mercoledì 25 gennaio 2012

Questo qui sotto non è un racconto, ma un regalo ad un'amica. Lei mi ha raccontato di un periodo della sua vita e io mi sono inventato la sua vita.
A lei è piaciuto


CINQUE MESI
Appena ebbe firmato il contratto di franchising le si spalancò un sorriso spontaneo.
Era stata cinque anni in erboristeria e finalmente ne aveva una sua; quando lavorava per altri, Annarita aveva fatto diventare il negozio il più importante nella provincia. Quando nessuna sapeva nemmeno cosa volesse dire, era stata la prima a vendere prodotti equi e solidali.
E adesso Erbe e salute avrebbe aperto il 20 di maggio.
L’avvocato Di Stefano le sorrideva, le mani intrecciate sulla pancia; il procuratore della Erbe e salute raccoglieva le sue copie del contratto, con un respiro quasi ansimante.
Annarita, forse per la soddisfazione, si estraniò un attimo dalla sala riunioni color noce dell’avvocato e si mise a fare l’appello delle sue sensazioni.
Si accorse che il procuratore le aveva teso la mano quando ormai la mano era ormai ritratta e l’in bocca al lupo già bofonchiato.
Una segretaria chiamò l’avvocato Di Stefano per una telefonata urgente e Annarita divise i suoi pensieri tra la pratica di finanziamento dell’imprenditoria femminile, da completare di lì a una settimana e quel tunnel lungo cinque mesi.
Primo mese
Luca non capiva: a lui bastava un sabato sera, da soli in pizzeria, zitti per la gran parte del tempo; anzi meglio quando Luca veniva a casa sua e si faceva due chiacchiere con il papà di Annarita, che da quando era in pensione stava involvendo in un mutante metà barba incolta e metà vestaglia.
La mamma di Annarita stava dietro il velo di una cataratta, aspettando per terrore dell’anestesia un’operazione da fare ormai con urgenza.
Annarita era terrorizzata dall’incubo, che un giorno Luca comprasse un paio di pantofole e le lasciasse a casa sua, per usarle quando la veniva a trovare; da quando le era venuto questo terrore, aveva deciso di girare per casa scalza, come ad abituare il pavimento al contatto con la pianta dei piedi o con i calzini.
Un venerdì sera, dopo che Luca e suo padre avevano discusso di qualche calciatore a lei ignoto, Annarita accompagnò Luca all’ascensore e si accorse, fuori dalla porta che quel saluto rapido (di solito, un piccolo bacio a bocche chiuse) era l’unico momento di contatto tra di loro. Quella sera, neanche una parola, sull’erboristeria ad esempio, sul fatto di partire insieme in franchising, niente di niente.
E davanti all’ascensore Luca aveva due occhi pieni di speranza, da animale sottomesso, che sperava nello zuccherino del suo domatore.
Quando ripensava a quella sera, Annarita sapeva che era lì, al din don dell’ascensore, che una storia di sei anni era finita; i dieci giorni successivi erano stati tali e quali ad una proroga che un creditore concede ad un debitore, pur sapendo che non vedrà mai un soldo.
Secondo mese
Annarita andò con la proposta di franchising dall’avvocato Di Stefano.
La scelta, oltre ad un buon sentito dire, derivava dal fatto che aveva lo studio nel palazzo dall’altra parte della strada e che aveva diviso molte volte l’ascensore con lui, da quando, da un paio d’anni, la madre dell’avvocato era andata a vivere nel suo palazzo.
Di Stefano proruppe in una risata: “Era il sogno della mia vita, prendere un cliente perché vive nel palazzo di fronte a studio; proprio un’aspra selezione!”; Di Stefano era alto tra uno e novanta e uno e novantacinque e si presentava sempre con camice bianche che sembravano sempre troppo strette. “Il giorno che ho comprato un vestito 60 di taglia, ho capito che ero un uomo finito” le aveva detto Di Stefano.
“Ho un’esperienza di cinque anni nell’erboristeria al centro commerciale, ma credo sia ora di partire da sola” aveva esordito in maniera abbastanza professionale, come se dovesse convincere l’avvocato di essere all’altezza di aprire una propria attività commerciale.
C’era tornata un paio di altre volte, dall’avvocato, per una proposta integrativa e per una proposta di un’altra catena.
In quel mese, un paio di volte uscì con delle amiche per andare in qualche posto dove facevano balli di gruppo; con Marzia, la sua amica storica, andò qualche volta in palestra la sera e più di qualche volta a mangiare la pizza o al pub, ma le chiese risolutamente di evitare che ci fossero ragazzi.
“Sono in stand-by” era la frase a cui si stava sempre più affezionando.
Terzo mese
La mamma di Annarita fu portata in ospedale praticamente a forza.
Fu operata un martedì mattina, dopo aver chiesto di entrare in sala operatoria stringendo un crocefisso; l’operazione, che era banale routine, andò bene, ma purtroppo per dimostrare a sé stessa di poter tornare rapidamente in forma, si alzò dal letto troppo presto e fece una brutta caduta. Clavicola rotta e quello che doveva essere un degenza di qualche giorno divenne un mezzo calvario per tutta la famiglia, primo fra tutti per il padre di Annarita che fu costretto ad abbandonare la sua tenuta da pensionato e a cercare di fare qualcosa per sua moglie.
Il risultato fu il peggiore possibile: avrebbe dovuto essere il marito a tirare su la moglie e invece fu la moglie a far spegnere qualcosa in lui.
Il padre di Annarita cominciò a soffrire di insonnia; poi durante il giorno si sentiva così stanco che non riusciva a guidare e Guglielmo, il fratello di Annarita, rimasto da poco senza lavoro, si era dovuto sacrificare a fare da autista per i tragitti casa-ospedale e ritorno, ma anche per qualsiasi altra incombenza familiare, dato che qualsiasi evento ordinario sembrava al di sopra delle forze di quel padre malato per empatia.
Annarita dovette sospendere qualsiasi attività al di fuori delle otto ore al negozio; la storia del franchising fu accantonata, dopo una mezz’oretta passata con l’avvocato Di Stefano, al quale aveva preferito comunicare la sospensione delle trattative di persona e non per telefono.
Quasi senza accorgersene, non solo quelle settimane di camici e pigiami, ma anche la storia dello stand-by e alcune telefonate di un Luca particolarmente incline al lamento, finirono per riempire quelle mezz’ora nella sala riunioni dello studio legale, tanto che a un certo punto Annarita si fermò nel mezzo di una frase sull’ultima telefonata di Luca.
“So che hai” le aveva detto l’avvocato; “ti sembra assurdo raccontare cose tanto personale a me, che sono un estraneo. Però ragiona un attimo: c’è gente che le va a raccontare al prete, le cose personali, e il prete è un estraneo, in fondo: è che alcune questioni ci sembrano così delicate, che parlarne a persone a cui teniamo ci sembra che possa offenderle.”
Annarita annuì, rise e cercò di congedarsi nel più breve tempo possibile.
Si sentiva sollevata, mentre scendeva le scale del palazzo dove era lo studio di Di Stefano, come se aver trovato un prete personale potesse servirle a qualcosa; tempo un minuto e tutto era tornato come prima: un sms di Luca, “T prego kiamami!!!”
Quarto mese
Certe sere voleva che Luca la chiamasse, anzi avrebbe voluto uscire con lui e sentirsi rassicurata dalla semplice presenza, giacché era comunque abbastanza obiettiva da sapere che, per il resto, non c’era più molto.
Sua madre era tornata a casa e a casa sembrava avessero firmato tutti e quattro un tacito armistizio: Guglielmo, degradato da pilota a disoccupato, aveva passato un paio di settimane con Annarita all’erboristeria; suo padre e sua madre sembravano darsi compagnia l’un l’altra passando quasi tutto il tempo in due stanze diverse.
Marzia aveva lasciato un ragazzo per un altro, con la stessa non-chalance con cui si cambia d’abito: per qualche giorno questo fatto l’aveva allontanate, ma più per una sorta di critica silenziosa al comportamento che sembrava leggero, che per un qualche rilievo sull’uno o l’altro dei due pretendenti.
A un certo punto pensò di essere diventata eccessivamente seria, come se a ventisei anni non avesse altra scelta che trovarsi un buon partito e trasformarsi in una versione non geneticamente modificata dell’angelo del focolare.
Per un paio di sere ebbe difficoltà ad addormentarsi: aveva qualcosa che avrebbe potuto battezzare tachicardia, un eccesso di tensione che le impediva di dormire. Non riusciva a pensare niente che potesse essere così importante da distrarla da quell’eccesso di tensione: si ritrovò in salotto a guardare la televisione e finì per guardarsi una trasmissione di maghi dopo l’altra.
Per quelle due notti, si addormentò verso le quattro, esausta.
Alla terza sera consecutiva di difficoltà, nonostante due tazze di camomilla e una cena leggera, scrisse un sms a Luca: “NN riesco a dormire: mi piacerebbe ke mi cantassi una ninnananna”.
Al momento di spingere il tasto per l’invio, fu come attratta dalla luce dei fari oltre le persiane semichiuse, si mise una vestaglia e un montgomery sopra la tuta di pile che usava come pigiama e, cercando di fare meno rumore possibile, uscì sul balcone.
Prima si appoggiò alla ringhiera, poi prese una sedia di plastica a si sedette: alle due di notte di un giovedì di marzo, neanche troppo primaverile, passava una macchina ogni cinque minuti, forse di ritorno da balli di gruppo in discoteca.
Ma oltre ai fari, le sembrava che le cose, di notte, avessero un senso differente che di giorno; le ombre sui muri di una villetta poco lontana, le parvero per qualche minuto una persona, un compagno di insonnia. I cani randagi si muovevano a gruppetti; vide un paio di finestre illuminate nel palazzo dall’altra parte della strada e un paio di luci azzurrine fluttuanti in stanze dove era ancora accesa la TV.
Non c’era bisogno di mandare messaggini qua e là, queste strade, queste case, sono la mia città, la mia vita; di notte queste ombre me la rendono più umana, questa città, mi dicono che questo è il mio posto. Questo pensava Annarita, col cappuccio del montgomery alzato, pensava che lei stava per entrare in scena e lo sfondo, almeno quello, era a posto.
Decise di andare a dormire solo quando a est, il nero della notte sfumò in un grigio.
Quinto mese
Marzia tornò al ragazzo precedente; il ragazzo precedente diede una festa, per la laurea breve; a casa del ragazzo precedente di Marzia, Annarita conobbe Massimo.
La prima cosa che capì dopo che si baciarono, la sera della festa, sul balcone, è che non era mai stata con un ragazzo così bello, tanto bello che se avesse avuto gli occhi chiari, sarebbe stato perfetto.
In mezza giornata seppe tutto su di lui e non le sembrò un buon segno: usciva anche lui da una storia di tre-quattro anni e anche questo non le sembrò un buon segno.
In mezza giornata seppe che impazziva per la pallacanestro e per i margaritas, che si sarebbe comprato una Golf appena possibile, che si ricordava di Annarita, da quando stava con Luca e un paio di volte l’aveva vista in erboristeria; che di Annarita gli piacevano i jeans a vita bassa e come rideva (o almeno queste, secondo Annarita, erano le cose che poteva dirle). Ah e poi, che la domenica sera sarebbero usciti dopo le dieci, perché gli piaceva la Gialappa e che per l’estate pensava che sarebbero andati o a Djerba o a Maiorca.
La prima riflessione di Annarita fu abbastanza scontata: dopo un giorno come può pensare questo qua che staremo ancora insieme ad agosto? La seconda riflessione fu su un immediato e furioso shopping di gonne e tailleur, perché non voleva vestirsi in un determinato modo solo perché a lui piaceva.
Una sera, per provare che effetto facessero come coppia, uscirono insieme a Marzia ed al ragazzo precedente, che ormai era stato reinsediato come titolare.
La sera, la pizza andò avanti a scossoni, quasi che la maggior parte del tempo la passassero a cercare un argomento che fosse di gradimento di tutti e quattro. La cosa che le piacque di più quella sera fu che la sua gamba era stata a contatto praticamente costante con quella di Massimo, come se le cose che non si vedevano di loro due, fossero più importanti e più forti di quelle che volevano mostrare agli altri.
L’indomani Massimo aveva un appuntamento importante abbastanza presto per un lavoro, e quindi la riaccompagnò a casa a mezzanotte e spiccioli.
All’una Marzia le telefonò. Esordì così: “Annarì, è lui, è quello giusto, è bello, anzi no, è bono. E come ti guarda, Annarì, come ti guarda”. Quelle tre parole le sembrarono più di un segno: “come ti guarda” e non “come vi guardate”. Insomma, in venti minuti, Marzia le spiegò che erano perfetti, che erano usciti tutti e due da storie precedenti nello stesso momento e questo ovviamente era dovuto ad una forza superiore, che i ragazzi non si cambiano come i vestiti (e qui Annarita non replicò solo perché gli occhi le si chiudevano quasi).
Annarita provò a spiegare quanto era presto per giudizi così definitivi, che, certamente, Massimo diventava ogni giorno più importante, che certe cose le sembravano fantastiche (e qui ripensava alle gambe attorcigliate sotto al tavolo). Aveva dentro qualcosa che poteva diventare un entusiasmo, ma ancora non lo era.
Un paio di giorni dopo Luca entrò nell’erboristeria, con gli occhi pesti di chi è venuto a sapere.
Annarita chiamò Guglielmo e gli chiese se poteva fare un salto per sostituirla al negozio per un’oretta; chiese a Luca di aspettarla in un bar a un centinaio di metri dal centro commerciale: tutto questo senza che Luca proferisse parola.
Annarita arrivò al bar e Luca aveva chiesto un caffè per lui ed un succo di frutta alla pera con un po’ di latte per lei. Il messaggio, nascosto nel break delle dieci e mezza della mattina da lei preferito, parve chiaro ad Annarita: io conosco i tuoi gusti, so chi sei, noi condividiamo delle cose.
Tre quarti d’ora dopo Annarita aveva alcune certezze. Prima certezza: aveva fatto bene a stare quattro anni e mezzo con Luca, era cresciuta con lui e gli doveva tanto; secondo certezza: era finita tra loro, senza rimpianto, ma con qualcosa che assomigliava alla serena certezza che fossero un passo da fare, l’uno per l’altra.
Luca aveva cominciato con una serie di velate accuse, di poco rispetto, di facilità, di eccessiva fretta; ma poi Annarita aveva spiegato, forse un po’ anche a sé stessa, quale fosse l’effettiva situazione, la storia dello stand-by; alla fine aveva lasciato socchiusa la porta, con una frase sospesa, del tipo “non è detta ancora l’ultima” o “potrebbe farci bene”.
Era l’unica nota di amarezza di quel succo di frutta alla pera con un po’ di latte: che quelle frasi buttate lì, con l’abito da speranza, servissero solo per consentirle di tornare rapidamente al lavoro.
Quella stessa sera, a cena, sua madre preparò uno sformato con le patate, che di solito riservava per le feste: era festa, del resto, dato che il medico le aveva dato il via libera per poter tornare al lavoro, purché restasse seduta e non facesse cose deliranti, tipo guidare o giocare a tennis.
A tavola suo padre mise un vino che gli aveva portato un paio di settimane prima un cugino che aveva una vigna nell’avellinese; Guglielmo cominciò a fare l’imitazione del vecchio Puglisi, quello del piano di sotto, l’ex funzionario dell’intendenza di finanza, che parlava come un libro di Camilleri.
Ad Annarita vennero le lacrime agli occhi per le risate: almeno questa, pensò, è sistemata.
Fine del quinto mese
La mattina dell’appuntamento per la firma del contratto di franchising, Annarita era scesa di casa per prendere la macchina per andare a lavoro, ma arrivata in garage vide che non aveva le chiavi della macchina.
Tornò su, dopo aver incrociato nell’androne suo padre e sua madre che uscivano di casa.
Aprì le quattro mandate della porta di casa e camminò svelta verso camera sua: ci entrò e fu come una luce accecante.
C’erano due bambole, cinque Barbie sulle mensole, un numero imprecisato di sorprese degli ovetti Kinder, una cornice a giorno con dentro una ventina di foto, di cui almeno quattro o cinque di Luca o con Luca. Un paio di programmi di saggi di danza classica, che aveva smesso alla fine delle medie; un poster di Vasco e uno di Piero Pelù, abbastanza piccoli per la verità, forse delle pagine centrali di riviste; pantofole di Pluto, le scarpette da danza, un armadio con attaccati adesivi di Barbie, dei Take That, di Bugs Bunny.
Annarita pensò: è la stanza di una ragazzina.
*
Quando finalmente si risvegliò dal torpore, l’avvocato Di Stefano era rientrato nella stanza e aveva cominciato a raccogliere le copie del contratto. “Allora, è andata!” disse Di Stefano. “Ah, cosa… sì, è andata” Annarita tornò in sé e si disse che quel periodo di dubbi, incertezze, problemi e stravolgimenti doveva essere finito. “Sa, avvocato, in questi cinque mesi mi è successo di tutto: una galleria lunga cinque mesi”.
L’avvocato Di Stefano sorrise a mezza bocca, poi fece sornione: “C’è una battuta di Lucia Vasini, che è stata la compagna di Paolo Rossi. Diceva così: ‘sono cinque mesi che non ho un uomo. Voi direte: cosa sono cinque mesi nell’arco di una vita? Sono d’accordo, ma cinque mesi nell’arco di cinque mesi?’”.
Annarita rise forte, strinse la mano all’avvocato e se ne andò, dentro un inizio di primavera che sembra sapesse fare il suo mestiere.
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Ormai anche Massimo sembrava che cominciasse a capire: non era quello giusto, il definitivo, l’insostituibile. Massimo era uno spunto. Certo, un gran bello spunto; ma era lo spunto per una fase nuova, fuori dai cinque mesi, con l’erboristeria Erbe e salute e mai più ragazzina.
Mentre pensava queste cose, dentro ad un mobilificio, le squillò il cellulare. “Ohi, Marzia!” “Come va?” “Sto in un mobilificio” “Cavolo, l’avevo detto io che te lo sposavi, Massimo. Già ti stai a fa’ casa”. “No, Marzia, non mi faccio casa, mi sto rifacendo camera mia, con mobili che reggano almeno altri dieci anni”.

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