mercoledì 25 gennaio 2012

IL CUSTODE

Quando passò davanti alla pasticceria l’ingegner Spinosa provò un brivido.
Prima che chiudesse lo stabilimento, faceva colazione in quella pasticceria tutte le mattine, un cornetto alla crema e un latte macchiato.
Oramai, la colazione al bar era entrata a far parte di quelle spese voluttuarie che aveva dovuto eliminare. Faceva colazione in cucina, con sua moglie, con il tè e un paio di fette biscottate.
Era dura inventare scuse con gli amici, quando lo invitavano in qualche ristorante un po’ caro: sperava sempre di convincerli che per stare bene in compagnia bastavano una pizza e una birra.
Lo stabilimento era chiuso dal 17 aprile del 2001, il martedì dopo Pasqua.
La società era in crisi ormai da qualche anno, ma nessuno pensava che potesse chiudere proprio lo stabilimento della città dove la famiglia Palladini abitava.
L’ingegner Spinosa era stato uno dei primi a sapere della chiusura, a metà gennaio, ma non l’aveva saputo da uno dei Palladini. Era stato il suo capo, l’ingegner Baldesi, direttore generale area industriale, ad avvertirlo.
Spinosa, nei primi tempi, l’aveva tenuto per sé: non aveva detto nulla in famiglia ed ai suoi collaboratori.
A fine marzo la notizia era cominciata a trapelare e dal primo al 17 aprile lo stabilimento era formalmente aperto, ma era occupato.
Il 18 aprile era semplicemente sbarrato; l’ingresso degli operai era chiuso con un lucchetto, così come anche quello degli uffici amministrativi.
A fine agosto la società era fallita; invece che dai lucchetti, le porte erano state chiuse dai sigilli del Tribunale.
Spinosa, come tutti, del resto, a quel punto era senza stipendio dal dicembre 2000.
Spinosa superò la pasticceria, salutò un paio di vecchi colleghi che bighellonavano in piazza; al semaforo dopo la piazza c’era ancora la freccia “Tecnocarta Palladini” e Spinosa seguì la freccia.
In tutta la città era l’unico ormai ad andare allo stabilimento.
Dall’inizio del 2002 il Tribunale fallimentare lo aveva nominato custode.
**
Spinosa cacciò fuori dalla tasca un mazzo con una cinquantina di chiavi. Erano le chiavi degli uffici, dello stabilimento, dei magazzini, degli spogliatoi, della mensa, di altri edifici all’interno del recinto dello stabilimento, della palazzina dell’amministrazione, che stava in una villetta poco fuori città.
“Sembri San Pietro”, la battuta di sua moglie, il primo giorno in cui era andato a fare il custode era stata fin troppo facile.
Aprì il lucchetto degli uffici amministrativi, recitò a memoria il cartello che c’era scritto sulla porta a vetri: “Tribunale di *** - Immobile chiuso per ordine dell’autorità giudiziaria. Fto Il Cancelliere”.
Tolse i due bigliettini della società di vigilanza dalla porta ed entrò nella palazzina uffici.
La prima stanza era piena di vecchi tabulati; Spinosa controllò che la finestra fosse ben chiusa e poi entrò nella seconda stanza, dove c’era il centralino.
Poi salì le scale e andò a controllare la sala riunioni grande, dove il curatore ed i suoi coadiutori avevano riunito tutta la documentazione contabile. L’enorme tavolo, attorno al quale c’erano quattordici sedie, era per metà ricoperto dei libri contabili degli ultimi anni: l’altra metà era l’unico tavolo che veniva tenuto pulito. Spinosa con un po’ di Scottex e di Pronto gli dava ogni tanto una botta per poter consultare i registri e le fatture senza riempirsi di polvere.
Entrò poi nella stanza che era stata di Rossella, la sua segretaria.
La stanza era ordinata, come era sempre stata ordinata nei dieci anni in cui Rossella era stata la segretaria del direttore dello stabilimento.
Sul tavolo c’era la copia di una lettera del 31 marzo 2001, in cui Spinosa rispondeva alla Erin Moran, una delle migliori clienti, che lamentava problemi di qualità sull’ultima fornitura.
La lettera aveva protocollo 01/48 ES/RS, la quarantottesima lettera del 2001 spedita a firma dell’ingegner Egidio Spinosa e redatta da Rossella Solvino.
Era l’ultima lettera partita dal suo ufficio e nei giorni più bui aveva pensato che era l’ultima lettera da lui scritta per motivi di lavoro.
Uscì fuori dagli uffici e si diresse verso la stabilimento.
Salì su una vecchia Graziella, che aveva scovato facendo le pulizie in garage e che gli serviva per raggiungere le parti più lontane dello stabilimento, come il depuratore, che era a quasi un chilometro dall’ingresso.
Fece il primo giro nel perimetro dello stabilimento, per vedere se c’era traccia di una qualche intrusione notturna.
***
Qualche giorno prima di Natale del 2001, aveva ricevuto un telegramma a casa. Il testo era più o meno questo: “Contattare senza indugio avv. Abbamonte curatore fallimento Tecnocarta Palladini per restituzione immediata auto indebitamente in vostro possesso”.
L’ingegner Spinosa aveva chiamato più inviperito che preoccupato, ed il 21 dicembre del 2001, alle cinque, si era presentato presso lo studio dell’avvocato Abbamonte.
Dopo una stretta di mano un po’ distratta, Spinosa, che pure non era un tipo aggressivo, aveva esordito a voce piuttosto alta. “Mi ha preso per un ladro? Sarà pure vero che ce l’ho in giardino quella macchina, ma non la tocco da mesi”
“Un attimo, un attimo”. Abbamonte aveva preso in mano una delle venti-venticinque pipe che aveva su un mobiletto accanto alla scrivania. “Si figuri, ingegnere, se la prendo per ladro? Abbiamo avuto un colloquio con il presidente del consiglio di amministrazione, il quale ci ha riferito, tra l’altro, che lei aveva assegnata una … vediamo … una Seat Arosa targata BD 219 SP, di proprietà della società”.
Spinosa avrebbe voluto chiedere che fine aveva fatto la Mercedes 500 SEC del presidente del consiglio di amministrazione.
“Avvocato, mi dica cosa devo fare” aveva invece detto.
“Guardi, dovrebbe semplicemente consegnarmi le chiavi ed il libretto” aveva risposto Abbamonte. Poi aveva continuato: “Lasciamo stare per un attimo la macchina … Lei che ruolo aveva nella società?”
“Ero il direttore dello stabilimento di ***”
“Direttore dello stabilimento” Abbamonte si concentrò un attimo. “Bene. Senta, ha dei problemi se attende un quarto d’ora? Vorrei farla parlare con lo stimatore della procedura”
Spinosa aveva soltanto annuito; per il quarto d’ora non c’era problema, il tempo non era un problema da mesi.
Esattamente un quarto d’ora dopo, un ometto oltre la cinquantina con un brutto maglione a V ed un paio di vecchi pantaloni di velluto si presentò come l’ingegner Salvatori.
Avevano parlato per un’ora dello stabilimento, delle produzioni, di quali macchine erano più commerciabili e quali meno, degli interventi di manutenzione che potevano essere necessari per mantenerle comunque in grado di funzionare.
Per Spinosa fu come rinascere: non parlava dello stabilimento da mesi e non parlava con qualcuno competente da mesi.
Se ne andò verso le sette con la sensazione di potersi ancora aggrappare a qualcosa.
La mattina dopo Abbamonte lo aveva chiamato: in maniera asciutta e senza nessun fronzolo aveva detto: “Ingegnere, abbiamo bisogno di qualcuno che custodisca lo stabilimento, vigili per evitare pericoli e controlli le macchine per evitare che perdano di valore. Ci serve inoltre per dare una mano nelle operazioni di migliore inventariazione delle macchine ed in tutte le fasi di liquidazione dell’attivo. L’ingegner Salvatori ed io riteniamo che lei sia la persona che per competenza e conoscenza dei luoghi possa svolgere questo ruolo per la procedura, a meno che non abbia altri impegni”.
Dal giorno dopo Capodanno ebbe in mano l’enorme mazzo di chiavi e 1.250 euro al mese.
****
Vicino al depuratore trovò due siringhe, ma ormai c’era abituato.
Si accese una sigaretta; tutte le volte che l’accendeva pensava che le sigarette erano certamente una spesa voluttuaria, ma poi si giustificava con tutti i problemi che c’erano stati negli ultimi tempi; e poi, in fondo, fumava due sigarette in tutto il giorno, la prima al depuratore e la seconda subito dopo il caffè, sul balcone di casa.
Gettò la sigaretta in mezzo ai mozziconi dei giorni precedenti e riprese il giro.
Con la Graziella arrivò al deposito prodotti finiti; era stato il primo locale ad essere svuotato, per quelle forniture che erano rimaste sospese al momento del fallimento.
Era riuscito ad evitare che il curatore svendesse il materiale, esaminando in maniera piuttosto dettagliata le offerte.
Il deposito aveva un lieve strato di polvere, forse sabbia della piccola cava vicina, e su quel pavimento di cemento e sabbia poteva riconoscere le sue impronte dei giorni precedenti: cercava sempre nuovi itinerari per sentirsi come quei bambini che camminano per primi sulla spiaggia dopo che è passato il trattore per arare via la sporcizia.
Ormai per continuare il suo gioco privato era costretto a passare quasi radente ai muri. Anche per la notte passata nessuno era entrato nel deposito.
Si diresse quindi all’interno del capannone nuovo, che chiamavano così da quando, dieci anni prima, era stato costruito vicino al vecchio che di anni ne aveva più di quaranta.
Dentro al capannone nuovo c’era una vecchia linea di produzione, che forse il curatore sarebbe riuscito a vendere come ferraglia. La società l’aveva comprata usata e aveva cercato di farla passare per nuova per un finanziamento regionale, mai ottenuto.
Vicino allo spogliatoio degli operai vide un pacchetto vuoto di MS, e pensò “Diavolo, Iordan”. Raccolse il pacchetto e se lo mise in tasca al giubbotto, riproponendosi di riprendere Iordan con la voce impostata e severa che aveva quando teneva le riunioni del Circolo qualità.
Sorrise pensando alle riunioni di quel Circolo qualità che gli aveva occupato la mente e la scrivania per mesi: i Palladini erano arrivati a capire che la qualità potesse essere importante solo al terzo cliente che li aveva abbandonati perché non erano certificati.
Spesso si affaticavano nell’organizzare feste magnifiche nella villa ad un chilometro dallo stabilimento dall’altra parte del fiume, o nelle riunioni dell’Associazione degli industriali o, più spesso del Rotary: spendere un centinaio di milioni di lire per la qualità appariva una spesa inutile.
Il Circolo qualità si riuniva in un gabbiotto in fondo al capannone nuovo.
E dentro il gabbiotto, sopra quello che era il divano per gli ospiti di riguardo, sonnecchiava Iordan.
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Certamente avevano comprato una casa troppo grande, una villa con giardino un paio di chilometri fuori dal paese; certamente il mutuo per la casa era eccessivamente pesante, un 6 e mezzo per cento a tasso fisso che ormai era alle soglie dell’usura.
Ma i soldi, quelli veri, quelli che aveva messo da parte in un paio di decenni di lavoro, quelli erano volati via in un anno.
Sua moglie aveva avuto un tumore, e ne era uscita. Ma ne era uscita dopo un anno di viaggi della speranza a Parigi, cliniche private e nessun rimborso da parte dell’assicurazione sanitaria, con cui erano ancora in causa.
I soldi erano finiti, alla fine del 99: anzi in banca stavano sotto di una venticinquina di milioni. Per fortuna il direttore era un vecchio amico di famiglia ed era riuscito a reggere la situazione il più possibile: trecentocinquanta Euro al mese se ne andavano in un piano di rientro, che alla fine era stato il male minore.
Ma i soldi erano finiti e il lavoro non c’era più.
Certe sere la moglie di Spinosa si metteva a fissare un pensile della cucina dietro le sue spalle e gli occhi si perdevano appresso a tutto quello che sembrava essere la loro vita fino a qualche anno prima.
Spinosa lo sapeva: sua moglie si sentiva in colpa per essersi ammalata e per tutti i soldi che erano serviti per curarla; una notte era convinto di averla sentita sussurrare “Fossi morta”.
Certe volte Spinosa pensava che era una prova, che qualcuno aveva deciso di accanirsi contro di lui per metterlo alla prova: erano rimasti praticamente da soli, lui e sua moglie, le ragazze, all’università, a Roma, per fortuna erano abbastanza brave da poter andare avanti senza incidere troppo sulla famiglia, con borse di studio e mille sacrifici al limite degli espedienti.
Proprio la domenica prima le ragazze erano tornate e aveva letto nei loro occhi l’orgoglio per un padre che stava lottando per tutti e quattro.
*****
“Iordan” sussurrò Spinosa, “Iordan”.
Iordan si girò; dormiva vestito, aveva la barba lunga e la pelle di un colore malato.
“Ingeniero …” Iordan sbadigliò. “Che ora sono?”.
“Quasi le nove e mezza. Ma che fai oggi, non lavori?”
“Padrone detto cantiere finito, operai a casa”
Iordan sospirò.
Spinosa una mattina aveva trovato Iordan su quel divano; da qualche giorno vedeva qualche traccia della presenza di qualcuno, una lattina nascosta non troppo bene, un cartone di un McBacon.
Iordan era rumeno e lavorava a nero per un artigiano edile, che dopo essere fallito aveva fatto fare ai suoi operai una cooperativa.
Quando aveva guardato negli occhi Iordan, la prima volta che l’aveva visto, ci aveva letto una storia di speranza, sfruttamento e dignità, la storia di una persona che chiedeva di lavorare per vivere.
Una storia di tanti piccoli e grandi padroni che un giorno, bello o brutto che sia, avevano detto cantiere finito, operai a casa.
Il fornellino da campo su cui la mattina Iordan scaldava il caffè veniva dal garage dell’ingegner Spinosa: anche i brutti pantaloni di fustagno che stavano piegati sopra il tavolo riunioni del Circolo qualità venivano dall’armadio di casa Spinosa, settore pantaloni smessi per incremento taglia.
Soldi, Iordan, non ne aveva mai voluti da nessuno, lo stipendio, a quanto aveva capito Spinosa, andava quasi tutto in Romania.
“E adesso che farai?”
“Cugino Marius, lavorava con me anno scorso, sta a Roma; dice a Roma trova lavoro a me a case private”
“Quindi vai via?”
“Domenica vado a Roma; lui ci ha casa vicino stazione e per un poco dorme là. Poi vediamo trovare altro.”
“In zona?”
“Qua più niente; qualche volta vado dentro casa per lavoro e dicono straniero ruba e non vogliono. Spero Roma”.
Spinosa mise la caffettiera sul fornello. Non si era mai chiesto se quella busta di caffè Splendid che aveva portato a Iordan una settimana prima fosse una spesa voluttuaria.
*****
Una volta aveva provato a parlare con il dottor Palladini, dopo la chiusura dello stabilimento.
Qualcuno aveva detto che in realtà la famiglia aveva ancora uno stabilimento in Tunisia, qualcun altro che la famiglia aveva nascosto un tesoro in Liechtenstein.
Aveva incontrato il dottor Palladini per caso, in un ristorante dove l’ingegner Spinosa era stato invitato per una Comunione; in un’altra sala il dottor Palladini era impegnato in una festa identica a quella di Spinosa, anche se sembrava che il ristorante rispettasse una sorta di divisioni per caste.
Il dottor Palladini stava con sua moglie e con il più grande dei figli, che per un po’ di tempo era stato ribattezzato Direttore progetti speciali, senza che ciò richiedesse di conoscere l’esatta ubicazione dello stabilimento.
L’ingegner Spinosa guardò i tre Palladini da lontano, ormai più di un anno dopo il fallimento: sembravano felici, o quantomeno tranquilli, con facce non troppo dissimili da quelle con cui ricevevano nella grande villa per uno dei proverbiali ricevimenti.
Dal giorno della chiusura dello stabilimento nessuno dei Palladini aveva partecipato a nessun incontro per la riapertura dello stabilimento, né avevano mai risposto ai sindacati che li avevano chiamati in causa sui giornali, né avevano mai parlato con il sindaco, né avevano partecipato ad uno dei quattro consigli comunali straordinari sul futuro dello stabilimento, quando un paio di centinaia di dipendenti, di familiari, di bambini, di donne incinte, avevano aspettato che il sindaco o chi per lui cacciasse dal cilindro un cavaliere bianco che salvasse lo stabilimento e, quindi, la città da qualcosa che somigliava troppo alla disperazione.
Dal giorno della chiusura soltanto silenzio, nient’altro che silenzio; certo, niente più feste in villa, niente più Mercedes o Range Rover, ma neanche una parola, neanche mezzo gesto.
E dentro quel ristorante il dottor Palladini, come sempre di un’eleganza discreta, ma distinta, strinse la mano all’ingegner Spinosa, alla sua vecchia cravatta penzolante da un colletto sbottonato, con un affabile “Salve ingegnere, ho saputo che per sua moglie tutto è andato per il meglio”.
E neanche una parola in un più, a posto o fuori posto. Niente Tunisia, figurarsi il Liechtenstein.
I bambini, stanchi ma felici, verso le cinque, avevano distribuito le loro belle bomboniere, esattamente come sarebbe dovuto accadere.
******
Il caffè non era male, anzi, pensò Spinosa con un po’ di malinconia, usciva ogni giorno un po’ meglio; Iordan ci mangiò sopra due Ringo e ne offrì uno a Spinosa che lo mangiò come aveva visto fare alle sue figlie da bambine, aprendolo in due e leccando la vaniglia prima di mangiare i biscotti.
Iordan rise: “Ingeniero, sembri bambino”.
Spinosa sorrise apertamente, come tutte le volte che Iordan lo chiamava Ingeniero; aveva provato a dirgli il nome di battesimo, ma Iordan, chissà come, era venuto a conoscenza del titolo professionale e lo usava con rispetto.
Un ragno si mise a camminare sui pantaloni di fustagno di Iordan.
Spinosa si alzò; doveva finire il giro.
Strinse la mano a Iordan: “Buona fortuna”
“Buona fortuna” rispose Iordan, forse scambiando la frase per una variazione del buongiorno.
Spinosa uscì dal Circolo qualità; sapeva che il giorno dopo di Iordan non avrebbe più trovato nessuna traccia.
Uscì dal capannone nuovo; controllò i magazzini, gli spogliatoi e la mensa.
Quando stava per finire si guardò quell’enorme mezzo di chiavi che gli sbatteva sulla gamba mentre pedalava con la Graziella. Poi alzò gli occhi.
Era mezzogiorno meno un quarto e la giornata era incredibilmente tersa.
L’ingegner Spinosa fece un bel sospiro.
Alle cinque di quel pomeriggio sarebbe stato davanti ad un computer, con in mano il mouse e sul monitor l’Autocad: l’ingegner Salvatori doveva progettare l’ampliamento di un piccolo capannone di una carrozzeria industriale e gli aveva chiesto una mano.
“Ma, ingegnere, guardi comunque che è proprio un piccolo capannone” gli aveva detto Salvatori.
Mi basta, aveva pensato Spinosa, con la stessa gioia con cui aveva leccato la vaniglia del Ringo, mi basta pure mezzo muro.

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