mercoledì 25 gennaio 2012

NICO FA UN SOGNO

L'indomani Nico avrebbe compiuto diciott’anni. Per questo, dopo che sua madre, datagli una buonanotte, ebbe chiuso la porta, saltò fuori dal letto e accese la lampada della scrivania.
Pochi minuti ancora a mezzanotte.
Nico prese da dentro la polvere di un cassetto un volumetto, l'album delle foto, le sue.
Apri' prima distrattamente nel mezzo, le foto di un vecchio Carnevale, vestito da cowboy. "No, no, dall'inizio!" pensò Nico. E si rivide, senza riconoscersi, vestito di bianco, cucciolo di uomo con un ciuffo di capelli nerissimi, allora come ora. Era nato in una grande città, in una clinica con un grande parco, di quelle che si chiamano Villa Bianca o Villa Santa Chiara, qualcosa del genere. E già i primi giorni li aveva trascorsi da solo, in una camera a pagamento; sua madre si fidava solo di "quel" dottore.
Nico girò qualche pagina senza sorridere a quel neonato, a quelle mille foto di primi anni, che dovevano essere i suoi.
E poi suo padre, i baffi prima neri, poi grigi, suo padre, in quelle foto non c’era mai. Nico a Natale. Nico e suo cugino. Nico e la nonna. Nico e la mamma. Poi, girate almeno una quindicina di pagine, Nico si fermò a guardare i suoi cinque anni e la sua maglietta a righe bianche e blu in un campo di girasoli; si fermò e capì che si fermava perché quello, finalmente, era il suo primo ricordo, quel campo di girasoli e quella maglietta e una domenica che doveva essere di inizio giugno e il profumo forte di campagna che gli aveva fatto girare la testa. Finalmente un suo ricordo e Nico sotto quella foto ci scrisse il suo nome e lo sottolineò.
Poi continuò a girare le pagine dell'album, avanti e indietro, per almeno una mezz’ora, che ormai il suo compleanno doveva essere arrivato. E quando arrivò all'ultima foto, dell’estate di due anni prima, Parigi e castelli della Loira, Nico ristette, chiedendosi se li avesse vissuti davvero tutti quegli istanti.
Stavolta nemmeno si sorrise, si scostò la frangetta da sopra gli occhi e, senza pensare più a nulla, andò a dormire.
**
"Auguri, caro". Sua madre aprì la serranda e ripeté tanti auguri Nico, sorrise quando aveva già riaperto la porta e lasciò Nico solo, a vestirsi.
Nico non riuscì a decifrare il suo umore mentre in jeans e T-shirt usciva dalla sua stanza per andare in bagno.
Bussò e suo padre, come ogni mattina, gorgogliò "Occupato"; Nico continuò allora verso il bagno di servizio, piccolo e scarno, con la lampadina nuda, la lavatrice e vecchie piastrelle arancioni. Nico, presa la camicia, arrivò in cucina per fare colazione. Sua madre gli dava le spalle mentre riscaldava il latte; si voltò giusto il tempo per versare il latte nella tazza di Nico, poi accese il fuoco sotto la macchina del caffè. Il padre di Nico arrivò proprio mentre il caffè stava uscendo; "Non fai gli auguri a tuo figlio?" lo rimproverò sua moglie; allora, si concentrò un attimo, poi esplose: "Diciott’anni, Nico, auguri, auguri".
Nico alzò gli occhi dalla tazza e ringraziò a labbra serrate; “Allora io vado”, si lavò i denti, prese quaderni e libri, li mise dentro un elastico e nel perfetto silenzio dei rumori della strada si avviò verso la porta.
Suo padre raccoglieva le carte delle pratiche che lo avevano accompagnato a casa la sera prima.
Sua madre buttava un po’ d’acqua nel pentolino del latte.
Nico urlò il suo ciao e più che lui, fu una corrente d'aria a chiudere la porta, più forte del solito.
***
A scuola fu Diego, ovviamente, il primo a ricordarsi del suo compleanno.
“Un disastro Nico, diciott'anni, un disastro” si voltò dal banco davanti e gli rifilò una pacca sul braccio. “Grazie Diego” sorrise Nico.
Fuori, pioggia. La pioggia di maggio, puzzolente di gas di scarico, un cielo definitivamente grigio.
Dentro, in classe, Diego lì davanti che si agitava, si sbracciava, bisbigliava cose irripetibili sulle gambe di Betta, poi citava Montale, poi si addormentava.
Nico ricordava i primi giorni di quarto ginnasio, quando guardandosi attorno, da dietro il ciuffo nero, cercava spalle larghe su cui appoggiare la sua timidezza. Diego già si faceva la barba, sapeva far ridere, sapeva muoversi. Poi gli piaceva il nome, Diego e Nico, stanno bene insieme.
Nico non aveva capito come mai Diego aveva accettato la sua fedele amicizia, fatta di silenzi, di rari sorrisi, quasi avesse bisogno di calmarsi ogni tanto con lunghissime passeggiate mute, con partite a scacchi e a Scarabeo. Qualunque fosse il motivo della loro amicizia, Nico non se lo chiedeva più, magari per scaramanzia.
****
“Stasera andiamo a Radio Delta” gli disse Diego a ricreazione “portano le chitarre e Giulio dovrebbe offrire; sai, ha passato gli esami per la patente”.
“E io?” alzò appena gli occhi Nico “dovrei portare qualcosa anch'io?”. “No, no, tu non ti preoccupare, re dei timidi” disse Diego rassicurante, “non vorrai mica stare al centro dell'attenzione?”.
*****
Diego passò da Nico verso le sette.
Il pomeriggio era stato poco incoraggiante per Nico e la torta gli aveva lasciato la bocca amara.
Suo padre doveva forse concludere un contratto importante in serata ed era uscito senza neppure bere il caffè.
Sua madre, sparecchiato, era andata in salotto a sfogliare una rivista e il volume della TV era sempre un po’ troppo alto.
Nico aveva guardato per un po’ il regalo, un orologio, che sua madre aveva comprato qualche giorno prima e che suo padre aveva visto solo quando Nico l’aveva scartato.
Nico aveva ben presto lasciato l’orologio sul polso e aveva ringraziato Diego per quel Beethoven che gli aveva occupato il pomeriggio.
Nico aveva rispettato la gerarchia delle camicie e per la sera del suo diciottesimo compleanno aveva scelto una fantasia di foglie con colori autunnali, che metteva un po’ con orgoglio, un po’ con circospezione.
Entrando in casa Diego salutò ad alta voce la madre di Nico, che ricambiò con calore, poi abbracciò Nico, gli diede una pacca sulla spalla (come fa un vero amico, pensò Nico) e gli diede il suo regalo, che teneva nascosto nel giubbotto. Era un enorme poster di un fiordo norvegese che copriva quasi mezza parete in lunghezza, e solo mezzo metro in altezza. Sul biglietto c'era scritto: “Nico fa rima con amico. Fin troppo facile”. Nico rise arrossendo e con gli angoli della bocca in alto, finalmente, uscì di casa con Diego.
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Radio Delta era stata un magazzino di carta da parati, lo studio di un pittore misteriosamente scomparso e poi, negli anni settanta, una radio, Radio Delta.
Chiusa la radio, i tre stanzoni erano stati per anni soltanto topi e polvere. Poi era diventato un club con le tessere e il bancone degli alcolici, dove ci si ritrovava, si davano feste per qualsiasi motivo, e il sabato sera, tardi, si diceva, davano i film porno.
L'esame di guida di Giulio era un ottimo motivo per far fuori barili di Martini.
Diego e poi Nico entrarono nella nuvola di fumo pesante e faticarono un po’ per trovare volti amici, Betta, Andrea, Lilli, i gemelli Di Donato, Sonia e altri e altre. Diego mise un bicchiere di Martini, forse, in mano a Nico, che bevve un sorso e poi, dopo una smorfia, scelse un’aranciata.
"Vieni, sediamoci a quel tavolo!" gridò Diego e guidò Nico al tavolo di Sonia e Lilli.
Sonia aveva un viso dolce, velato da un’ombra di pazienza materna e un corpo tutt'altro che disprezzabile.
Lilli era Lilli e basta, e rideva troppo spesso, secondo Nico.
Parlarono di scuola per un po’ e Nico poté dire la sua, poi Lilli mise in mezzo i segni zodiacali e Nico cominciò ad annoiarsi. Si alzò e andò verso il bancone per un’altra aranciata, ma Pino Di Donato lo bloccò dopo qualche passo. "Diciott'anni oggi, vero?" gli gridò in faccia. Nico faticò ad annuire. Gli si avvicinarono un po’ tutti quelli che lo conoscevano; gli diedero pacche sulle spalle, due o tre ragazze gli diedero un bacio sulla guancia; Giulio gli chiese quando avrebbe preso la patente.
E ancora auguri, auguri, abbracci e grida che lasciarono Nico frastornato. Qualche amico già ubriaco gli fece bere una lattina di birra.
Si era alzato ormai da dieci minuti quando tra la gente che ancora lo festeggiava intravide il suo tavolo nello luce gialla di un faretto psichedelico.
Sonia rideva e le si disegnavano sulle guance due splendide fossette. Diego le stava parlando, accompagnandosi come al solito con gesti ampi e ieratici. Sonia lo fissava con dolcezza e ogni tanto annuiva divertita. Diego le diede un buffetto su una guancia.
Nico cessò di percepire gli strepiti di auguri e i Clash a tutto volume e respirò tutto il fumo della stanza, continuando a fissare quel tavolo.
Si sentì solo e quando Lilli inavvertitamente lo urtò, Nico avrebbe voluto quasi reagire.
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“Ti dico che Sonia e' assolutamente stupenda; un sabato sera assolutamente indimenticabile”. Diego camminava nell’azzurro della domenica mattina gesticolando come se volesse misurare i suoi assolutamente. “E’ intelligente, è carina e che sorriso!".
Nico, accanto a lui, per la prima volta non lo stava a sentire. “Ehi, ma mi ascolti?” grido' Diego. “Sì sì ...” si risvegliò Nico “e perché .... e di che avete ... parlato?”. “Non me lo ricordo più. Sai, è come se solo da ieri avessi avuto il dono della parola; devo aver parlato addirittura di pallone ad un certo punto. E lei, con quel sorriso, rassicurante, protettivo, sai già che non ti interromperà, qualsiasi cosa ti verrà in mente ti starà sempre a sentire”. Nico sentiva freddo e capiva che qualcosa stava scappando, come le nuvole del sabato notte se ne vanno per lasciare libero il cielo di inventare la noiosa perfezione della domenica mattina.
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Quel pomeriggio Nico cacciò tutte le foto degli ultimi anni da dentro un cassetto e se le mise a contare: ce n’era una sulla spiaggia, Nico con gli occhi bassi e Diego con gli occhi diretti dentro l'obiettivo; ce n’era qualcuna dove Diego guardava oltre, lontano; ce n’era un’altra con tutta la classe dove Nico sembrava sorpreso e Diego invece sembrava il centro della foto.
Nico ci fece qualche didascalia, dietro quelle foto, “Sorridiamo”; “Sorride solo Diego”; “Foto di gruppo”, “Diego con altri”; capì che non poteva fare altro, per ora, e rimise le foto dentro al cassetto, magari per dimenticarle.
Prese un vecchio Topolino, tossì per la polvere, si buttò sul letto, accavallò le gambe, appoggiò il Topolino sul petto, incrociò le mani dietro la nuca e si concentrò sul ronzio del silenzio, forse per ore.
“Nico! La cena e' pronta” sua madre dalla cucina, mezzo grido e mezza cantilena. Nico arrivò nel salotto. Suo padre guardava il telegiornale; sua madre, con la padella in mano, chiese “Tutto bene, Nico?”, ma non aspettò la risposta perché di là, in cucina, c’era un fornello da spegnere.
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Diego camminava accanto a lui per strada, in un giorno, mezza mattina e mezza sera.
E parlava, e Nico non lo stava a sentire. Si sentì un rumore di passi, lontani, vicini, il rumore si fermò e Sonia, sorridente, guardò Diego con degli occhi che parevano stelle. Diego abbracciò forte Sonia. “Sei assolutamente stupenda” le disse. Nico stava lì, a un metro a guardarli, poi smise, guardava oltre, lontano.
Sonia e Diego si presero per mano, si guardavano forte negli occhi. Nico capì che qualcosa stava avvenendo e, sia pure di traverso, se li mise a guardare.
Diego, senza fretta, cominciò ad invecchiare; gli crebbero i baffi, prima neri, poi grigi, prese il telecomando, si sedette in salotto e si mise a guardare il telegiornale. Sonia sospirò, sfogliò una rivista, poi chiese “Tutto bene, Nico?”, ma non aspettò la risposta perché di là, in cucina, c’era forse un fornello da spegnere.

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