a sperare che il treno facesse un ritardo pauroso.
Si mise a sperare di restarsene lì, con un inizio di sapore di sangue in bocca; voleva continuare a credere che si trattava di depressione, dato che l’aveva battezzato così, quello strano dolore. Avrebbe trovato qualcun altro disposto ancora a compatirla, a starla a sentire, a dirle di non preoccuparsi.
A pochi chilometri dalla sua stazione, riuscì a stare un attimo senza pensare a niente.
Si rivide bambina, prima di addormentarsi, che si diceva ‘hai visto, sei riuscita a stare dieci secondi senza pensare a niente’; invece, si mise a pensare come sarebbe stato bello non dover pensare mai più a niente.
Ma, in realtà, sapeva come sarebbe andata a finire.
Sapeva bene cosa c’era giù da quel treno.
Scendendo gli scalini, si disse che se c’era una cosa che sapeva di certo era il significato della parola consunzione. Applicata ai sentimenti, ma non solo.
Il vecchio muro scrostato della stazione, un cartone per terra, ormai macerato dalla pioggia.
Una pioggia di mezzo dicembre, una città, un posto senza neve, senza nebbia; un posto di un grigio rigoroso e definitivo.

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