mercoledì 25 gennaio 2012

LA VITA DEGLI ALTRI

“No, mamma, non ti preoccupare. Non ho problemi a stare da sola …
No, soldi ce ne ho …
Questo weekend non penso. Il prossimo …
Va bene, ciao, salutami papà”
Lea preme il tasto di fine conversazione e va in bagno a lavarsi la faccia.
Dormire, non aveva dormito.
Dopo una settimana di tregua, i suoi vicini avevano ricominciato le litigate notturne.
‘Ce lo sai: so’ tornato solo pe’ li regazzini’
‘Co lei sì che l’avevi trovata l’America’
‘Ma guàrdate, sei ‘na poverina; che me rappresenti’
‘Nun è che sei stronzo, sei er gran capo dei stronzi’
Qualcuna di queste frasi Lea se le ricordava il mattino dopo; un paio di volte erano volati piatti; lui aveva una voce che sembrava Verdone quando diceva “Perché è l’amore che vince e l’odio che perde”; lei certe volte piangeva sommessamente, certe volte urlava parolacce miste a lacrime.
E ‘li regazzini’ non si sentivano mai. Ma Lea non pensa ai due (o più) poveri bambini; pensa a quante volte deve aver incontrato i suoi vicini al bar o alla latteria; sono i vicini, ma del palazzo accanto, e quindi non fanno parte di quelli che Lea incontrava ogni giorno in ascensore o nell’androne e con cui scambiava un grugnito.
Lea fa un paio di respiri più profondi, poi si veste, da battaglia, maglione norvegese, jeans e anfibi. Si mette un barbour e prende il tubo dei progetti.
Si dà un ultimo sguardo prima di uscire di casa, su uno specchio che ha messo apposta, attaccato alla porta d’ingresso. Ci vede una ragazza, una donna, di trent’anni. Il primo filo bianco sulla tempia sinistra l’aveva festeggiato come segno di maturità; ormai le sembra ora di pensare ad una tintura.
**
Esce dalla casa, a San Lorenzo; da un paio di mesi ormai la ragazza con cui divideva la casa e le spese se ne era andata via, era andata a convivere con il ragazzo.
Ma Lea pensa di farcela, in fondo la casa è di sua zia e l’affitto di 350 Euro è solo perché è la nipote e così via. Lea prende mille Euro al mese, collaborazione coordinata e continuativa.
San Lorenzo porta più segni dello scudetto della Roma del 2001 che del Natale imminente.
Lea va al bar e si prende un latte macchiato e un cornetto integrale.
Dietro di lei un ragazzo, primi anni d’università, sta dicendo ad un amico: “Totti nun po’ giocà da seconda punta; je devi mette qualcuno davanti, mejo se grosso”.
Corriere dello sport in mano, gesti netti, cappello amaranto.
Lea esce dal bar, contenta di potersi dimenticare almeno di questo ragazzo.
Cammina verso Termini, tiene gli occhi bassi e ci sente dentro qualche sassolino, per la notte che è stata.
Scende le scale mobili e le scale normali di tutti i giorni e arriva ai treni.
L’aria sa di metropolitana, di sudore invernale.
Il treno arriva e non è neanche troppo pieno. Lea entra e si abbarbica alla sbarra al centro del vagone.
Quello più alto ha un vestito quasi nero, un po’ lucido sulle maniche ed una borsa di pelle nuovissima; quello più basso ha un cerotto perché deve essersi tagliato radendosi.
Quello alto dice: “Se pensa di farmi le scarpe si è sbagliata di grosso. Almeno due volte Guerrieri se l’è portata a pranzo, e non mi fare dire la parola che vorrei dire. Facile fare carriera così”.
Quello basso risponde: “Giacomo che c’ha lavorato insieme, dice che nel complesso qualcosa capisce, ma in fondo si impegna”
“Sì, a capirci ancora di meno”
Ridono e scendono a Cavour.
Lea socchiude gli occhi; non ha più neanche bisogno di chiuderli, a volte.
Il più alto si chiama Alberto, il più basso Giampiero. Arrivano in ufficio. Si salutano rapidamente. Alberto arriva nella sua stanza, non proprio luminosa, con una scrivania un po’ incasinata. Lei, Viola, è già lì; bella è bella, ma non ha troppo gusto nel vestire. Stamattina poi si è messa un fermaglio di finto visone che è inguardabile. Alberto dice ciao, o fa un rumore simile. Alberto esce un paio di volte dalla stanza e va da Giampiero e si lamenta del profumo che è un po’ troppo forte. Dieci minuti prima della pausa pranzo squilla l’interno di Viola; lei alza il ricevitore e le si illuminano gli occhi. ‘D’accordo, all’una e venti’. Alberto capisce subito. Viola chiede ad Alberto una piccola informazione su come impostare una pratica; Alberto le sibila: ‘Chiedi a chi capisce più di me; frequenti così spesso certe persone’. Viola diventa di sale: ‘sono in questa stanza da due settimane e tutte le volte che ti chiedo qualcosa mi tratti male; certe volte mi sembra di leggerti il labiale mentre dici troia. Pensi davvero che qualcuno mi giudicherà mai per quello che valgo realmente? E se a te ti chiamasse Guerrieri per andare a pranzo ci andresti, o no?’. Alberto la guarda e per una volta prova a andare un po’ oltre quegli occhi neri neri ed il naso perfetto. Viola annuisce, per prima a sé stessa, prende il telefono. ‘Dottor Guerrieri? Mi ha chiamato un cliente, devo stare lì alle due, possiamo fare domani? … Ok … perfetto. Buon pranzo’ riattacca. Poi guarda Alberto senza sguardo di sfida e fa: ‘Ho due yogurt 0,1 di grassi e due cucchiaini di plastica. Io e te adesso facciamo una colazione di lavoro’.
***
Lea arriva a Eur Fermi e torna all’aria aperta. “E quindi uscimmo a riveder le stelle”, pensa Lea tutti i giorni, tutte le volte che esce da una stazione della metro.
Il grattacielo in cui sta la Tecnoprogetti non è molto lontano e le due gocce d’acqua che stanno cadendo non le fanno nulla. Lea cammina con le mani nelle tasche del barbour, il tubo a tracolla e si mette a pensare al lavoro.
Entra in ascensore, dove l’odore è quasi quello della metropolitana.
Suona il campanello, perché ai collaboratori non è stata data la chiave e le apre Gwen, una ragazza inglese che cura tutte le relazione internazionali della società. Gwen ha un sorriso stanco e i capelli rossi praticamente fradici.
Lea comincia a girare angoli e a camminare corridoi fino a raggiungere le stanze del team di architetti che sta lavorando al piano regolatore di una cittadina della costa abruzzese.
Lea è arrivata per prima; accende il computer, controlla la posta alla casella leaarch @ tecnoprogettispa.it e ci trova un’e-mail dell’architetto che fa da appoggio nella cittadina, che ogni tanto le manda qualche messaggio con dentro piccoli risvolti personali.
Lea cancella il messaggio, pensando a quale motivo possa spingere una persona a parlare di stati d’animo ad un’altra persona che ha sentito due volte per telefono e che non ha mai visto.
Lea si ricorda a quel punto, con un po’ di rabbia, che non la avevano fatta partecipare alla riunione che il corrispondente abruzzese aveva avuto con quasi tutto il team; si mette a pensare se mai la faranno partecipare a qualche riunione importante con colleghi o con committenti; si mette a pensare ad un contratto che sarebbe durato fino al 31 luglio.
Poi arriva Luigi, che divide con lei computer e tavolo da disegno, anche lui collaboratore coordinato e continuativo, che le fa un cenno di saluto un po’ freddo; Lea si chiede ogni giorno come faccia, con moglie e due figli piccoli a carico, a spendere tanti soldi per quelle cravatte nuove.
Poi via via, arrivano tutti gli altri e la mattinata va avanti secondo il suo binario.
Il suo capo, l’architetto Martini, chiede a Lea di andare a fare una quindicina di fotocopie di una delibera di incarico e Lea si fa quel paio di corridoi che la separano dalla stanzetta mezzo archivio e mezza sala copie. Si ferma ad un cinque-sei metri dalla sala copie, per leggere un sms di sua sorella sulle ultime peripezie di Buddy, il suo devastante bassotto.
Le pare di sentire dalla sala copie qualcosa come “Basta”; la gomma degli anfibi non fa troppo rumore e sente un “A dopo” e le pare di vedere due mignoli allacciati.
Con qualche foglio di carta in mano ciascuno Luigi e Gwen stanno in piedi davanti alla fotocopiatrice, più di taglio che davanti. Gwen fa un paio di fotocopie e va via, Luigi ne fa una decina e va via. Dicono cose del tipo “Fatto” o “Ok”.
Poi Lea comincia a fare fotocopie ed è chiaro che si distrae; alla quarta fotocopia chiude gli occhi.
Gwen scende dalla sua Yaris; manca ancora mezz’ora all’inizio dell’orario di lavoro, ma ha continuato la Colombo fino a dopo il Palasport, poi prende una strada a destra e dopo trecento metri vede la Focus di Luigi parcheggiata; riesce a trovare un buco in una piazza un po’ fuori mano e poi sale sulla Focus, che nel frattempo l’aveva seguita. Luigi si sistema velocemente la cravatta nuova poi avvicina il viso e la bacia vicino all’orecchio; sorride ‘Non possiamo continuare a vederci così’. ‘Questa battuta non mi fa più ridere’. Gwen risponde stizzita. ‘Mi sono fatta un’altra notte senza dormire e non ne posso più. Jimmy si sveglia e dice Che hai, e alla cazzata che sono sempre stanca come fa a crederci ancora?’ ‘Io non riesco a evitarmi di pensarti. E tutte le volte che ti vedo ho la gola che mi si chiude. Vorrei fare switch off, come dici tu, ma non ci riesco’. Gwen abbassa gli occhi: ‘Neanche io ci riesco, ma che senso ha. Tua moglie, i bambini …’ Il parabrezza si è appannato e due signore sulla sessantina con l’ombrello se ne stanno ferme accanto al finestrino del passeggero. ‘Luigi, ti prego, metti in moto, parliamo mentre guidi’. Se ne stanno zitti, mentre comincia a piovere; Luigi prende la mano a Gwen, poi la lascia per poter cambiare marcia. Il silenzio si è fatto troppo pesante. ‘Ti prego, accosta. Accosta qui’. Luigi non vorrebbe accostare, dice a Gwen che la macchina è lontana, ma poi capisce che cercare di fermarla adesso potrebbe essere peggio. Accosta. Gwen scende. Luigi riparte e Gwen si sforza di non guardare la macchina andare via. Si mette a camminare, quasi a correre, verso la sua Yaris. Poi comincia a piovere e quando arriva in macchina è praticamente zuppa. I capelli color rame le si attaccano al viso; sente le guance in fiamme. Riesce a trovare un parcheggio vicino all’ufficio e si trova al lavoro con una decina di minuti di anticipo. Corre a prendere un caffè alla macchinetta, poi sente suonare alla porta, va ad aprire. Sono io.
Lea si scuote, finisce di fare le fotocopie e se ne torna verso la stanza trascinando un po’ gli anfibi.
****
Il pomeriggio passa senza che Lea alzi quasi mai la testa dal monitor; Lea si siede con un ginocchio sopra la sedia e il peso sulla gamba ed ogni mezz’ora fa tre passi per vincere il formicolio.
La giornata di lavoro finisce, e dopo qualche saluto di circostanza, Lea si infila nell’ascensore e poi per strada e poi la metro.
Nella metro si sente un po’ soffocare e quindi decide di scendere a Cavour e di farsi a piedi un bel po’ di strada, tanto l’aria le sembra fredda, ma secca.
Cammina con le mani in tasca, il tubo è rimasto alla Tecnoprogetti.
Mentre aspetta che il semaforo per i pedoni diventi verde, un vecchio con un vecchio piumone blu e un sacchetto con dentro tre lattine di Nastro Azzurro, sussurra qualcosa del tipo “Stavolta lo deve capì”. Dall’altra parte della strada una signora, forse la moglie, lo fissa, con lo sguardo di chi sta per rimproverare qualcosa.
Scatta il verde, il vecchio attraversa la strada con lentezza e quando arriva accanto alla moglie i due non si scambiano nemmeno un cenno, ma cominciano a camminare affiancati e alla fine Lea li vede sparire in un portone.
Il vecchio poggia il sacchetto delle birre sul tavolo. Il tavolo è di formica verde, e ricorda i vecchi banchi di scuola; le piastrelle della cucina sono di un giallo malato e la casa odora di brodo di pollo, fatto e poi riscaldato tre o quattro volte.
“Il dottore te l’ha detto decine di volte. La bira non te la devi bere” lei è quasi materna.
“Nu’ lo voi capì; c’ho settantott’anni, che te credi che se bevo de meno campo nantri sei sette anni?”
“Puzzi sempre come un barbone, c’hai gli occhi da ‘mbriaco”
“A Terè, sai che dico: ma che me frega”.
Il vecchio si prende la prima birra e se la porta nella stanza da letto, che fa pure da salotto quando, una volta ogni due mesi, la loro figlia li viene a trovare.
Il vecchio si beve la prima birra a stomaco vuoto. Il dottore gli ha detto che se continua così non gli dà più di sei mesi e da quando glielo ha detto, lui ha deciso di bersi una birra anche a stomaco vuoto. Così si dimentica tutto quello che può e quando quel cavolo di brodo di pollo è caldo, alle sette e un quarto puntuale ogni sera come una littorina, il vecchio è già così ubriaco che riesce quasi a scordarsi della moglie.
Lea arriva a Termini. La galleria che attraversa Termini da una parte all’altra è un posto dove Lea si sente felice.
*****
In surgelatore ci deve essere una busta di spinaci filanti, ma una mozzarella vicino ci starebbe bene. Così Lea entra dentro l’alimentari del sor Fernando, che continua imperterrito a vendere yogurt scaduti e a fregare sul peso.
Le mozzarelle però sono sempre fresche e Lea ne compra una da due etti.
Sta entrando una signora oltre la quarantina, con un’adolescente, con il mento infilato dentro al collo di un brutto giubbotto. “Allora che vuoi, stasera?” fa la madre. Nessuna risposta. “Cosa vuoi che ti faccio?”. Nessuna risposta. Dopo trenta secondi di silenzio, la ragazza fa in un sibilo “Fa quello che ti pare, come sempre”.
Lea paga la mozzarella e esce dall’alimentari.
Entra nel palazzo, supera l’enorme androne buio e non troppo pulito e chiama l’ascensore.
Entra meccanicamente dentro l’ascensore; la luce è rotta e Lea chiude gli occhi.
Valentina cammina due passi dietro alla madre. Ha sempre il mento infilato nel collo del piumone. Entrano in un palazzo; l’androne è buio e non troppo pulito. Salgono a piedi ed arrivano al secondo piano. Entrano in una casa che sa di alcool buttato qua e là in pulizie veloci e sommarie.
Oltre alla cucina ed al bagno ci sono solo due stanze.
Valentina va nella sua e si chiude a chiave.
Resta un’ora stesa sul letto, con la faccia sul cuscino.
In cucina la tele grida un cavolo di quiz e poi la sigla del TG1. “Valentì, andiamo, che la cena è pronta” sua madre urla per superare il volume della tele.
Valentina trascina i piedi verso la cucina; nel suo piatto c’è una mezza frittata. L’odore di fritto è così forte che sua madre ha aperto la finestra della cucina e quella della sua camera per fare corrente.
Mangiano in silenzio. Sua madre le vorrebbe dire ‘che c’hai’. Valentina sa già che pulirà velocemente la cucina e alle nove starà già a letto. Alle quattro la passerà a prendere una collega con cui fa le pulizie in una banca all’inizio della Colombo.
Valentina vorrebbe chiedere, perché papà l’hai mandato via, perché non ci passa un soldo e mi tocca andare in giro con gli stessi jeans tutti i giorni, perché sono due anni che non andiamo al mare, perché devo studiare quando Martina e Luana vanno a lavorare e fanno i capelli alle signore e i soldi per le sigarette non li devono rubare dal portafogli di mamma.
Valentina si mette a guardare un film. Ha una voglia matta di una sigaretta, ma se si fa beccare a fumare dentro casa, sua madre l’ammazza.
Lea esce dall’ascensore.
Prende la padella e ci butta dentro gli spinaci filanti.
Prende mezza mozzarella, la taglia a fette sul pane e la mette un paio di minuti nel microonde per farla sciogliere. L’altra metà se la mangia a mozzichi mentre prepara gli spinaci.
Il film non è pessimo e si fanno le dieci e mezza senza problemi. Lea manda un sms a sua sorella, aspetta la risposta, poi manda uno squilletto di fine conversazione.
Alle undici è a letto.
All’una meno un quarto, stavolta è lei a cominciare
‘Manco tu’ madre te sopporta più’
‘Lascia sta’ mi’ madre; pensa a te come madre, piuttosto’
Lea sta un’ora buona, le mani incrociate sotto la testa, con gli occhi aperti, a sentirli gridare.

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