tag:blogger.com,1999:blog-90520450449802510202024-02-20T17:43:40.532-08:00fatto di chinottostefanopz + laralidiahttp://www.blogger.com/profile/15249029335247491670noreply@blogger.comBlogger522125tag:blogger.com,1999:blog-9052045044980251020.post-48445205308428917002012-01-25T15:47:00.000-08:002012-01-25T15:52:36.941-08:00giovedì, 07 settembre 2006<br /><br />HO DECISO: IO PARTO<br /><br />Il titolo lo troveremo. La storia è questa.<br />Grosso tira il rigore decisivo. L'Italia vince i mondiali. Andrea, trentacinque anni, una bella carriera in corso in una bella e ricca città dell'Emilia, sta guardando la partita con la sua compagna, Allegra, e due coppie di amici.<br />Escono per andare a festeggiare; Allegra resta a casa.<br />Andrea torna a casa alle due di notte. Silenzio.<br />All'ingresso, sullo specchio- attaccapanni, un post-it. "Sono andata via. Non cercarmi"<br />Sembra sparita ogni traccia di Allegra.<br />E Andrea sul letto, da solo, ripensa a quel faditico mese dall'11 giugno all'11 luglio, cercando i segnali, i motivi, le crepe.<br /><br />§1. Italia-Francia<br /><br />Grosso ha uno sguardo che non capisco. Non capisco cioè se è davvero freddo e concentrato o se non si è reso conto di cosa sta facendo. Passa la lingua sulle labbra, come se invece di battere un rigore si dovesse mettere a cantare.<br />Stiamo zitti; non siamo certo l'unica casa in cui siamo tutti mano nella mano. Io e Allegra, ovviamente, ma anche Filippo e Angela, Maurizio e Rossella.<br />Tiro.<br />Gol.<br />Urliamo come pazzi. Filippo esce sul balcone e urla un vaffanculo enorme quanto la notte.<br />Verso la periferia già si vedono i fuochi d'artificio. Abbraccio Allegra e lei si stringe a me, ci urliamo qualcosa in faccia l'un l'altro, Campioni del mondo. Ci baciamo che sembra Capodanno, un attimo prima che mettano il Disco samba.<br /><br />Maurizio prepara i mojito; ce l'aveva promesso. Ce li passiamo aspettando che Cannavaro alzi quella cavolo di coppa.<br />Alzata.<br />"Usciamo" urlo.<br />Allegra mi guarda con l'aria un po' stanca; è da stamattina che me lo dice che è stanca. "Vai tu. Io vado a dormire. E' da stamattina che non mi sento tanto bene".<br /><br />Un altro bacio, un sorriso, un altro urlo Campioni e usciamo; il corso sta a mezzo chilometro e ce la facciamo a piedi.<br />Il casino è fantastico e tremendo. Vedo per strada persone che pensavo morte; abbraccio un compagno di classe delle medie che peserà 150 chili ed è sudato come un maiale.<br />Alle due, rintontito torno a casa.<br />Dagli altri appartamenti si sente ancora casino.<br />Trovo le chiavi e apro. E' tutto buio. Allegra dorme.<br />Non accendo la luce per non svegliarla; vado nel mio bagno, piscio e non tiro l'acqua, per non svegliarla.<br />Vado a letto; il percorso al buio dal bagno al letto lo so fare perfettamente, basta sfiorare coll'indice della mano i muri, gli interruttori, le porte.<br />Mi tolgo i vestiti al buio e li lancio verso la poltrona. In mutande mi butto sul letto; allungo la mano verso Allegra.<br />Allegra non c'è. La chiamo.<br />Non risponde.<br />Un brivido mi scende lungo la schiena. Accendo la luce. Comincio a camminare velocemente, poi a correre, poi mi viene da urlare, ma resto pietrificato.<br />Sullo specchio, all'ingresso, c'è un post-it. E' viola.<br />La scrittura è bella, è tonda. E' la scrittura di Allegra.<br /><br />Con una Tratto-pen blu, che ha appoggiato vicino alle chiavi del motorino, ha scritto cinque semplici parole: "Sono andata via. Non cercarmi"<br /><br />Ho capito. Siete timidi<br /><br />§ 2. Italia - Francia<br /><br />Il primo istinto è chiamarla sul cellulare. Il suo nome sulla rubrica è il primo; il numero l'ho memorizzato con A, la lettera A e basta.<br />E lei ha fatto lo stesso sul suo cellulare.<br />Mentre cerco il cellulare dentro al marsupio mi vengono in mente tutte le volte che abbiamo passato le ore a pensare a tutti i nomi con la A avremmo potuto dare ai nostri figli.<br />Mi viene in mente il suo viso, la sua bocca aperta, spalancata dalle risate, quando le ho detto che se fosse nato maschio, e distruttore come me, il nome perfetto sarebbe stato Attila.<br /><br />Premo il tasto della chiamata.<br />Libero.<br />In bagno, uno squillo, la sua suoneria, quella cavolo di canzone della Tim, col video col bambino che gira l'America in bici.<br /><br />L'ha lasciato in bagno il telefonino.<br />Sulla lavatrice.<br />Le lacrime mi arrivano alla velocità della luce quando accanto al telefonino vedo il bracciale di Swaroski che le avevo regalato al primo anniversario della convivenza, quello che non si toglieva nemmeno per fare la doccia.<br /><br />Posso chiamare qualcuno. <br />Poi, penso, sono le tre di notte. Sì ma è scappata.<br />Poi mi metto a pensare.<br />Corro in camera da letto. L'armadio a specchi. Ci abbiamo messo una giornata intera per sceglierlo. Avevamo deciso scomparto per scomparto. Questo è mio, questo è tuo.<br />I suoi vestiti.<br />Non ci sono.<br />I suoi cassetti.<br />Vuoti.<br />Non c'è niente.<br />Il comodino. Vuoto. Anche le medicine, l'Aulin e il VivinC, se le è portate via. Il flaconcino con le gocce di valeriana che stava sempre vicino alla lampada. Non c'è.<br /><br />Si è portata via persino i vestiti invernali, i piumini, i cappotti.<br />Rassegnato guardo nella scarpiera.<br />Non ha lasciato neanche le ciabatte per la piscina.<br />Niente.<br />E' andata via, non c'è che dire. Se ne è andata.<br /><br />Mi siedo sul letto, dalla mia parte, così dò le spalle al suo cuscino e a quella pesantissima, enorme assenza.<br /><br />3. Italia - Francia<br /><br />Mi sveglio sudato e con la bocca impastata. La testa pulsa. Faccio mente locale e ricordo la vittoria, la festa e Allegra. Allegra. Accendo la luce e comincio a battere gli occhi. La cerco ma, e' ovvio, lei non c'e'. Mi sono addormentato, com'e' stato possibile? E' ancora notte... Che cavolo, che ore sono? Ha portato via anche la radiosveglia? No, eccola: le 3.35. Non voglio dormire e mi trascino in cucina, riempio la moka e mi siedo a guardarla aspettando il caffe'. Perche'? Perche' e' scappata?<br />Improvvisamente una riflessione mi colpisce: non e' scappata.<br />Dire che e' scappata presuppone una decisione improvvisa ma lei, metodicamente, ha svuotato la casa di tutte le sue cose e di certo non ha fatto tutto stasera o, cazzo, non da sola! Da quanto ci pensava? E io come ho fatto a non accorgermene?<br />Non cercarmi.<br />Cazzo vuol dire non cercarmi?<br />La donna cammina sicura nel sottrerraneo nonostante le luci al neon scarseggino. I suoi passi risuonano gravi e si mescolano al rumore delle macchine che passano al piano di sopra. Livello 3, settore D, box 14. E’ da un paio d’anni che non ci mette piede, la chiave fatica a entrare ma poi con uno scatto metallico si apre. Allegra solleva la saracinesca quel tanto che basta a farla passare e a trascinare dentro l’enorme zaino che si è tolta dalle spalle. L’interruttore della luce a destra e la saracinesca da abbassare sembrano un unico gesto fluido. Per qualche istante, il tempo che la luce si accenda, Allegra resta al buio, a respirare quel buio.<br />Il baule è lì davanti a lei, aperto, vuoto ancora. Allegra ci infila veloce lo zaino abbassa di scatto il coperchio. Dalla tasca estrae un pennarellone rosso e sull’etichetta di carta attaccata sopra al baule scrive con la sua bella calligrafia tonda a grandi caratteri A N D R E A. Spinge il baule contro una parete e ne porta un altro, leggero, vuoto al centro della stanza. Prima di spegnere la luce dà un occhiata alla stanza. Accanto al baule “Andrea”, ce ne sono altri tre: Marco, Francesco e Riccardo.<br />La saracinesca che si srotola segna un cambio d’umore, ora Allegra può permettersi di respirare a pieni polmoni, di sorridere e di sentirsi più leggera. Imbocca l’uscita a passo veloce. <br /><br />§4 Non cercarmi<br /><br /> <br /><br />Non cercarmi.<br /><br />Come se lo vedessi scritto sullo specchio del bagno, sull’anta dell’armadio saccheggiato, in questo groviglio sub-umano del letto sfatto…<br />Cazzo vuol dire non cercarmi?<br /><br />Che una può andarsene all’improvviso, risucchiare la vita dell’altro, spolpargliela senza preavviso, neppure un parliamone mi dispiace: una serranda chiusa di botto sui denti, no sulle unghie, anzi…<br /><br />Cazzo vuol dire non cercarmi?<br /><br />Che una decide la sua vita e per decidere ghigliottina?<br /><br />Furba, lei: una bella frasetta a epigrafe. Responsabilità di spiegare, zero.<br /><br />Come se la cosa, poi, stesse tutta nel non cercare.<br /><br />Certo, mica mi metterò a fare un porta a porta , il chi l’ha visto per strade e negozi…<br /><br />Non sguinzaglierò i cani, non pagherò la veggente della casa di fronte, lettura mano&piedi euro 25, non salirò sul traliccio all’incrocio per la tangenziale né urlerò il suo nome lungo la rampa delle scale, Stazione centrale.<br /><br />E questo significherà non cercarla?<br /><br />Posso starmene seduto qui, su un letto vuoto, farmi ‘na birra gelata e aprirmi una scatoletta.<br /><br />Ma già la sto cercando, con il vomito di questa ansia che mi apre lo stomaco a cerniera.<br /><br />La cerco nelle crepe del muro e della nostra storia, nelle foto mentali delle ultime giornate. Da quando si sono scolorite? Da quando si son fatte pallide? Come pallida era lei, la sera che entrò strana, l’8 giugno. In ritardo, uno dei suoi rarissimi ritardi….<br /><br />Un ciao Andrea veloce e sbrigativo, uno sparire nello studio, con la testa sepolta nel pc., porta chiusa alle spalle, tipo macigno.<br /><br />Come non ricordarlo quell’8 di giugno: il primo no, stasera non esco; vai pure tu….<br /><br /><br /><br />§5. Italia - Ghana<br /><br />"Diavolo se lo cantano l'inno." Allegra ha comprato un mucchio di pizza.<br />Filippo sta già in piedi vicino al tavolo: è un caso patologico, non riesce a sedersi quando gioca l'Italia. Angela e Allegra hanno cercato di apparecchiare la tavola come se fosse una sera normale.<br /><br />Io ho un boccale da un litro in mano stracolmo di birra; l'ho preso l'anno scorso sulla Romantische strasse e bere birra a fiumi mi dà l'idea di stare in Germania.<br /><br />Ecco, questo mi ricordo di Italia - Ghana, i gol me li ricordo. E ora, su questo letto, accanto a questa assenza, mi ricordo anche il venerdì sera . Il 9 giugno.<br />Allegra lavora, o lavorava, non lo so più, in una cooperativa che ha l'appalto dell'assistenza domiciliare in un comune qui vicino. Alle cinque stacca e alle cinque e tre quarti, le sei al massimo è a casa. Non fa la spesa; odia i supermercati e così la spesa la faccio io. "Mi piace stare a casa. A casa nostra" lo diceva spesso e ora quest'altra frase banale mi dà un groppo in gola.<br /><br />E' arrivata quasi alle sette. Sì, ripensandoci, saranno state le sette.<br />Filippo e Angela ci avevano invitato fuori, alla trattoria vicino al fiume, per l'abilitazione di Angela. Farmacista. Per scherzare era venuta col camice con lo stemmino dell'Ordine.<br />Che diavolo di particolari mi vengono in mente.<br />Ero tornato a casa, senza pensare più alla testa nel pc, alla porta chiusa. Eravamo venti persone in trattoria e a mezzanotte ero a casa.<br />Allegra dormiva?<br />Questo non me lo ricordo. Però il lunedì, il 12, si era scusata con Angela e, ora ricordo, se ne erano andate in cucina forse cinque minuti ... sì, erano tornate all'urlo per il gol di Pirlo.<br />Mi era sembrato che avesse gli occhi rossi, Allegra, ma i suoi mal di testa storici, quelli da Aulin a fiumi, la facevano lacrimare e quindi...<br /><br />Angela... sa qualcosa Angela. Le aveva detto qualcosa. Ma che cazzo sono ancora le quattro. Quando arriva un'ora decente; magari non andrò a Chi l'ha visto, o alla Polizia, ma forse Angela mi potrà spiegare che si erano dette in cucina, quella sera.<br /><br />Iaquinta è solo. Goooool.<br />Abbraccio Filippo; Allegra e Angela sono sul balcone. Il calcio non le è mai piaciuto, certo. La partita finisce. Filippo e Angela se ne vanno. Qualcuno strombazza; io mi vedo qualche sintesi, qualche intervista. Allegra è andata a lavarsi i denti appena Filippo e Angela avevano messo piede in ascensore.<br />Ne avevamo parlato. Ci sembrava una cosa da coppia, come dire... , moderna.<br />L'accordo era che se uno dei due voleva andare a letto e l'altro aveva da fare, finire una relazione per la cooperativa, finire di vedere un film, farsi una partita alla Play station, beh... non era obbligatorio andare tutti e due a letto.<br />Però mi ricordo che appena sono arrivato a letto, Allegra mi ha stretto la mano, forte. Siamo rimasti così mano nella mano, fino alla mattina.<br /><br /> 6. Pasadena<br /><br />Non dovrebbe esserci un letto così, la notte successiva al trionfo dell'Italia ai campionati del mondo. Questo letto così spento, silenzioso. Non ci dovrebbe essere una casa così, senza luci accese o gente ubriaca in giro con i pantaloni calati fino alle caviglie. L'ultima volta avevo una cosa come ventitré anni: la vita era diversa, Allegra studiava da qualche parte le cose che l'avrebbero fatta diventare la donna che è e io stesso non ne sapevo niente di lei o del modo che ha la sua treccia di oscillare al centro esatto della schiena ogni volta che cammina. Era Italia-Brasile a Pasadena, praticamente un bollitore a cielo aperto: Donadoni sembrava già il vecchio che sarebbe diventato sulla panchina del Livorno e io dov'ero? Dov'erano tutti i problemi che mi avrebbero raggiunto? Dove stava Grosso? Dove stava Materazzi? Dov'è Allegra?<br /><br />Allegra è sul dischetto di rigore: sta lì con i suoi tacchi bassi e sta prendendo la rincorsa. Le dico cazzo Allegra, metti qualche volta un paio di scarpe più femminili, seducenti. Lo sai quanto odio quei tacchi a rocchetto. Ma lei niente, dice che si sente già troppo alta così e poi se tutti la guardano le viene quell'imbarazzo che le impedisce i movimenti. Ma, dico io, sei al centro dello stadio di Berlino, stai per battere il rigore decisivo: è impossibile che non ti guardino. Ti guarderebbero anche se indossassi il mantello di Harry Potter, che ti credi? Allora si fa avanti Roberto Baggio, il che è incredibile perché Roberto Baggio ha già smesso da almeno tre anni col pallone e di quel vecchio calcio che inventò gli rimangono solo cicatrici sulle ginocchia e un paio di costole incrinate. Però è lui: è sudato, ha il codino e quella fascia elastica blu dietro il quadricipite destro. Le fa: levati Allegra, che ci penso io. Al che a me viene da urlare no, no, nooooo. Ma proprio non ci riesco: non riesco ad aprire la bocca dalla mia posizione privilegiata ed è per questo che capisco che è un sogno. Nei sogni va così: uno prova a parlare e non ci riesce. Oppure prova a muoversi e, niente, resta immobile come un gatto abbagliato. La consapevolezza di trovarmi in un sogno avvolge tutto quanto, anche la sparizione di Allegra: mi convinco che faccia parte del sogno pure quello e allora allungo un braccio nel tentativo di toccarla e in effetti la tocco. Allegra è vicina a me, anche lei è sudata come Baggio e in un orecchio mi bisbiglia meno male, avevo una paura. Ma paura di che, le domando io, e sono felice di scoprire che almeno questo riesco a dirlo. Paura del rigore, mi risponde Allegra, quando ormai già non ci sto pensando più, lo sai che le responsabilità non me le riesco mai a prendere. Perciò rialzo lo sguardo sul mondo, sull'orizzonte, su non so cosa, perché è pazzesca questa situazione: io che, chissà come, riesco a vedere tutto. Ma non c'è orizzonte, non c'è mondo: c'è solo Roberto Baggio che guarda l'arbitro con la casacca viola e l'arbitro ha veramente il fischietto in bocca, al punto che io vorrei lanciarmi verso di lui - verso l'arbitro - e con un pugno farglielo ingoiare quel fischietto. Ma non posso. Non ci riesco: ecco, sono di nuovo immobilizzato. Gli vorrei dire no, Roberto, lo sbaglierai e tutto andrà a rotoli. Stai sicuro che è con quel pallone finito alto sopra la traversa che un sacco di cose hanno cominciato a girare per il verso sbagliato: il pensionamento di Pizzul, il tuo declino, l'11 settembre, il fondamentalismo islamico, Tiziano Ferro. Vorrei - che so - tirarlo per il codino, prendermi IO la responsabilità del tiro, visto che Allegra glissa sempre davanti alle cose importanti - fin da quando le domandai di sposarla, sotto la Basilica di San Francesco, ad Assisi, tipo una vita fa - indossare i suoi calzoncini col 10 e sbam, tirarla rasoterra quella maledetta palla. E far girare tutto diversamente. Ma Baggio non ne vuole sapere, non capisce, ha già le mani sui fianchi e pure se io sono là e lo posso vedere, contemporaneamente sono a casa, nel salotto di Filippo (anche lui ha il viso più liscio e l'aria di chi ancora non ha mai tirato pugni alle ante degli armadi) con gli occhi spalancati, nell'orgia devastante della seconda finale mondiale della nostra vita (ma la prima volta eravamo più che altro impegnati con la pubertà).<br /><br />No, no, nooooo, gli vorrei dire tirandogli schiaffi sul petto. Ma l'abbraccio di Allegra mi tiene, ecco adesso ho capito cos'è che mi impedisce di muovermi, ed è il suo bacio - un bacio che improvvisamente mi sento stampato sulla bocca - che non mi rende possibile la parola. Perciò al diavolo Baggio, al diavolo Romario e Bebeto, al diavolo Pasadena, al diavolo Pizzul e al diavolo pure la coppa del Mondo. Bacio Allegra, che è l'amore della mia vita, pure se quel giorno ad Assisi non fece altro che guardarsi la punta dei mocassini. La bacio finché non mi trovo sveglio, da solo, nel mio letto, con in bocca il sapore salato di un pianto e le corde vocali tumefatte dall'urlo mondiale. "Allegra", dico alla stanza più triste d'Italia e mi ricordo tutto. Sono le sette di mattina del 12 luglio 2006 e quel pallone scagliato da Baggio ha forse finalmente trovato un vetro da infrangere: mi rizzo sul materasso e, poggiato sul gomito, mi accorgo che è giorno.<br /><br />Nomen omen, pensa la donna e sorride. Allegra si sente, quella mattina. Allegra si è sforzata di essere per tener fede alla promessa del nome. Non ci è riuscita sempre. Non sempre le è bastato. Stamane, invece, che l'allegria viene fuori dall'aria che respira, la donna fantastica un altro nome per un differente destino.<br />Sorride al suo riflesso dentro lo specchio a parete del parrucchiere, poi sorride ancora ad una delle ragazze che le porge un vassoio con dei bicchierini di caffé.<br />"Grazie, è già zuccherato vero?"<br />Con Andrea non prendeva mai il caffè. Soffriva di gastrite. Con Andrea preferiva il tè. Senza zucchero e con un goccio di latte.<br />Finito il suo caffè la donna ne assapora ancora per qualche attimo l' aroma dolce e intenso sulla punta della lingua. Nel grande salone pieno di luci e specchi nessuno fa caso quando lei toglie gli occhiali dal naso e li lascia cadere, insieme al bicchierino monouso, nel cestino dei rifiuti, tra fazzoletti di carta e mucchi di capelli.<br />Quello lì tutto in bianco che sembra un gigolò sudamericano, con tatuaggio di ordinanza, quello lì deve essere il capo, pensa la donna. Quando le si avvicina lei scioglie rapida la lunga treccia biondo cenere, e nello stesso momento le viene in mente che potrebbe essere la volta in cui cominciare a fumare.<br />"Allora, come li facciamo?" domanda lui.<br />"Corti e neri. Li facciamo corti e neri". <br />L'orario decente non è ancora arrivato. Non fa niente. Se Angela sa qualcosa si aspetterà una mia chiamata; e, se sa qualcosa, si merita di essere svegliata. Se non lo sa? Beh, se non lo sa se lo merita lo stesso; in tutti questi anni, tutto questo tempo, avrebbe dovuto saperlo. Chi la conosce da tanto tempo avrebbe dovuto dirmelo.<br />Io?<br />Io non conto. La vicinanza è, sempre, inversamente proporzionale alla conoscenza. Occorre una certa distanza per conoscere davvero qualcuno; avete mai provato a leggere un libro appiccicandovi alle pagine?<br />Non è colpa mia.<br />E forse non è nemmeno colpa sua.<br />Non c’è nessuno, nessuno, che ci sia più vicino di noi stessi.<br /><br />"Guarda, se proprio devo essere sincera, non mi è nemmeno mai piaciuta tanto", ha appena finito di dire Angela con la bocca ancora in parte impastata dal brusco risveglio, "non del tutto, almeno".<br />Siamo al telefono ormai da mezz'ora ma questo non me l'aspettavo. Ero partito con una aggressività decisa, pensando di trovarmi di fronte ad una complice, e mi ritrovo al fianco una compassionevole alleata. La cosa fino a ieri non mi avrebbe convinto ma stasera ho bisogno di tenere la guardia bassa. Sono completamente in balia degli avversari, alle corde dopo un colpo che mi ha quasi messo ko.<br />Prima, dopo aver mostrato uno stupore apparentemente reale, ha avuto il coraggio di dirmi che quella sera, in cucina, Angela gli aveva chiesto la ricetta dei tortellini. Proprio lei, che sarebbe stata la candidata ideale per un posto di ricerca e sviluppo alla Quattro salti in padella. Figuriamoci.<br />Ma stasera sono disposto a credere a chiunque si dimostri quanto meno disposto ad ascoltarmi. Sono il sogno di ogni politico, ho un cartello con scritto Offresi, seminuovo, disperazione inclusa proprio sullo sterno.<br />E ho l’impressione che tutti lo sappiano.<br />“Come mai?”, le chiedo sinceramente interessato.<br />“Ma, non so. Non so davvero come spiegartelo. È che tutti noi, dopo tanti anni, siamo diventati così maturi. Lei no, lei aveva solo una parvenza di maturità. Ma se la guardavi bene ti accorgevi che si stava sforzando. Aveva qualche atteggiamento, ogni tanto, anche se sempre più di rado, un atteggiamento che ricordava l’intemperanza della nostra gioventù. Ecco, in lei, qualche volta, si intravedeva ancora quello che noi abbiamo nascosto così bene."<br />“Vuoi dire che noi abbiamo perso la nostra intemperanza?”<br />“Perché, non lo sai? Tutta. L’abbiamo persa tutta”.<br />“E questo era un motivo sufficiente a non fartela piacere?”<br />“Sembra di sì. Era un motivo sufficiente a farmi provare invidia. Ed è esattamente la stessa cosa”.<br /><br />talia - Stati Uniti<br /><br />Gilardino sviolina. Zaccardo inciampa. De Rossi sgomita. La pizzeria è piena di gente incazzata nera. L'impotenza dell'Italia ricorda gli europei del 2004. Quando annullano il gol agli Stati Uniti mi sento come uno che ha rubato in un autogrill.<br /><br />Allegra è fuori; Angela voleva fumarsi una sigaretta, una di quelle sigarette più fine, con il pacchetto elegante.<br /><br />Filippo si è fatto birra e gassosa; è il suo modo per far credere che nonostante la villa fuori città e quella a Cervia e quella a Cortina e la multiproprietà a Nizza e la villa nel campo da golf in Costarica, in fondo suo nonno aveva una rivendita di olio e suo padre aveva sudato per diventare notaio.<br /><br />Torniamo a casa. "Non ti sembra di aver buttato un sabato sera?" mi dice Allegra.<br />"Vabbè la partita ... i Mondiali una volta ogni 4 anni" ribatto.<br />"No, non è questo. E' che è troppo tempo che i sabato sera sembrano obbligatori. Non dico che sto male con Filippo e Angela o in uno dei party che dà qualche tuo collega. E' che io e te..."<br />"Io e te cosa?"<br />Allegra sembra concentrarsi. "Andiamo al mare? A Rimini, adesso"<br />"E' l'una e mezza, ci vuole un'ora"<br />La guardo, ha ragione, un'ora che sarà?<br /><br />Riscendiamo e riprendiamo la mia Cherokee, abbassiamo i finestrini e ci facciamo Parma - Rimini a finestrini giù. Alle tre meno un quarto siamo sulla spiaggia di Rimini.<br />Ci sono coppiette, nascoste tra le cabine degli stabilimenti e in riva al mare, ma anche comitive di ragazzini già mezzi ubriachi.<br />Allegra si toglie le scarpe; ha dei pantaloni corti di jeans fino al ginocchio. Non le piace prendere il sole; non le piacciono le lampade e le sue caviglie sono bianche come vuole la luna.<br />Si mette a correre sul bagnasciuga.<br />Io le corro appresso, coi pantaloni rossi tirati su al ginocchio.<br />"Mi sembri il cavallo della Vidal" ride, a bocca aperta, quasi sguaiatamente.<br />Allegra non ha mai riso così.<br /><br />giovedì, 14 settembre 2006<br /><br />E poi è la volta dell’estetista, un pacchetto completo, depilazione, massaggio e lampada, “voglio un colore diverso, dorato” esclama alla ragazza che l’accoglie e pensa, “e nuovi vestiti a fiori”.<br />Adesso adora il viola, e girerà tutti i negozi fino a trovare un vestito viola a fiori che svolazzi al primo alito di vento, che la faccia sentire una fata o una strega, chi sa.<br />Ha camminato a lungo quella notte, molto più che le altre volte e la città era tutta piena di luci e di colori, di suoni assordanti, di voci rauche. Ad un certo punto le è anche venuto in mente che avrebbe potuto incontrarli, così per caso, Andrea e gli altri due, abbracciati, inebriati e vivi per una di quelle strade. L’avrebbero trasportata con loro, avrebbero rovinato tutto, ma non era accaduto, e l’alba era sorta viola all’orizzonte segnando l’inizio di un'ennesima vita.<br />Un orizzonte libero, sgombro da tutto, da Andrea, dalla casa, dal lavoro, da Allegra così com’era. Da Allegra che sapeva di rancido, da Allegra che doveva morire e risorgere nuova come sempre, ancora una volta.<br />Quanto erano stati semplici gli ultimi giorni, dopo settimane passate a resistere a contrastare tutto anche la voce dell’anima, dopo momenti assurdi in cui era arrivata a dirsi la faccio finita, si era arresa finalmente. E tutto era stato nuovamente calmo.<br />Un pacco la volta, prima i vestiti invernali, cappotti e cappelli che non avrebbe mai più indossato, poi gli oggetti più strani, collezionati in una vita giunta alla fine. Aveva pregato che l’Italia vincesse, aveva pregato che uscissero tutti, era certa che Andrea non avrebbe capito, un bacio sulla porta, un bacio e tutto sarebbe stato nuovo.<br /><br />(scritto da Onecat e solo postato da stefanopz)<br /><br />sabato, 16 settembre 2006<br /><br />Italia - Repubblica Ceca<br /><br />Dal primo gennaio sono direttore dei Progetti speciali qui alla Salumi Barzani. Sulle prime pensavo che spostarmi dalle Risorse umane ai Progetti speciali fosse un modo elegante per dirmi che non contavo un cazzo.<br />Invece Barzani, il vecchio, mi ha fatto chiamare e mi ha detto "Andrea, dobbiamo raddoppiare lo stabilimento. I consulenti della ... quelli americani hanno detto che la cosa migliore è fare uno staff apposito e di mettertici a capo, perché sei uno giusto. Pigliati cinque tra impiegati e capireparto e fallo, lo stabilimento".<br />Pilade Barzani ha qualcosa tra gli 80 e i 90 anni e, ovviamente, ha cominciato facendo il garzone da un macellaio: è l'incarnazione dell'intuito, dell'uomo che si è fatto da sé. Persino noi dirigenti che vestiamo alla milanese e che usiamo tutti i nostri briefing, executive e default ne abbiamo un rispetto quasi mistico.<br /><br />E' per questo rispetto che il 22 giugno la riunione con l'architettone, uno di quelli che scrive sulle riviste, finisce alle quattro e mezza e io non mi incazzo più di tanto.<br /><br />Arrivo a casa che stiamo uno a zero.<br /><br />Sono le quattro e tre quarti e Allegra dovrebbe essere ancora al lavoro. Invece è a casa, la testa nel PC. Quando entro nella stanza, quella dove sta il PC, alza un attimo gli occhi, poi si rimette a scrivere. Posta elettronica, immagino.<br /><br />Ha una cugina che vive a Los Angeles, con cui ha passato tutte le estati da adolescente, e si tengono in contatto così.<br />Del resto io non ho segreti per lei, né lei per me. Io non ho nemmeno la password alla posta elettronica, ma del resto oltre a offerte per aumentare il volume dello sperma e per dei Rolex a 10 Euro non è che mi arrivi gran roba.<br /><br />"Sei tornato prima?" mi chiede dopo un paio di minuti. Ha la voce un po' rotta, a ripensarci adesso.<br />"C'è la partita dell'Italia"<br />"Ah benissimo, allora arrivo"<br /><br />In quel momento squilla il telefono.<br />Vado a rispondere.<br />Dall'altra parte riattaccano. Lo sfanculo mentalmente, perché Nedved ha tirato un'altra bordata e Buffon gli sta prendendo tutto.<br /><br />Sì, ora ricordo. Ricordo il segnale di un sms sul cellulare di Allegra.<br /><br />Quando Allegra arriva a sedersi accanto a me sul divano sembra pallida, sembra sudata.<br /><br />Italia - Australia<br /><br />Siamo schierati sul divano, da destra a sinistra.<br />Angela Filippo Allegra e io.<br />Filippo dopo un paio di minuti si alza e si piazza in piedi vicino al tavolo.<br />La partita va come va, noiosa e nervosa.<br />Rosso per Materazzi. Ovvio, era impossibile che ne facesse due di fila fatte bene.<br /><br />Ultimo minuto, anzi oltre.<br />Grosso si avventura in area. Finisce più o meno a terra. Rigore.<br />Pupone. Gol.<br />Urlo liberatorio immane.<br /><br />Sono quasi le sette e sono in un bagno di sudore. Mi faccio una doccia. Filippo e Angela vanno via.<br />Esco dalla doccia e, da fuori alla porta, Angela mi fa: "Vado a prendere qualcosa per cena. Torno tra una mezz'oretta".<br />Alle sette e tre quarti arriva Maurizio.<br />Ci siamo laureati insieme e lui è il responsabile amministrativo della Salumi Barzani: a volte ci vantiamo di essere gli unici due dirigenti sotto i quaranta.<br />A volte, come la sera del 21 giugno, stiamo a guardarci i budget della costruzione del nuovo stabilimento cercando dove poter tagliare costi in maniera selvaggia.<br /><br />Lavoriamo col suo pc in salone.<br />Alle otto e venti torna Allegra. Ci saluta.<br />Io e Maurizio alziamo a malapena la testa dal pc.<br /><br />Cazzo, che cieco che sono.<br />Allegra non aveva in mano nessuna busta della spesa.<br /><br /> E’ un buon risultato quello che Allegra osserva riflesso nello specchio del camerino di prova. Un bel tipo aggressivo con l’aria sicura sicura di sé quella donna dal caschetto corvino che la fissa negli occhi attraverso lo specchio. Anche l’abbigliamento aiuta: i jeans attillati, gli stivaloni texani a punta. Ora è pronta, la trasformazione è avvenuta all’esterno e pian piano si trasferirà all’interno, e l’Allegra dolce e remissiva lascerà il posto a un’altra donna volitiva, decisa, fredda. Anche quello stupido nome andrà cambiato, non le si addice di certo più, ma c’è tempo, per quello c’è tempo, anzi per tutto c’è tempo. Non rimane che attendere, non resta che aspettare che si facciano vivi, che le facciano avere le nuove consegne. E’ il tempo che preferisce questo, questo vuoto fra un incarico e l’altro. Questa pausa che la lascia libera di non essere nulla, di non interpretare una parte. Finalmente rilassata, finalmente se stessa. <br /><br />- Scusami se te lo chiedo ma sei sicuro che non ci fosse un altro? Non ti sei mai accorto di niente di strano? Tipo messaggi, telefonate....capito no? <br />Filippo è un amico. Mi ha invitato a pranzo mandando a monte un paio di appuntamenti. Che io invece avevo chiamato al lavoro e avevo detto che stavo male, una forma virale di quelle terribili, praticamente non mi reggevo in piedi e il vecchio ci mandasse qualcun altro a fare anticamera dall'architetto o in alternativa si fottesse una volta buona lui e i salumi . E insomma neanche mi andava di uscire di casa ma poi Filippo ha insistito. Dice parliamone che ti fa bene. Forse è vero. Che se non ne parlo con nessuno rischia di sembrarmi tutto frutto della mia immaginazione compreso tutto il tempo con Allegra, compresa Allegra stessa. <br />- Sai come succede, rispondo versandomi altro vino, non è che normalmente ci fai caso a certe cose. Cioè io neanche mi ricordo bene. Però se ci fosse stato un segnale , uno qualunque, uno anche piccolo che le cose andavano male me lo ricorderei. Tipo un litigio, un malumore, un' assenza, un'irrequietezza sua ...invece niente. Devo pensare di essere stato cieco in qualche modo. <br />- E' che è difficile cogliere certi segnali nella quotidianità forse...<br />- Che poi la cosa che mi secca è che sostanzialmente ora mi sento un coglione. E dovrei avercela con lei, no? Perché non si fa così: di cosa hai paura eh? Perché te la fili così , senza dirmi niente? non siamo forse adulti, non si può parlare come abbiamo sempre fatto? Di cosa hai paura? Che faccio scenate, che ti chiudo dentro casa, che do la testa contro il muro che do la tua testa contro il muro, eh? Di cosa hai paura? Non sai forse come sono fatto dopo tutto questo tempo? Invece, guarda, più ci penso e più non riesco ad avercela con lei.<br />- E' evidente che per lei è stato più comodo comportarsi così, Andrea.<br />- Cioè mi stai dicendo che devo rassegnarmi a pensare di aver vissuto con una stronza.<br />- Adesso è presto ma vedrai che col tempo....<br />- Ecco qui: adesso anche tu come Angela te ne vieni fuori dopo tutto sto tempo a dirmi che non ti è mai piaciuta.<br />- Non è questo Andrea ma...<br />Filippo esita fissando il vuoto con tutta l' insopportabile ingenuità dei suoi occhi chiari. Sento salirmi come una rabbia dentro. Come una voglia di spaccare qualcosa, qualsiasi cosa. Alzo la voce.<br />- Vuoi dirmi anche tu la stronzata dell'intemperanza giovanile? Farmi qualche altra analisi psicologica del cazzo rigorosamente a posteriori, non sia mai dovesse risultare utile a qualcosa tranne a dire che, in fondo, avevate capito tutto tu e quell'altra intelligentona là di Angela?<br />- Senti, Andrea, ma pure tu però... !<br />- Pure io cosa?<br />Sto praticamente urlando. Al tavolo a fianco una coppia si volta a guardarci.<br />- E va bene ti dico come l'ho sempre vista la faccenda tra te e Allegra. <br />- E sentiamo.<br />- Conosci questa tipa in una chat line.<br />- Non era un chat line<br />- Va bene, va bene. Era un blog.<br />- E' diverso.<br />- Va bene. La vedi un paio di volte. Dopo un po' lei viene a vivere a casa tua. Le trovi anche un lavoro. Non sai praticamente niente di lei. <br />- Non è proprio così che sono andate le cose.. <br />La mia è una debole obiezione. Perché, credetemi, è una cosa strana quando qualcuno ti riepiloga così alcuni anni della tua vita. Cioè i passaggi fondamentali ci sono tutti. Però poi mancano un sacco di altre cose. Di questo sono sicuro. Quali siano queste cose però mi risulterebbe difficile spiegarlo così su due piedi. <br />- Da dove viene fuori, che ha fatto prima, dove abitava , con chi abitava, Andrea, tu non hai mai saputo niente di lei.<br />- So quello che mi ha detto e mi basta.<br />- Praticamente senza famiglia<br />- I genitori sono morti in un incidente stradale. E poi ha una cugina a Los Angeles.<br />- E non che non ci abbiamo provato a dirti di andarci piano, Andrea, di non partire in quarta. Ma tu niente. Neanche stavi ad ascoltare. E poi che vuoi dire ad un uomo innamorato perso? Allegra di qua e Allegra di là, e quant'è bella e brava Allegra e quant'è intelligente Allegra e quanto è socialmente solidale e politicamente corretta Allegra e quanto è vegetariana Allegra. Andrea, quella donna ti faceva mangiare il tofu per cena e tu dicevi pure che era buono, non so se ti rendi conto.<br />- Ma infatti guarda che il tofu alla piastra non è poi tanto male...<br />Dico automaticamente, a bassa voce, come tra me e me. Andrea mi guarda un attimo in silenzio poi domanda: <br />- Lo vedi che ho ragione? <br /><br />lunedì, 25 settembre 2006<br /><br />Italia - Ucraina<br /><br />"Cazzo, se possono giocare Zaccardo, Barone, Barzagli e Oddo, possono giocare tutti..."<br />Maurizio poggia il boccale di birra. Da ragazzo pare che fosse una promessa nelle giovanili della Reggiana. Adesso quando giochiamo a calcetto, dirigenti contro impiegati, lui è fuori classifica. Abbiamo perso un paio di volte quando era all'estero.<br /><br />La partita è andata via tranquilla, giusto un paio di brividi all'inizio del secondo tempo.<br />Allegra s'è un po' alterata, quando Maurizio ha aperto un cartone di pizze al taglio: diavola, boscaiola, capricciosa, wurstel e patate.<br /><br />S'è fatta il tofu tra il primo e il secondo tempo, alla piastra. Io me lo sono mangiato; Maurizio ha fatto la faccia da emiliano davanti a una mortadella fatta a Hong Kong.<br /><br />E' venerdì sera e così decidiamo di andare a fare un giro.<br />Anzi decidiamo di andare a Bologna. Dopo qualche discussione finiamo in un wine bar a Bologna.<br /><br />Maurizio, come sempre, ci mette mezz'ora prima di scegliere il vino assolutamente perfetto. Siamo arrivati molto tardi, quasi a mezzanotte e abbiamo un tavolo all'angolo, vicino al bagno.<br />A un certo punto vedo un tizio brizzolato che si avvicina al nostro tavolo.<br />Mi sembra ... mi sembra che guardasse verso di noi, verso Allegra.<br /><br />Di colpo, senza che ce fosse motivo Allegra si volta verso di me e mi dà un bacio, lungo e profondo, da lasciarmi senza fiato.<br /><br />Certo ero un po' rimbambito per quel sua bacio improvviso, per la sua lingua, per il suo alito che sapeva di Muller Thurgau.<br />Ora non ho più dubbi; il tizio brizzolato aveva detto "Paola".stefanopz + laralidiahttp://www.blogger.com/profile/15249029335247491670noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9052045044980251020.post-85578827312091513252012-01-25T15:46:00.001-08:002012-01-25T15:46:19.132-08:00UNA SPECIE DI RITORNO A CASA<br /> <br /> <br />1.<br />Tutto cominciò con una telefonata...<br />Driiiin...<br />Matteo grugnì, rigirandosi nel letto. Normalmente si alzava riposato e di buon umore, durante il week end. Ma dopo l'incredibile nottata appena trascorsa, davvero non riusciva a muovere un muscolo. La testa pulsava e sentiva il braccio destro dolorante e stranamente rigido.<br />Driiiin...<br />'Questa è di sicuro mia madre', pensò 'ancora dopo tanti anni è impossibile farle capire che nonostante mezzogiorno sia un orario più che decente per svegliarsi non è detto che IO abbia dormito un numero sufficiente di ore'. Si chiese a che ora fosse rientrato. Non riusciva a mettere insieme tutti i dettagli della serata, ma doveva essere stato mattino.<br />Driiiin...<br />Aprì un occhio. Uno solo. Gettò uno sguardo alla sveglia. Le due e un quarto. Eppure fuori era ancora buio, e pioveva. Quanto detestava questa città in inverno. Scostò le coperte per avvicinarsi al telefono e con la coda dell'occhio si accorse della chioma di capelli color oro nel cuscino accanto al suo. Ma chi diavolo era quella? Doveva assolutamente smetterla di bere così tanto...<br />Driiiin...<br />Un colpo di tosse. La mano sulla cornetta. Con la lingua impastata biascicò un 'Pronto?'<br />E quello fu l'inizio di tutto...<br /> <br />2.<br />"Pronto."<br />"Teo? Ciao sono Massimo."<br />"Ciao, che è successo?"<br />"Stavi dormendo?"<br />"Beh, sì ma... come mai mi chiami a quest'ora? E' successo qualcosa?"<br />"No, niente. Cioè no. Qualcosa è successo. Chiara mi ha lasciato."<br />"Ah”<br />“…”<br />“Mi spiace. Come mai?"<br />"Non lo so. Cioè, le cose non funzionavano da un po' di tempo..."<br />"Ah..."<br />”…”<br />"... mi spiace."<br />"Senti, non l'hai mica sentita?"<br />"Io? No e perché?"<br />"Non so. Sotto sotto ho sempre pensato che fosse ancora innamorata di te."<br />"No, senti. Il discorso sta prendendo una brutta piega..."<br />"No Teo senti..."<br />"Davvero, guarda, se credi che tra me e tua moglie ci sia qualcosa ti sbagli di grosso."<br />"Teo, non dico che sia lì da te ma che potrebbe cercare di contattarti perché, che cazzo ne so, sai, cercando la sua gioventù, le occasioni mancate..."<br />"Ma quali occasioni... senti: io non so se lei ci pensi ancora. Io credo proprio di no, a giudicare da come mi tratta quando ci vediamo."<br />"Teo, non sto dicendo che da parte tua ci sia qualcosa..."<br />"In ogni caso ti posso assicurare che da parte mia non c'è più nulla. Ho una mia vita adesso, completamente diversa da quando stavamo tutti assieme al paese."<br />"Ma questo è chiarissimo..."<br />"Meglio così. Comunque non credo che si faccia viva ma ti assicuro che non ho nessun problema a richiamarti subito casomai lo facesse, ok?"<br />"Grazie Teo. E' esattamente quello che speravo mi dicessi."<br />DRIIIN<br />"Scusa mi suonano alla porta."<br /><br />Matteo si alza e va all'ingresso. Di fronte si trova Chiara con due valigie. Le fa un cenno come dire: "Ma sei matta?" poi si volta e guarda verso il telefono. La fa entrare ma le indica chiaramente di restare in silenzio. Riprende in mano la cornetta.<br />"Senti, adesso ti devo lasciare. Comunque se ho notizie ti richiamo subito."<br />"Ci conto. Stammi bene e scusami ancora."<br />"Tienimi informato."<br />"D'accordo. Ciao."<br />"Ciao."<br /> <br />3.<br />Hai presente quei momenti che non vorresti mai vivere? hai presente? beh eccolo. mal di testa, nausea, alito pesante. la moglie prossima ex del tuo vecchio e caro amico sulla porta. con lei due valigie. te due borse. sotto gli occhi. guardi la scena. come dal tuo corpo astrale. hai presente quei racconti della gente quasi morta che vede tutto dall'esterno? hai presente? ecco, così. all'incirca. nel letto, il tuo letto, una bella biondina. ma per quanti sforzi tu faccia, niente. non ti ricordi il suo nome. Paola? Maria? Giovanna? boh.<br />- ciao Matteo<br />- scus.. un atti.. cioè.. - cerchi le ciabatte e un po' di lucidità, stranamente non trovi ne uno ne l'altra<br />la biondina si sveglia, guarda te, guarda lei, blatera qualcosa che assomiglia ad un<br />- e quella chi cazzo è?<br />domanda che vale per più di una persona qua dentro.<br />devi fare un bel po' d'ordine. e non solo in camera. e non solo in bagno.<br />- la domanda vale anche per te!<br />Chiara non ha tutti torti. qualche minuto fa ho pensato la stessa cosa. hai presente la telepatia? hai presente? ecco. all'incirca.<br />- scusate signore.. allor.. ma dove cazz.. - siediti sul letto, respira - dunque.. Chiara ti presento.. - bravo, così - ti presento...<br />- Monica.. stronzo!<br />- gia'.. Monica.. –<br />Per la cronaca lo stronzo sono io.<br /> <br />4.<br />Monica, cerchio alla testa e gran sete, si alza e afferrata la camicia del tipo, coma cavolo fara' di nome, se la infila. Anche con quella addosso in stanza fa freddo, fuori dal letto. Deve andare in bagno e poi, forse prima, bere almeno un litro d'acqua. Si blocca di botto. Chi cazzo sara' la tizia sconvolta? Possibile che non finisca mai con qualcuno che ha una vita normale? Sempre a lei i drammi familiari?<br />- E 'sta Chiara, chi e'? - chiede.<br />L'altra donna la guarda e Monica, sapendo di essere quasi nuda, si espone anche di piu' decidendo istintivamente di difendere un territorio non suo. Quest'uomo l'ha trovato lei, e' suo e non sara' la bamboccia appena arrivata a cacciarla di li'. Con passo deciso avanza, gli appoggia la mano sulla spalla e ripete - Chi cazzo e' quella, che ti si presenta a quest'ora con le valige in mano? Buttala fuori... - addolcisce la voce - e torniamo a letto, bel manzo...<br /> <br />5.<br />Cazzo, sono proprio uno stronzo se mi ritrovo la mattina a letto con una cosi', ma e' tutta la situazione che e' un assurdo al momento. Chiara mi guarda con i suoi occhi chiari pieni di dolore e di interrogativi, quasi a domandarsi dov'e' finito il ragazzo di cui lei era follemente innamorata, e io mi sento un verme, la mia solida sicurezza di trentenne vacilla davanti a quello sguardo semplice.Siamo tutti in una situazione sbagliata, ma qualcosa bisogna pur fare, e forse continuare ad essere stronzo e' una soluzione, almeno con una delle due. E poi questa perfetta sconosciuta che si comporta come se io fossi cosa sua mi sta gia' sulle palle. Senti Monica...non vorrei sembrarti scortese (cazzo, son proprio stronzo) ma vorrei che mi lasciassi solo adesso, questa e' una mia vecchia amica e ha bisogno del mio aiuto...quindi, se puoi rivestirti ti chiamo un taxi, scusa, non sono in condizione di riaccompagnarti....Lei mi guarda con uno sguardo assassino e dice senza alcuna inibizione- la rabbia e' troppo grande- sei proprio uno stronzo...io non la guardo e non replico, il mal di testa e' imperante, mi alzo lentamente e vado verso Chiara, come a dirle ma che cavolo sei venuta a fare qui, ma il suo sguardo smarrito non lo reggo, le dico dai, andiamo in cucina, mentre monica si riveste.Ci sediamo di fronte nel piccolo tavolo della cucina,il mio appartamento e' piccolo ma confortevole, il silenzio dura, mi metto a fare il caffe e do le spalle a chiara, quando mi giro due grosse lacrime silenziose le rigano il viso, improvvisamente mi rendo conto di quanto sia in imbarazzo, di quanto si senta stupida, di quanto stupide ha capito che fossero le sue speranze di ritrovare da me...cosa?!E mentre cerco nella mia bocca impastata delle parole, e mentre vedo nella mia mente impastata il mio amico solo e disperato come la voce che la stessa disperazione aveva reso quasi priva di ogni contegno la porta sbatte furiosamente. La biondina se n'e' andata senza salutare, a quanto pare.<br /> <br /> <br />6.<br />Nel tempo che Matteo impiega a pulire la macchinetta del caffè, lavarla sotto l'acqua fredda, caricarla di nuovo e metterla sul fuoco, in tutto questo tempo Chiara, grandi occhi liquidi, lo osserva da dietro.<br />I suoi capelli scompigliati sono il racconto dettagliato di una notte con pochi sogni; i boxer e la maglietta mostrano la consunzione tipica dei lavaggi sbagliati: sembra che viva ancora da solo, questo Chiara può immaginarlo con buona approssimazione.<br />Poco prima aveva ascoltato il suo tentativo di imbastire un discorso che restituisse alla discussione l'aspetto di un civile confronto tra persone adulte, soffocando la tensione e le istintive rivendicazioni territoriali. Accortasi del misero fallimento degli intenti di Matteo aveva iniziato a concentrarsi sul puro suono delle sue parole, così familiare, così caldo: Matteo, dopo tutti questi anni, non aveva abbandonato l'accento della loro terra.<br />Questo le era bastato a recuperare un legame antico.<br />Le lacrime che lente le stanno sciogliendo il velo di fondotinta, in realtà, sono il segno della sua gioia.<br />Probabilmente Matteo pensa sia un pianto di tristezza. Ma quando le chiede se va tutto bene lei si sente rispondere: "Il freddo, là fuori. L'aria sembrava fatta di aghi. Mi ha dato fastidio agli occhi."<br /> <br />7.<br />E finalmente trovo il coraggio di guardare Chiara negli occhi. E mi perdo, come è sempre accaduto.<br />"Perché sei qui?" E' l'unica frase che riesco ad articolare. Perché la sua tristezza mi ferisce e mi confonde. Mentre mi avvicino per porgerle il caffè, in attesa di una sua risposta, mi investe il suo profumo. Non ci ho mai capito nulla di profumi, tantomeno da donna, ma il suo lo ricordo bene. E' delicato, ha l'odore dei glicini dell'aia dei miei genitori. Sento salirmi una specie di rabbia e vorrei domandarle perché si sia presentata così all'improvviso per schiaffarmi di prepotenza in una vita passata.<br />Lei abbozza un sorriso e finalmente risponde: "Avevo bisogno di tornare a casa. Ho bisogno di capire che direzione debba prendere la mia vita. Per farlo ho bisogno di ripercorrere alcuni momenti. E devo partire dalla mansarda della casa dei tuoi genitori a Bevagna. Dal nostro primo bacio. Ho bisogno che mi accompagni lì.". Sono confuso. Non riesco a pensare serenamente a quello che dovrei fare. Chiamare Massimo, correre dietro alla biondina-come-si-chiama e riprendere la mia vita incasinata ma mia, accompagnare Chiara affrontando paure e ricordi, tornare a dormire sperando sia solo il vino che ho bevuto ieri sera?<br /> <br />8.<br />"Chiara, adesso non ce la faccio. Riposati un po' qua, se vuoi"<br />Matteo le indica il letto, ancora sfatto, sul cuscino l'avvallamento, prodotto dalla testa bionda di poco prima.<br /><br />Matteo apre un attimo la finestra, perché finalmente ha percepito l'odore di vino e di sesso.<br /><br />Chiara si mette a rifare il letto, con mani sapienti.<br /><br />Matteo trova una scusa per andare in cucina; quelle mani troppo veloci gli hanno fatto fare uno stream of conscience che non gli piace: Chiara rifà il letto; lo fa come una vera donna di casa; Chiara donna della mia casa; moglie, figli, Bevagna; la casa poco fuori il paese da risistemare, la vecchia casa di nonno Arturo.<br /><br />In cucina, prende il latte dal frigo, la mano gli trema.<br />Dalla finestra della camera da letto di nonno Arturo si vede la casa di Massimo, quasi in cima al paese.<br />L'accordo è stato raggiunto in silenzio, per fortuna.<br /><br />Chiara si stende sul piumone, sul letto rifatto; Matteo cerca una posizione comoda sopra il divano.<br /><br />Ma la mano gli trema ancora.<br /> <br />9.<br />Massimo, riattaccato il telefono, si siede affranto sul letto. La testa tra le mani si insulta piano: - Idiota di un imbecille testa di cazzo! Perche' hai telefonato a Teo? Brillante, veramente brillante... Già l’idea di chiamare Laura… L'unico a cui non dovevi dirlo. Hai sentito che voce ha fatto? Mi immagino la faccia...<br />Improvvisamente, con rabbia, si alza. spalanca l'armadio e comincia a buttare alla rinfusa camicie e biancheria in un borsone, infila la maglia nei pantaloni e afferra le chiavi della macchina. Il telefono comincia a squillare e Massimo si precipita a rispondere. Dopo due passi inciampa nelle lenzuola, gettate sul pavimento, e con una spalla sfonda lo specchio appeso alla parete. Una pioggia di schegge lo ricopre. Con la mano sanguinante raggiunge l'apparecchio: - Chiara, sei tu?<br />La voce, impietosa, di sua suocera lo apostrofa: - Massi, cercavo Chiara. Evidentemente non c'e'... Dove la trovo?<br />Il panico e' visibile sul volto mentre la mano sinistra, questa sana, preme un taglio sulla fronte.<br />- E' uscita, non so... Guarda mi si e' appena spaccato in testa lo specchio... Poi le dico di richiamarti, va bene?<br />- Che specchio? - Marta lo interrompe, fredda e asciutta come sempre quando parla col genero che non ha mai amato - Quello che v'abbiamo regalato io e Gianni al matrimonio?<br />- Si quello, son scivo...<br />- Sai quanto c'e' costato? Che fatica...<br />Sbang! Massimo sbatte la cornetta sul telefono e pensa a quella stronza che mentre lui quasi s'ammazza pensa allo stronzissimo specchio che, a ben pensarci, ha sempre odiato; una merda d'affare gigante con la cornice dorata. Corre in bagno e controlla i danni: un bel taglio sulla fronte e il palmo della destra aperto fino all'osso. Dovrebbe andare al pronto soccorso ma l'idea neanche lo sfiora; saccheggia l'armadietto dei medicinali e alla meno peggio si rattoppa. Raccolta la borsa esce diretto verso Milano, da Matteo.<br />- Ultimamente parlava sempre di quel periodo; Teo mi sapra' dare il nome di qualche amica di allora, se mi vede di persona non si rifiutera' - borbotta.<br /> <br />10.<br />Stesa su di un fianco, rannicchiata su se stessa, Chiara finge di dormire. Ma che cosa le è saltato in mente, si domanda. Ma che ci fa, lì, adesso. A casa con Massimo, ricorda, le solite parole cattive, il solito veleno puro, sferzate in pieno volto. E lei che dice non è giusto che io debba vivere così, non era questo che volevo, non lo sopporto più. E lo sguardo crudele e beffardo di lui che le dice nessuno ti trattiene, voglio vedere dove cazzo vai. Già, dove cazzo vai. Un treno di notte per raggiungere l'unico posto che le è venuto in mente. Perchè Matteo quella volta le disse che lui ci sarebbe stato sempre. Quella volta. Quanto tempo fa? Sono cose che si dicono tanto per dire, sono cose a cui non crede mai nessuno veramente. Il treno, il taxi, suonare alla sua porta con le borse in mano: semplicemente infantile, ridicolo. Roba da telenovela. Come se lei fosse davvero una specie di femme fatale, una donna davvero indimenticabile. La faccia di Matteo quando l'ha vista, quando ha posato lo sguardo sulle borse, e poi la biondina nel suo letto. Santo cielo, che figura di merda. E adesso, non potrà far finta di dormire ancora per molto.<br /> <br />Matteo appoggia la testa sul divano, chiude gli occhi, la tazza ancora fra le mani, piena, che la nausea è più forte della voglia di qualcosa di caldo.<br />Chiara li aveva sempre divisi. Indecisa nella scelta, incapace di prendere una decisione. "Io voglio bene a entrambi. Non posso avervi tutti e due?" Rideva e li prendeva sottobraccio. E con loro passeggiava per Bevagna. Ma alla fine una decisione l’aveva presa, eccome.<br />Con Massimo era amico da una vita, le scuole assieme, il campo di calcetto, anche le stesse ragazze, fino al suo arrivo. Chiara, col suo sorriso che spaccava il mondo, li aveva dilaniati allontanandoli. Ora il rapporto fra loro era solo apparente, nulla era stato superato, solo ben nascosto dietro all’ipocrisia di un aperitivo assieme, gli auguri a Natale, la rimpatriata fra compagni di scuola, ma mai niente, da allora, era stato come prima. Avevano preso le distanze gradualmente, senza che gli altri se ne accorgessero, ma il sospetto e il dolore erano ben presenti negli sguardi fra loro, mai diretti, elusi, di striscio.<br /> <br />11.<br />Matteo, improvvisamente svegliato dallo sbuffo di un respiro sul suo viso, sobbalza.<br />Vicina a lui Chiara lo osserva assorta. Lo sguardo venato di un'insofferenza sedimentata. Strati su strati, accumulati negli anni.<br />Rinunciare a Matteo le era costato più di quanto pensasse, ma lui questo non lo sapeva.<br />La scrutò senza dir nulla e pensava a tutte le volte che le aveva guardato le labbra da vicino, pensando di correggergliele mentalmente in un disegno più morbido.<br />Tutte le volte che pensava l'avrebbe conquistata per sempre.<br />Tutte le volte che aveva fatto progetti per entrambi.<br />Non era sicuro di cosa provasse ancora per lei, ma quei ricordi riaffioravano e lo riempivano d'irrequietezza. Aveva voglia di abbracciarla, di riascoltare la sua risata, trasmettere e ricevere segnali, non aspettare.<br />Faceva uno strano effetto essere lì, insieme...<br />eppure non riusciva ad immaginare di essere da nessun'altra parte.<br /> <br />12.<br />Blu elettrico, il divano, finta alcantara; per contrastare tutto questo color acciaio e piombo che c'è fuori, pensa Chiara.<br /><br />Chiara guarda i capelli spettinati, il naso regolare, i tre piccoli nei affiancati sotto l'occhio destro.<br /><br />'C'hai Orione sotto l'occhio' aveva detto Chiara nella mansarda.<br /><br />Chiara sorride pensando che ricordava perfettamente il giorno, il 14 giugno 1996 e l'ora, le undici e dieci, di sera.<br /><br />Era stato Matteo, dopo il primo bacio, a guardare l'orologio.<br /><br />Sopra Orione, gli occhi neri neri avevano sorriso: "Di stasera" aveva detto Matteo "tra quindici anni, quando avremo la seconda occasione, mi voglio ricordare a che ora ci siamo dati il primo bacio, questo sacrosanto sospirato primo bacio".<br /><br />"Hai visto" dice Chiara al Matteo del febbraio 2004, steso scompostamente sulla finta alcantara, "a quindici anni non ci siamo arrivati; la metà del tempo è bastata".<br /><br />Matteo apre gli occhi, neri neri, in mezzo un reticolo di piccole rughe d'espressione.<br /><br />"Quando t'ho detto quella boiata, speravo che la seconda occasione sarebbe arrivata il giorno dopo".<br /><br /><br />13.<br />Laura era ancora appoggiata al muro sotto il portico, stupita e intorpidita. Quella scena l'aveva fatta piombare in un vortice di ricordi quasi antichi, ma non del tutto sbiaditi. Trasformati, certo. Ritoccati dalla coscienza, forse. Abbelliti dal make up del tempo. Piallati quanto può bastare per renderli sopportabili.<br />Quella che aveva visto entrare nel portone del condominio di Matteo sembrava proprio Chiara. Gli stessi capelli lunghi e dritti come spaghetti, che da ragazzina detestava. Lo stesso fisico snello e nervoso. Lo stesso sguardo profondo, abbagliante, anche da lontano. Chiara e due grosse valigie, come a confessione di un fallimento, di una fuga, di un ripensamento, questo è sicuro. E chi l'avrebbe mai detto. Eppure, Laura temeva da sempre un momento come quello. Senza mai confessarlo. Il nome di quella donna era una presenza invisibile in quasi tutti i discorsi tra Laura e Matteo. Era un non detto palpabile. Era un imbarazzo eterno. Sapeva che prima o poi avrebbe dovuto fare i conti con il passato. Perché era più presente che mai.<br />Quel giorno, a quell'ora, Laura non passava di lì per caso. Quasi con timore, come se qualcuno potesse vederla, nascose dietro la schiena il pacco che aveva tra le mani. Riportò il peso su entrambe le gambe e s'incamminò, con una ruga in mezzo agli occhi.<br /> <br />14.<br />Matteo si morse un labbro. Scacciò quel ricordo. Quell'orologio era rimasto fermo sulle undici e dieci, in fondo alla sua testa e in un punto imprecisato del petto. Ma questo non glielo poteva dire. <br />Si rivide in fondo a una chiesa, addobbato a festa, a torcersi le mani e a fissare il pavimento come un idiota, con dentro e addosso soltanto voglia di scappare. Lo ricordava benissimo, era febbraio anche allora. Si era maledetto tante volte per aver voluto alzare gli occhi in quel momento preciso. Si malediceva ancora tutte le volte che quel momento era tornato nelle sue notti più buie, a popolargli i sogni nervosi:lei... nel suo vestito bianco....più bella di quanto l'avesse mai vista...infilare un anello a una mano non sua.<br />Cos'è che vuoi adesso Chiara? Come posso aiutarti? Da cos'è che vuoi essere salvata?<br />Sentì crescergli una rabbia dentro, avrebbe voluto dirle:”tuo marito ti sta cercando!” Calcando su quella parola, per sottolineare la distanza, per delineare il confine fra loro due.<br />Ma Chiara sorrise. Imbarazzata, mortificata e dolce.....<br /><br />Matteo guardò il pavimento, non avendo il coraggio di guardarla e sul pavimento, vicino al letto, vide le scarpe di Chiara.<br />Rimase a fissare quelle scarpe, una in piedi l'altra sdraiata come stanca per la troppa strada; le sue scarpe sono fuori posto, sono delle straniere in questa casa. Si immaginò come sarebbero state quelle scarpe se lei avesse scelto lui al posto di Massimo, ora non sarebbero abbandonate ai piedi del letto, sarebbero protette, chiuse dentro la scarpiera. Vorrebbe metterle via, riordinare tutto, le sue scarpe e la loro vita, mettere anche lei al suo posto, al suo fianco in questa città.<br />Vorrebbe nasconderla da Massimo, cancellare il loro passato e prendersi tutto ma nella sua testa risuona la voce di Massimo che cerca Chiara, si ricorda di loro. Loro sono Massimo e Chiara, Chiara da sola non esiste, esiste solo un Loro. Si immagina i piedi di Chiara colmare la distanza tra il letto e il divano, danzano in punta per non prendere freddo. Poi li vede, ora, al suo fianco.<br /> <br />Batte una mano sul divano accanto a sè: "Siediti qui matta, che cosa è successo?".<br /> <br />15.<br />Ma in fondo lo sapeva. Perché in fondo lo sai sempre.<br />Non ne aveva mai definito i confini tantomeno la natura, ma lo percepiva eccome.<br />Guidava con la mano fasciata e dolorante senza rendersi bene conto di quello che realmente stava facendo. Anche perché non sapeva, quello che stava facendo.<br />La sua testa era occupata solo ad esorcizzare quella sensazione pesante ed inafferabile, e l'unico modo era quello di pensare a sua moglie, Chiara. A quando lei scelse lui e non Matteo. Cercava di sentire ancora una volta quel brivido di soddisfazione che provava ogni volta che la presentava come la sua fidanzata. Cercava di trovare sollievo provando a rivivere quella sera in cui tutti organizzarono una festa per la partenza del suo migliore amico, che stava davvero lasciando tutto per andare a vivere altrove, lontano da lui, da lei e da quella realtà. Sera in cui tutte le sue insicurezze partirono con Matteo.<br />Aveva vinto lui, ma non gli bastava. Così come non gli bastava avere una fede al dito, ripercorrere le piccole vittorie sull'amico e neanche possedere il trofeo.<br />Voleva che quella sensazione sparisse e in fretta. Ma più ribadiva la proprietà di Chiara e più si sentiva lacerare dentro, fino a vedere i loro sguardi completi e complici. Fino a pensare a quella che lui si ostinava a definire "sintonia". Solo che non era sintonia, era esclusivismo, inarrivabile, ed intoccabile. E lui ne era fuori.<br /><br />E’ andata da lui, lo so. perché? lo so perché certe cose le senti. certe cose le sai e basta. vetri. i vetri che ho conficcati da qualche parte sul mio corpo a questo punto sono un bene. mi tengono sveglio. troppe fitte. alla mano, alla testa, al cuore. soprattutto all'ultimo. i vetri sono il meno. centottanta chilometri orari e la testa in aria. non sono un buon mix. dovrei rallentare certo. dovrei guidare con prudenza. l'auto può essere un'arma mi ricordano i cartelli luminosi. un'arma nelle mani di un ferito. nel corpo e nell'anima. dovrei ma non posso. devo arrivare da Matteo. in fretta. confuso. tutto troppo confuso. mia moglie, cazzo mia moglie!, mi pianta come un coglione da un momento all'altro. Se ne va. dovevo telefonare a Matteo. siamo cresciuti insieme. ci conosciamo da una vita. ma quel campanello. è lei. lo so. lo so. dannazione! e te togliti coglione! i pensieri si accavallano a centottanta all'ora. i pensieri scivolano a quella velocità. mi fa male tutto. ma devo andare.<br /> <br />Solo un fischio fastidioso e continuo lo riportò alla realtà. Alle sue chiappe sul sedile e alla mano che gli faceva sempre più male. Doveva fare benzina era in autostrada, aveva fame e stava andando dal suo amico.<br /> <br />16.<br />Fa freddo.<br />Merda se fa freddo.<br />Con questo vento fa ancora più male piangere.<br />E adesso?<br /><br />Laura passò di fianco ad un cestino.<br />Che faccio? Lo butto?<br />Allungò il braccio, lo lasciò lì, fermo, per qualche secondo, come ad aspettare che fosse lui a decidere se gettarlo o rimetterlo sotto l'impermeabile.<br /><br />Chiara..da quanto non la vedevo?<br />Sette? Otto anni?<br />Bella, bionda, dolce.<br />Se fossi almeno riuscita ad odiarla senza sentirmi in colpa..<br />Come fai ad odiare una come lei? Una così..così..perfetta, cristo..così perfetta.<br /><br />Le si era fermato il respiro quando aveva sentito la voce di Massimo..<br />"Laura..è finita. Chiara se n'è andata.."<br />Matteo..<br /><br />Era stata la sua prima preoccupazione.<br />Sapeva che lei sarebbe tornata a cercarlo.<br />Lo sapevano tutti.<br />Anche Massimo.<br />E anche Eva, che ogni tanto la chiamava per aggiornarla sulle novità giù al paese, glielo aveva sempre detto.<br />"Tra quei due..secondo me.."<br /><br />Tutti stavano ancora lì, ad aspettare di veder succedere qualcosa tra quei due.<br />Nessuno se l'era sentita di mettere la parola fine a questa faccenda.<br />Neanche quando Matteo aveva fatto le valigie e si era lasciato tutto alle spalle.<br />Neanche quando Massimo se l'era portata all'altare.<br /><br />Ritrasse il braccio, come se qualcuno l'avesse improvvisamente strappata ai suoi pensieri.<br />Guardò il pacco e lo strinse a sè.<br />Stava toccando il fondo, e in qualche modo doveva risalire.<br /><br />Con un gesto prepotente si cancellò le lacrime dal viso.<br /><br />Ama me. Lui ama me.<br />Ce la metto io la parola fine!<br /><br />Si girò di scatto, per tornare verso casa di Matteo.<br />Fece due passi..tre..quattro..e..<br />Non spetta a me..<br /><br />Si girò di nuovo e riprese a camminare, con quel pacco ingombrante e scomodo sotto all'impermeabile..<br /> <br />17.<br />Massimo e' fermo in autogrill. Non ha potuto evitarlo perche', senza benzina, la fottuta auto non va. Si e' appena scolato due caffe' e porta una borsina con tre bottiglie di coca, con la sinistra. Non vuole addormentarsi ma tutto l'aulin che si e' cacciato in corpo per la mano che pulsa lo preoccupa un po'. Il timore non e' per se' ma non vuole rischiare di non arrivare anche se dove e a che cosa non gli e' chiarissimo, al momento. Fa il pieno e si siede al volante. Con una manovra azzardata torna alla piazzola di sosta, appoggia la testa e chiude gli occhi. Vorrebbe piangere, dormire, urlare. Sente bussare al finestrino e si riscuote. Una ragazza in mini e stivali lo guarda e lui abbassa il finestrino - Che c'e'? Che vuoi?<br />- Ti ho visto qua, con quella benda in testa e mi chiedevo se stessi male o che.<br />- Cazzo. Una buona samaritana.<br />La guarda; e' bionda e nella sua testa bollita gli ricorda Chiara.<br />- Oh, il signore - fa lei - scusa se t'ho svegliato...<br />- No, scusa tu. E' che non e' un buon periodo.<br />- Occhei, pace... - si volta, fa due passi e torna in dietro - Scusa, non e' che mi dai un passaggio? Ero con degli amici e...<br />- No. E poi non mi fermo fino a Milano - intanto, pero', pensa che due chiacchiere magari lo tengono sveglio.<br />- Milano mi va bene, ti do' i soldi per la benzina, dai!<br />- Va bene, sali. Io sono Massimo, come ti chiami?<br />- Sofia.<br />Partono e Massimo ricomincia a correre. La guarda, il viso, le gambe. Carina e' carina, non c'e' dubbio. I chilometri passano veloci ma il fatto di essere due perfetti sconosciuti non favorisce la conversazione.<br />- Sono stanco, mi fa male la mano. Tu hai la patente?<br />- Si.<br />Si fermano e mentre cambiano di posto lei lo guarda e fa<br />- Ti dovresti tirare un po' su. Vuoi...<br />Il quesito inespresso aleggia a mezz'aria. Massimo non sa cosa dire e la guarda al volante, sono ancora fermi.<br />Arrossisce e dice - Cosa... No, non e' il caso... Io...<br />- Ma cosa hai capito? Tieni! - gli allunga una bustina con della polverina bianca - per ringraziarti.<br />Ripartono e Massimo e' fermo li', zitto, con la coca in mano.<br />Si chiede chi sia la tizia che guida.<br /> <br />18.<br />- Siediti qui matta, raccontami quello che è successo.<br />Matteo aveva un potere incredibile per scardinare le sue difese e farla tornare bambina. Era forse questo che stava cercando? Decise di prender tempo<br />- Vado a farmi un tè.<br />Si alzò, andò in cucina e, di ritorno, si sedette sulla sedia di fronte al divano. Dopo un attimo più di pausa che di esitazione portò la tazza alle labbra per un tempo che voleva essere interminabile. Intanto lo guardava di sottecchi. Il bello di Matteo era che non giudicava mai le persone: adesso per esempio la guardava sereno, dolce ma come se avesse di fronte una sorella scapestrata piuttosto che un'ex amante. Ripensandoci però avrebbe preferito una sfuriata.<br />- Prima al telefono era Massimo.<br />- L'avevo intuito.<br />- Dice che te ne sei andata.<br />- Sì.<br />- Perché?<br />Chiara si strinse nelle spalle e bevve un'altra sorsata.<br />- Non lo so.<br />- Sì che lo sai.<br />Chiara bevve ancora un sorso. Poi un altro. Finì il tè in silenzio, poi porse la tazza vuota a Matteo. <br />- Voglio una seconda opportunità.<br />Matteo le prese la tazza vuota e si alzò.<br />- Con me o in generale?<br /><br />19.<br />"Vattene!"<br />E' quello che vorrei dirti. E invece comincio anche a fare lo scemo. "Ma come cazzo ti permetti di venire qui a squassarmi la vita solo perché la tua non ha senso?".<br />Anche questo vorrei dirti. Ma la voce non vuole uscire. Credo di essere ancora frastornato. Da me stesso. La tua incursione improvvisa mi spinge a riflettere anche su me stesso. Vado a letto con una biondina a cui ho offerto una mezza dozzina di mojitos. E meno male che poi ha accettato l'invito a casa altrimenti avrei speso i soldi che non ho -come se me ne preoccupassi mai-. Nel frattempo Laura vorrebbe un uomo al suo fianco ed io fingo di non capire. Continuo a collezionare giocattoli per contrastare la sua silente pressione.<br />"Va bene, andiamo a Bevagna. Mi do una lavata e partiamo." L'ho detto. Non posso tornare indietro ora. Ma che cazzata ho detto! Certo che posso! Però so che farà bene anche a me. Ma io non ho bisogno di cure, cazzo!<br />"Grazie." Questo suono flebile proviene dalla bocca di Chiara. Vorrei di nuovo baciarti, affondare la mia disperazione tra i tuoi seni. Credo che non potrò continuare a respirare se non ti bacio subito. L'amore fa pensare come Liala, a quanto pare. La verità è che vorrei farci l'amore, per ore.E non starci in macchina, per ore. Che cosa dirò a Laura? Nulla. Lei è molto più saggia di tutti noi. E' per questo che mi ama. Io sono il suo lato pazzo. Lei è il mio lato saggio. Che a me non basta. Quando mi canta Vedi cara di Guccini, io so che la sta cantando a se stessa.<br />"Mi preparo." Ecco, ora l'acqua fredda sulla faccia mi farà riprendere possesso delle mie facoltà mentali.<br />Mi lavo e mi vesto come un automa. Quando prendo le chiavi della macchina, ritorno in me per qualche istante e poi, di nuovo in questo strano limbo in cui Chiara è il mio Virgilio: "Andiamo?" Le dico, sorridendo. Sono sereno. Affrontiamo anche questa. Vuoi vedere che Peter Pan si deciderà a crescere?<br /> <br />20.<br />Lo scatto della porta. Scendiamo le scale. Ovviamente ho dimenticato il portafoglio. Tutte le volte che scendo di casa, devo ritornare a prendere qualcosa. La mia distrazione è qualcosa di innato... non mi riconoscerei senza.<br />- Ho lasciato la patente su. Mi aspetti in macchina?<br />- Va bene<br />- E' quella grigia, posteggiata nell'angolo<br />In quattro balzi sono nuovamente alla porta. Entro in camera e trovo il portafoglio sul comodino. Proprio a fianco del telefono.<br />Penso a Massimo... 'Cazzo! E' il mio più caro amico. Non posso fargli questo. Gli ho promesso che l'avrei chiamato. E l'amicizia per me è importante. Più importante di qualsiasi cosa. E sia...' Alzo la cornetta e compongo il numero in modo automatico. Driiin ... driiin... driiin... scatta la segreteria, la voce di Chiara... - Ciao, non possiamo rispondere... Lascia un messaggio e ti richiameremo al più presto!<br />- Ehm... Ciao Massi, sono Teo....ehm... volevo sapere come stavi... mmm...lascia stare... provo sul cellulare... ciao...<br />Faccio il numero del cellulare e questa volta mi risponde la voce registrata della vodafone<br />- vodafone messaggio gratuito, il telefono della persona chiamata potrebbe essere spento o non raggiungibile la preghiamo di riprovare più tardi...<br />Si vede che non è destino... Prendo le sigarette sul tavolo e corro giù da Chiara. Mi aspetta in macchina, fumando nervosa. Quanto è bella... Quando mi avvicino alla portiera mi accorgo di una riga nuova sulla carrozzeria. Maledizione alla biondina... Sospiro e apro la portiera.<br />- Eccomi, si parte...<br /> <br />21.<br />"Non è farina, vero?" Massimo prova l'approccio scherzoso.<br />"Direi di no" fa Sofia.<br />"Fai la corriera della droga?"<br />"Corriera mi ricorda gli autobus sulle strade di campagna"<br />"Fai... diciamo servizi speciali di trasporto conto terzi"<br />"Conto proprio e conto terzi"<br />"Luogo di destinazione: Milano?"<br />"Luogo di destinazione: Milano"<br />"Prezzi modici?"<br />"Manco per sogno"<br />"Clientela vip? Che so.. calciatori, veline..."<br />"Diciamo amici e amici di amici"<br />"E agganci sempre il gonzo all'autogrill?"<br />"No, normalmente ci vado di persona, con uno, anzi; ma oggi quello mi ha mandato al cesso, all'autogrill e quando ho finito di pisciare sono uscita e ho visto che stava già imboccando l'autostrada"<br />Scaricata anche lei, pensa Massimo.<br />"Il problema è che voi donne ci mettete troppo tempo per andare al cesso"<br />Sofia ride.<br />A Massimo sembra una di quelle ragazze della pubblicità dei telefonini, una di quelle sulla barca a vela, con le fossette sulle guance.<br />Massimo la guarda e pensa per qualche secondo a tutto il mondo che c'è, oltre l'orizzonte di Chiara.<br /> <br />22.<br />Che stupida idea questo regalo.<br />Quanto mi sento ridicola.<br /><br />Stringe quel pacco, lo tasta, lo tocca..per ricordarne i dettagli.<br />Un sole..e una luna..due sagome dipinte a mano.<br />Calde come la terracotta di cui sono fatte.<br />Colorate come i loro momenti migliori.<br />Lei, il sole. Sempre pronta a sorridere, a sdrammatizzare, a sprecare carezze.<br />Lui, la luna. Volubile, incostante, sfuggente.<br /><br />Quante cose vorrei dirti amore mio, con questo sole e questa luna..Tutte quelle che, davanti ai tuoi occhi, mi spariscono in gola.<br />Questi siamo noi.<br />E adesso siamo nelle tue mani.<br />Sarai tu ad avvicinarli, se e quando vorrai.<br />Questo voglio dirti.<br />Che non ti chiedo nulla di più di quello che sai darmi.<br />Che non voglio che tu cambi mai.<br />Che così..sei bellissimo..<br />Non poteva buttarlo.<br />Lo avrebbe messo in un cassetto.<br />Prima o poi Chiara se ne sarebbe andata.<br />Sì sì..se ne andrà..<br />Prima o poi arriverà l'occasione giusta per darglielo..<br />Per adesso me lo stringo ancora un po'..<br />Laura..?<br />Laura..<br />Che ci fa qui?<br />Matteo girò la chiavetta, spense la macchina. Aprì la portiera e, prima di scendere, si ricordò di doversi voltare..<br />"Chiara..scusa..ci metto un attimo.."<br />"Laura..ma.."<br />"Ciao Matti.."<br /> <br />23.<br />La macchina corre e macina chilometri, le narici di Massimo e Sofia sembra macinino farina.<br />- Lo stronzo m'ha mollata in autogrill? E noi gli bruciamo la sua parte... Su dal naso dritta al cervello! - la bionda era esplosa a un certo punto - Allora?<br />Lui era un po' incerto pero' l'atmosfera da film on the road, il sorriso di lei e la rabbia e il dolore accumulati gli han fatto chinare il capo in un assenso. Parecchia coca e' sparita quando arrivano a Milano.<br />Massimo, al volante, guarda Sofia e le fa - Mi puoi accompagnare in un posto? Poi ti porto dove vuoi, ma adesso ho fretta...<br />Non aspetta la risposta e il silenzio gli basta. Guida come un esagitato ma la strada e' semplice; Matteo abita in una traversa di Corso Lodi e arrivando da sud e' un attimo. Con uno strido delle ruote compie l'ultima svolta e i fari dell'auto illuminano Matteo che parla con Laura; lo sguardo alterato di Massimo e' pero' fisso su Chiara che attende tranquilla, seduta in auto.<br /> <br />24.<br />"Ma che sei pazzo???"<br />Ci mancava pure 'sto pazzo omicida che voleva investire Laura... "Massimo?!?". Ora mi sento davvero a disagio. Forse è un numero di Dylan Dog ed io sono il protagonista tartassato. Ma tutta 'sta gente oggi m'ha preso per il proprio punching ball da salotto?<br />"Vedo che andate a fare una gita." Ha appena finito di dire Massimo. E' furente. Assomiglia tanto all'immagine che mi ero fatto al liceo dell'Orlando furioso a caccia di Angelica. "Massimo, ascolta... noi... stavamo giusto venendo a Bevagna..." Non sono sicuro di aver detto questa frase con la risolutezza necessaria.<br />"Sì, certo. Come è vero che mi hai telefonato." Parla con me ma guarda fissamente Chiara. Fra poco la incenerirà. A discapito del sedile quasi nuovo della mia macchina quasi nuova trovata rispondendo agli annunci lasciati sulla bacheca di quello schifo di posto in cui lavoro. Ci lavoro in attesa, ovviamente, che una casa editrice scopra il mio ineguagliabile talento e mi chieda di pubblicare con loro tutti i miei futuri best seller. Anche quelli passati va'. Ma è Massimo ora il mio problema.<br />"Hai ragione. Non posso certo darti torto ma, cerca di ca... Ehi, un momento... ma che pupille hai?"<br />"Ma soprattutto, chi cazzo è quella?" Chiara è tornata in sé. Sembra indemoniata. E Laura? Mi sono distratto e l'ho persa di vista. Ricordo un'ombra che si dileguava.<br />"Laura!?! Dove stai andando? Aspettami! Scusatemi, ragazzi. Forse è il caso che io aggiusti prima i miei di problemi. Poi forse i vostri. Certo che non siete cambiati di una virgola voi due!"<br />D'improvviso, il desiderio di Chiara che mi aveva sopraffatto, ha lasciato il posto ad un lieve disgusto. Spero di riuscire a raggiungere Laura. Perché non si gira? Perché mi sto agitando? Lei non si gira ed io mi agito. Non ho mai preso in considerazione la possibilità che lei un giorno possa lasciarmi. L'idea mi fa girare la testa. Mi imbarazza. Mi spaventa.<br /> <br />25.<br />Ma cosa cazzo succede?mi sembra di essere sulla ruota del cricetino, salito su e costretto a correre e correre e correre, ma dove e dietro a chi e perche'?Dio, non ho nemmeno il tempo di chiedermelo ora, ma corro e finalmente afferro Laura per un braccio. Laura, laura, aspetta. Lei alza lo sguardo verso di me, uno sguardo triste e invece dovrebbe essere arrabbiata , cazzo se dovrebbe esserlo. Non ho forse sulla faccia i segni di una notte passata con una delle mie solite scopate da sbronza? E non era forse Chiara quella seduta nella mia macchina?Un film surreale e io il protagonista stronzo che si muove da una scena all'altra come uno schizofrenico.E lei mi guarda triste, invece di gridarmi incazzata che cazzo succede, lei, sempre cosi' dolce, sembre cosi' comprensiva, lei, Laura, che ora tiene stretto quel pacco sotto la giacca e vedo che ha un nodo in gola e non riesce a parlare.Laura...la abbraccio, voglio sentirla vicino a me, tranquillizante come sempre, generosa come sempre. Laura, sono il solito stronzo, perdonami. E non riesco a dire piu' niente.Perche' a che varrebbero ora le spiegazioni? e comunque, quali spiegazioni ci possono essere dell'assurdo in cui mi muovo stamattina? Il passato ti ripiomba addosso e ti guarda con gli occhi di Chiara e per un attimo sembra cancella re tutto il resto, ma non e' possibile. E io Laura non la voglio cancellare. So che ora devo tornare verso Massimo, verso Chiara, verso quella sconosciuta vestita da puttana che rende la scena ancora piu' surreale.La guardo, la imploro con lo sguarda di tornare con me verso di loro, solo lei puo' aiutarmi ad affrontare quella pazzia. Lei che di pazzie le accetta tutte.<br />Torniamo, giriamo l'angolo e vedo Massimo che inveisce come un esaltato contro Chiara, e quando vede arrivare me comincia ad inveire anche contro di me come un pazzo.Sembra fatto, come fatta e' di sicuro la tipa che sta appoggiata alla macchina e guarda il tutto quasi divertita. Chiara e li, in piedi fuori dalla portiera, una statua di marmo inespressiva, io capisco che e' il momento di dare un senso a tutto questa situazione, guardo negli occhi Laura, quasi ad avere il suo appoggio, e vado verso Massimo. Che mi creda o no, io l'ho fatta quel cazzo di telefonata per avvertirlo che ero con Chiara. E lui e' necessario che lo sappia.<br /> <br />26.<br />Massimo, rosso in volto e con la mano che sente enorme, si ferma e cerca di prendere fiato guardando Matteo che si avvicina con aria che vorrebbe fargli credere decisa, lo stronzo. Matteo fa altri due passi e dice - Massimo, io...<br />Un pugno di sinistro lo prende in pieno, forte, proprio sul naso. Suono di cartilagine che si rompe e sangue che cola. Massimo e' in guardia, come un pugile; la mano bendata e' ridicola ma lo sguardo allucinato sotto alla benda di traverso alla fronte non fa presagire nulla di buono. Con un urlo Teo gli salta addosso e i due rovinano a terra cercando di colpirsi. Chiara lancia uno strillo isterico alla vista del sangue mentre Sofia comincia a ridere per quei due idioti che le sembrano bambini vestiti da grandi. Si volta per andarsene quando Laura, accorsa per il trambusto, le rifila uno schiaffone da risistemarle i denti - Cazzo ridi, puttana!<br />Sofia passa il dorso della mano sulla bocca e di rovescio restituisce la sberla mentre con l'altra mano fruga nella borsa - Non avresti dovuto farlo, brutta vacca!<br />In un istante Laura si trova a fissare la canna di una pistola. Le sembra la scena di un film, di quegli orrendi sceneggiati di produzione nazionale che parlano di commesse e poliziotti. Ansima con gli occhi sbarrati e la bocca aperta fissando la pistola e non riuscendo a mettere a fuoco la donna che la impugna. Chiara si e' gelata sul posto con un urlo soffocato e l'unico rumore sono i tonfi dei due uomini che cercano di sopraffarsi a vicenda. E' un attimo in cui tutto pare sospeso e poi risuona lo sparo.<br /> <br />27.<br />Laura giace in terra, il dolore le impedisce di pensare, la mano appoggiata alla spalla gronda sangue. I due uomini restano fermi per lunghi secondi in quel loro surreale abbraccio da pugili sull'asfalto poi un grido da bestia ferita: Lauraaaaa!<br />Matteo si alza , ha gli occhi pesti e il naso rotto. Corre inciampando verso di lei, le si china a fianco, le tocca la testa guardandola nei suoi occhi impietriti e interrogativi: "Laura....tesoro... cosa ti hanno fatto....chiamate un ambulanza, presto!! Chiamate un'ambulanza!!!!"<br />Chiara afferra il telefonino dalla borsa con mani febbrili, non riesce a ricordare quale numero deve fare, cristo, le tremano le mani, ecco..."Ppronto...sì...aiuto...per favore...c'è bisogno di un'ambulanza...una donna è ferita..sì..via...Polesine...fate presto...per favore fate presto..."<br />Suono di pneumatici che stridono, Sofia è scappata con l'auto di Massimo.<br />Un capannello di persone si forma concitato e curioso attorno, ma loro non avvertono nulla, sospesi come in sogno, dove anche l'aria è solo ovatta e i suoni sembrano venire da molto lontano...<br /> <br />28.<br />L'ambulanza arriva; un medico e due infermieri scendono.<br /><br />Dicono 'indietro, indietro'; Chiara si è voltata dall'altra parte; Matteo tiene la mano di Laura; Massimo si torce le mani, dopo essersi voltato un attimo dietro alla sua macchina con dentro Sofia, che scappava.<br /><br />Matteo sale sull'ambulanza.<br /><br />Massimo e Chiara salgono sulla macchina di Matteo e seguono l'ambulanza, suonando il clacson, quasi a dare il ritmo al lancinare della sirena.<br /><br />Niguarda.<br /><br />Porte che si aprono, sbattono, si chiudono. Matteo, Massimo e Chiara vengono fermati da qualcuno, un infermiere, un poliziotto fuori da chirurgia d'urgenza.<br /><br />Stanno su panche di formica, zitti, ognuno sulla sua panca.<br /><br />Ad aspettare.<br /><br />Su un marciapiede di via Polesine, una terracotta rotta: la luna sta sul marmo del marciapede; il sole, a pezzi, è finito sotto una macchina parcheggiata.<br /><br /><br />29.<br />Non voleva certo che succedesse questo. Non voleva che succedesse a lei, l'unica che doveva rimanere fuori, che non c'entrava proprio nulla. Il dolore aveva superato tutto: la gioia di aver rivisto Chiara, l'odio verso Massimo e verso quell’assassina uscita dal nulla. Matteo aveva sabbia, tanta sabbia negli occhi, e una strana colla in bocca.<br />Laura morirà, e non c'era più nulla da fare.<br />Fu mentre pensava questi pensieri, mentre si immaginava cosa avrebbe potuto voler dire perdere Laura per sempre che il chirurgo usci' dalla sala operatoria spalancando la porta e scuotendo Matteo dai suoi incubi, dalla sua paura di perdere Laura. La ragazza ha perso molto sangue ma sta bene, riposa ora. L'intervento alla spalla e' stato complesso, il proiettile ha frantumato l'osso della clavicola e la sua amica avra' bisogno di una intensa terapia riabilitativa dopo il decorso post operatorio, ma se la cavera'. Ora dorme, ma penso le fara' piacere risvegliarsi con una faccia amica accanto.Lei si vada a fare un caffe' e a darsi una rinfrescata, non ha un bell'aspetto. Matteo senti quella strana colla sciogliersi in bocca e la sabbia scivolare via dagli occhi insieme alle lacrime che gli rigavano il viso.<br /> <br />30.<br />Laura ci mise diversi minuti a riprendere coscienza di sè e capire dov'era. L'odore di acqua di rose mista a disinfettante l'aggredì ancor prima di aprire gli occhi. Quando le nebbie si diradarono, sentì il dolore sotto le bende, e scoprì di non riuscire a muoversi per la debolezza. Ma i pensieri cominciarono ad entrare in circolo. E sensazioni forti, così forti da toglierle il respiro, le arrivarono addosso con la violenza di un tir.<br />Un viso stravolto la stava guardando con dolcezza e paura. Il viso di una persona che la conosceva molto a fondo. Con cui aveva condiviso parecchio.<br />Però, Laura non riusciva a ricordarsi, quel volto, di chi era.<br />Eppure quel profumo le era familiare.<br />Il calore di quelle dita sul suo viso era qualcosa che riconosceva.<br />Una sensazione, un ricordo, che doveva aver smarrito da qualche parte, nella sua testa, nel suo corpo, sulla sua pelle.<br />Ma più si sforzava di cercare meno riusciva a trovarne l'origine.<br /><br />"Come ti senti?"<br />"Come se mi avessero fatta a pezzettini, e poi avessero cercato di incollarli tutti. Ma il risultato fa schifo. Diglielo"<br />Gli uscì un sorriso, liberatorio. Come se avesse finalmente potuto tirare il fiato dopo ore di apnea.<br />Le lo fissava, insistentemente.<br /><br />Gli chiedo chi è?<br />Aspetto che me lo dica lui?<br />Eppure...i suoi occhi..<br /><br />"Ci sono momenti in cui non ci sono neanche per me stesso.."<br /><br />"Hai detto qualcosa?"<br />"No amore.."<br /><br />Neanche per me stesso..<br />Ma quando? Dove aveva già sentito quelle parole?<br />Amore..Mi ha chiamata amore..<br />Amarti è per me la cosa più naturale del mondo, non potrei fare altrimenti..E se fossi diverso...<br />Mi scoppia la testa, dannazione!<br />"Ho sete.."<br />"Amore hai ancora l'anestesia in circolo..non puoi bere..Se vuoi posso bagnarti le labbra..."<br />Lo disse come se non avesse aspettato altro che la sua sete per poterla di nuovo, finalmente, baciare.<br />Si chinò sopra di lei..e iniziò a sfiorarle le labbra con la punta della lingua..<br />Prima sotto..poi sopra..poi agli angoli della bocca.<br /><br />31.<br />"Si è riaddormentata"; Matteo torna nella sala d'aspetto, alle panche.<br />Massimo annuisce. Chiara fa un quarto di sorriso e un sospiro enorme.<br />"Che ne dite di andarcene a dormire tutti quanti a casa mia?".<br />In silenzio se ne vanno dall'ospedale. Senza dire niente tornano a casa di Matteo e si accampano in maniera meccanica: Chiara sul letto, Massimo sul divano blu elettrico e Matteo sulla poltrona davanti alla Tv.<br /><br />Non riesce a dormire e accende la Tv: Tg2 notte, ma senza volume.<br />Si stropiccia un po' gli occhi, sorridendo perché il lettore del gobbo di turno sembra un pesce in un acquario.<br /><br />Poi focalizza la striscia rossa che scorre in basso, sul teleschermo.<br />A un certo punto c'è scritto: "Milano: in un conflitto a fuoco con i carabinieri, dopo un breve inseguimento, uccisa una ragazza di 20 anni. Trovata droga nell'abitacolo dell'auto.<br /><br />Matteo non ha nemmeno bisogno di vedere il servizio per capire di chi si tratta.<br /> <br />32.<br />-L'hai uccisa Massimo, lo sai vero? Sei stato tu! Lo sai cosa sei diventato? Un assassino, ecco cosa sei diventato! Te e quella pazza della tua amica!<br />-Lei non... io...io...<br />-Io cosa? Massimo, non puoi giustificarti, tutto è già successo, è tutto finito, sei diventato un assassino, un assassino, capisci? E come puoi pretendere che io viva sotto lo stesso tetto di uno che ha ucciso una povera ragazza? La ragazza del tuo migliore amico per giunta! Sei una persona orrenda, mi fai paura.<br />-Ma Chiara... io non lo sapevo...credevo che... mi ascolti?<br />-No, non ti ascolto più, l'ho fatto per troppo tempo. Vattene. Io resterò qui, con Matteo, qualcuno dovrà pur prendersi cura di lui dopo quello che hai fatto. Vattene, e non farti più vedere, mai più.<br />Chiara si volta e si allontana, Massimo cerca di afferrarle una spalla per fermarla, ma è lontana, troppo lontana.<br />Un tonfo sordo.<br />Massimo è sdraiato sul pavimento, ai piedi del divano, Chiara è avvolta nelle coperte e Matteo si è addormentato davanti alla tv accesa. E Laura... Laura è in un letto di ospedale,ferita, magari sotto sedativi, ma viva. Non è un assassino. Magari quella tizia, Sofia, chissà dov'è, con la sua macchina, magari la polizia l'ha presa. Ma lui che ci fa li? Come è arrivato in questa assurda notte milanese? Bevagna sembra su un altro pianeta adesso. Questa non sembra più la sua vita.<br />E che ci faccio, in bilico tra un passato che non può tornare e un futuro che non voglio affrontare?<br /> <br />33.<br />Anche per Matteo la notte trascorre lunghissima in un faticoso dormiveglia. Ad un certo punto si trova a pensare a loro tre, a come il destino o qualcosa del genere li abbia di nuovo catapultati insieme in quella casa a dividere quella notte, a come adesso siano rinchiusi ognuno nel proprio bozzolo di pensieri, motivazioni, istinti, passioni più o meno sentite. Ognuno di loro sembra sapere molto poco, appena un po' più di quello che è successo, riflette Matteo. Ognuno di loro pare mosso dal caso, incapace di agire davvero. Dovrebbe come minimo avercela con quei due, con Massimo e Chiara, pensa. Ma come al solito, non ci riesce. Quei due fanno parte della sua vita più di quanto vorrebbe: loro sono le partite di pallone fino a sera, le corse in bicicletta, le notti trascorse a parlare del futuro. Quei due non sono solo amici o rivali o possibili amanti, per quanto gli secchi ammetterlo in questo momento, quei due sono le altre facce di se stesso.<br /><br />Poi la notte sembra finalmente finire ed un incerto mattino farsi strada a fatica. Appena l'ora gli sembra decente Matteo compone il numero del cellulare di Laura. Il telefono squilla a lungo, finalmente una voce risponde, l'ansia gli rompe il respiro, le parole si affollano precipitose: "Laura, sono io, Matteo, come stai?...ah, Signora, buongiorno, vorrei parlare con Laura". "Laura sta meglio, grazie, ma credo non voglia parlare con te." "Ma come non vuole...? soltanto un attimo...voglio..." "Mi dice di no" " Allora le dica che sto arrivando" " Credo sia meglio che tu non venga: non vuole vederti".<br /><br />Massimo e Chiara dormono o forse no, si agitano appena, ognuno nel proprio bozzolo. Matteo apre la porta di casa ed è in strada. Prima di entrare in ospedale lo colpisce la vetrina di un negozio di fiori e gli sembra all'improvviso indispensabile non arrivare da Laura a mani vuote. Non le ha mai regalato dei fiori. Ora che ci pensa non ha mai regalato dei fiori in vita sua.<br />"Mi dia dei fiori..." dice al negoziante.<br />"E' maschietto o femminuccia?"<br />"Prego?"<br />"E' da tanti anni che faccio questo lavoro vicino all'ospedale, so riconoscere la faccia sconvolta di uno che è diventato padre, non mi sbaglio mai..."<br />"E invece stavolta si sbaglia." lo interrompe Matteo, brusco.<br />"Allora è per la fidanzata! Facciamo una bella composizione di grandissimo effetto..."<br />"Senta, vado di fretta, mi dia questi" Matteo indica il primo mazzolino di fiori di campo che gli capita sotto gli occhi."tanto neanche vuole vedermi più..."aggiunge come fra sè e sè.<br />Il fioraio dà un'occhiata al mazzetto di fiori, dà un'altra occhiata alla camicia stropicciata, al volto pallido e stravolto di Matteo, al suo naso illividito:"Questo non mi meraviglia" conclude.<br />Odore di ospedale, assenza di colore, gesti rallentati, atmosfera di gelo polare. Matteo è in piedi accanto al letto di Laura con i maledetti fiori in mano. La madre di lei si è dileguata e lei gli sta dicendo: “Eri stato pregato di non venire”.<br />“Senti, mi dispiace, non doveva succedere, tu non c’entravi niente in questa storia…”<br />“Appunto, io non c’entro e non ci voglio più entrare, neanche per sbaglio"<br />"Non riesco a non sentirmi in parte responsabile, dimmi che posso fare.."<br />“ Puoi lasciarmi in pace. E' evidente ormai che ostinarmi a frequentarti mi fa male alla salute e non solo a quella. Quando mi sono risvegliata dall’operazione è successa una cosa strana: per qualche momento non mi ricordavo di te, di noi, non mi ricordavo più niente. Mi faceva male solo la spalla, un dolore terribile ma solo alla spalla. Poi, piano piano, mi è venuto in mente tutto il resto ed allora è stato molto peggio”<br /> <br />34.<br />Matteo se ne stava lì, in silenzio.<br />Incapace di rispondere.<br />Come poteva spiegarle che qualcosa era cambiato in lui, e pretendere che lei ci credesse?<br />Lui lo sapeva che lei aveva ragione.<br />Che stare con lui le aveva portato solo guai.<br />Ma ammetterlo avrebbe voluto dire autorizzarla ad andarsene.<br />"Laura..lo so..tutto quello che è successo.."<br />"Tutto quello che è successo non c'entra niente Matti. Non è questa ferita che mi fa male.."<br />"Lo so..ho fatto un sacco di cazzate con te..ma adesso.."<br />"Non lo so cosa farai tu adesso. Non è su questo che posso fare le mie scelte. Da quando te ne sei andato, ieri, la testa ha continuato a riempirsi di frasi, immagini, ricordi. Ma..non riuscivo..a collegarli, ad ordinarli. Prima di impazzire del tutto..sono riuscita ad isolare una sensazione, l'unica che riuscivo a collegare a tutti quei ricordi. Mi sono sentita incompleta Matti, come probabilmente mi sono sentita in tutti questi anni, ed è una sensazione bruttissima. E mi sentivo incompleta ancora prima di percepire che sono innamorata di te. Era...qualcosa di...più forte."<br />"È colpa mia..lo so..io.."<br />"No Matteo, tu non sai niente. Non sai come mi sono sentita io, a vedere Chaira armata di valigie sotto al tuo portone. Non sai cosa ho provato a passare di fianco a quella biondina..e sentire che aveva addosso il tuo profumo..Non sai neanche quanto è stato difficile non chiederti mai niente, per lasciarti libero di essere te stesso. L'ho fatto per anni, ma adesso devo capire se ho la forza per continuare a farlo..e se ne vale ancora la pena. E poi..la cosa peggiore..che non sai..è cosa vuoi tu. Da me, dalla vita, da Chiara! Ma non posso essere io a dirtelo. Questa volta te la devi cavare da solo. Io adesso ho una pila di ricordi da riordinare..e tu, con i tuoi non lo so, non mi aiuti."<br />Matteo si sentì, per l'ennesima volta, incapace di fare quello che avrebbe voluto davvero.<br />Appoggiò i fiori di campo sul comodino e a testa bassa si avviò verso la porta..<br /> <br />35.<br />Le due valigie stanno esattamente dove Chiara le ha lasciate il giorno prima. Prende l'elenco telefonico e chiama la compagnia di taxi con la pubblicità più grande.<br />'Umbria 48 in dieci minuti'.<br />A Chiara sembra un messaggio del caso fin troppo chiaro.<br />E' una semplice conferma: deve tornare a casa, ora, sola.<br />Scende e il taxi è già pronto, con una pubblicità di biscotti sulle portiere, una di quelle pubblicità con le famiglie felici.<br />Le sembra che il caso non dia messaggi tutti coerenti.<br />Le valigie nel portabagagli, 'Stazione Centrale', Milano le sembra un'enorme periferia, dove il sole non se lo ricorda più nessuno.<br /><br />Alla Stazione Centrale prende un cappuccino e un cornetto, praticamente acquaragia e plastica, ma almeno così sente un po' più caldo.<br />Prende un Intercity per Firenze, poi a Firenze farà mente locale per capire come arrivare a Bevagna.<br /><br />Massimo, a casa, l'ha sentita chiamare il taxi, l'ha sentita sciacquarsi il viso, prendere le valigie, aprire, chiudere la porta; ha sentito l'ascensore arrivare, fermarsi, ripartire.<br />Ha sentito Chiara andare via.<br />E lui è rimasto, sul letto, a fissare una macchia di umidità sul soffitto.<br /><br />36.<br />Matteo rientra e trova Massimo disteso sul letto a guardare il soffitto.<br />"E'andata via?" chiede.<br />Massimo annuisce.<br />"E adesso?"<br />"E' andata via"<br />"Che vogliamo fare?"<br />"Vogliamo?"<br />"Vogliamo vogliamo"<br />"Matteo, forse ti è di nuovo sfuggito un particolare: Chiara è mia moglie"<br />"Massimo, ti è sfuggito un particolare. E' scappata via da Bevagna, è venuta qua da me; ora se n'è andata. Da sola, mi sembra"<br />Massimo chiude gli occhi.<br />Sembra contare mentalmente fino a dieci.<br />"Sai qual è il vero problema. Il problema è che mi dovrei incazzare con te, dovrei farti a pezzi questa merda di casa, dovrei tornarmene a Bevagna e prendere Chiara e riportarmela a casa. In casa. E invece sai l'assurdo qual è: penso a Sofia"<br />"A chi?"<br />"A Sofia, la ragazza che mi ha fregato la macchina. C'ho fatto duecento chilometri in un'ora e qualcosa. Sembrava pazza, per certi versi, ma pulsava, era diversa"<br />"E' morta, Massimo"<br />A Massimo sembra mancare l'aria.<br />"Un conflitto a fuoco con i carabinieri. Stanotte. Dormivate"<br />Gli occhi di Massimo si riempiono di lacrime; cinque secondi, dieci, quindici.<br />Poi: "E la macchina?"<br />"Bo', se vuoi andiamo dai carabinieri"<br />"No, lascia stare. Lascia stare"<br />Massimo va in bagno; Matteo sente l'acqua scorrere, ma è sicuro che si tratta di un modo per coprire altri rumori.<br />Poi lo sciacquone.<br />Un altro minuto buono.<br />Massimo esce dal bagno.<br />"Voglio solo tornare a casa" dice. "Me lo dai un passaggio?"<br /><br />37.<br />- Casello di Milano Sud<br />Isoradio avverte "Un chilometro di coda al casello di Milano Sud".<br />Massimo sembra parlare dall'oltretomba. "Ce l'hai il Telepass?"<br />Matteo fa: "Cazzo ci faccio col Telepass; con la macchina ci faccio casa-ufficio”<br />"Sei il solito inadeguato"<br />"Sei il solito rompicoglioni".<br />Si mettono in fila.<br />"La conosci la legge di Murphy sulle file?" fa Matteo<br />"..."<br />"In qualsiasi fila sei, la fila accanto sarà sempre più veloce".<br />Massimo sbuffa una risata.<br />"E lo conosci il corollario alla legge di Murphy sulle file?"<br />"..."<br />"Se cambi fila, la fila da cui sei uscita comincerà a scorrere più veloce della tua".<br />Stavolta Massimo ride.<br />La mano fasciata pulisce la condensa sui vetri.<br />Il panorama a Milano sud sembra l'emblema della pianura padana.<br />Prendono il biglietto quasi a fatica.<br />Quando hanno ripreso velocità, Matteo fa la domanda decisiva con un tono di noncuranza: "Ma cos'è successo con Chiara? Se puoi dirmelo, ovviamente"<br />Massimo guarda fuori, si guarda la mano fasciata, poi fa:<br />"Quando manca a un cazzo di Autogrill, che mi viene da pisciare"<br /><br />- Piacenza Nord<br />Tra Casal Pusterlengo e Piacenza Nord si fermano all'Autogrill.<br />Matteo fa il pieno; Massimo va a pisciare.<br />Ancora nel bagno prova a chiamare sul cellulare Chiara, ma trova la registrazione del terminale spento.<br />Scrive un sms: sto tornando a casa con Matteo; sta per inviarlo, ma poi decide di cancellare "con Matteo.<br />Ci pensa su un altro attimo, poi gli sembra troppo freddo.<br />Massimo torna alla macchina, dopo aver archiviato l'sms.<br />Quando sale in macchina, Matteo gli fa: "Cazzo, l'hai inondato il bagno"<br />"Stronzo".<br />Sul ponte sul Po, Massimo saluta la Lombardia.<br />Strizza gli occhi: "Non me lo ricordo nemmeno più"<br />"Cosa?"<br />"Il motivo dell'ultima litigata. Non me la ricordo più."<br />"..."<br />"Un paio d'anni fa litigammo per la storia dei figli; non che ne volessimo, ma mia madre e sua madre ... sembrava la santa alleanza. Una sera venne mia madre, mi fece un pistolotto che nemmeno un prete. 'Ma tra un po' Chiara fa 32 anni, forse è il caso di pensarci sul serio' Sai, queste frasi così. Poi a un certo punto mamma mi dice 'Altrimenti che vi siete sposati a fare?' Quando è tornata Chiara, prima che aprisse bocca, quella sera, l'ho guardata e mi sono fatto anch'io la stessa domanda".<br /> <br />- Tra Parma e Reggio Emilia<br />Subito dopo Piacenza è tornato un silenzio, grigio quanto la pianura a febbraio.<br />Dalle parti di Parma, davanti alle pareti della Barilla, Matteo mette la mano nella tasca dello sportello, ci tira fuori un cd e con qualche difficoltà lo toglie dalla custodia e lo infila nella fessura di competenza.<br />"L'ho scaricato da internet: ho leso la legge ma, vaffanculo a Urbani, ne valeva la pena".<br />Le prime note sono un colpo al cuore per Massimo.<br />Pat Metheny. La colonna sonora di Fandango.<br />L'avevano visto insieme un sabato sera in cassetta, Matteo, Massimo e Chiara.<br />Forse c'era pure qualche altro amico, ma non importava, perché era la loro storia.<br />Anche loro erano amici, amici sul serio, mancava solo Dom; Chiara si sarebbe sposata con Massimo, ma l'ultimo ballo a fazzoletti incrociati, Matteo e Chiara, lo dovevano fare.<br />Erano usciti, in piazza, e avevano fatto le due di notte e avevano fatto i conti di quegli ultimi anni. Alla fine, con Pat Metheny ancora nelle orecchie, Chiara aveva abbracciato Matteo, forte, con gli occhi chiusi, lì davanti a Massimo.<br />L'addio.<br />Matteo sarebbe partito per Milano un paio di mesi dopo.<br />Ora Massimo fissa la linea di mezzeria e sente che anche il cuore va a intermittenza.<br />"Ti prego, accosta" dice Massimo quasi in un rantolo.<br />Matteo si ferma.<br />Massimo apre lo sportello, come andrebbe fatto per vomitare.<br />Invece scoppia in un pianto dirotto, da bambino.<br /><br />- Modena<br />Fa buio attorno allo svincolo con l'Autobrennero.<br />Sono ripartiti e il silenzio si è fatto quasi necessario.<br />Massimo dice un paio di parole, mezze parole e mezze lacrime: "E Laura? Che succederà?"<br />"Laura... Cavolo, quante sono le famiglie che da Bevagna sono venute a Milano negli ultimi 30 anni? Due? Tre? Laura stava a Milano da prima di me, ti ricordi?"<br />"Sì"<br />"Ecco, sai dove l'ho incontrata? A San Siro, prima di un concerto di Vasco. Eravamo gli unici due che non stavamo fumandoci una canna, su quel cazzo di prato"<br />"Erba su erba"<br />"Erba su erba, giusto." Fa gesti larghi con le mani. "Eh ciao, Laura , Matteo, che combinazione di qua, che caso di là. E ci dobbiamo vedere. E ti ricordi di questo, di quello. Massimo, Chiara, ovviamente. Insomma tempo un paio di settimane e in un momento di spleen, di nostalgia per il paesello, la chiamo davvero."<br />Matteo sembra un attimo indeciso.<br />"Hai in mente quella sera, quando io e Chiara ci siamo abbracciati in piazza?"<br />"...", cazzo se me la ricordo, pensa Massimo.<br />"Ecco, era chiaro come il sole che vi sareste sposati. Beh, è chiaro come il sole che io e Laura ci sposeremo"<br />Massimo fa per parlare, ma Matteo lo anticipa.<br />"Sì, adesso lei, sua madre, mi hanno cacciato e come dargliene torto; si è trovata davanti Chiara con le valigie e deve aver visto pure quella troietta della sera prima"<br />"Sì ma..."<br />"Ci sposeremo, perché lei non è una ragazza, è una moglie, di quelle fedeli e dedite. E' una mamma, di quelle delle pubblicità, che fanno le torte e che sorridono sempre. Certe volte mi si mette a fissare con un sorriso ebete, tipo le synchronette quando escono dall'acqua. Sembra bearsi, di me, figurati"<br />Dieci secondi per raccogliere le idee e un tono più deciso: "E' banale: io non mi sento pronto, non mi sento, come dire, grande abbastanza per questo diavolo di passo. Mi sembra un passo che mi avvicina alla morte, invece di qualcosa che mi dovrebbe fare felice".<br />Massimo tamburella con le dita della mano fasciata sul vetro della portiera.<br />"Direi che bene o male, almeno uno di quelli che sta alla stazione una cazzo di direzione l'ha intuita..."<br /><br />- Area di servizio di Cantagallo<br />"Senti, vorrei fermarmi prima degli Appennini"<br />"Se vuoi guido un po' io"<br />"Ma va là, con la mano che ti ritrovi..."<br />"Vabbè, fregati..."<br />Matteo svolta verso l'area di servizio di Cantagallo.<br />Stanno per fermarsi quando Massimo fa: "Qui ho caricato Sofia; cioè qui ma dall'altra parte"<br />"..."<br />"Mi ha fatto fare il primo tiro di coca della mia vita, mentre andava a duecento sulla corsia di sorpasso. Passava il tempo a tirare su col naso e a azionare gli anabbaglianti. Ma, lo so, ora non serve a un cavolo... era, che contraddizione, era viva, molto più viva di tutti noi. Parlava del mercato della coca di Milano con una spigliatezza e una gioia, che sembrava parlasse di una festa di compleanno.<br />E poi, e poi aveva un viso fresco, ventun anni a ottobre, diceva. E mentre guidava, la gonna si era alzata, mezza coscia, più su, delle bellissime gambe da bambina cresciuta. Allora mi fa 'cazzo togli quegli occhi dalle gambe'. E io 'non è colpa mia, se la gonna si tira su', e lei 'Cavolo, sembra che non vedi una donna da un secolo'. E io 'fai conto che sono un marinaio che è un anno che fa la traversata in solitaria'. ' Ueh? mi fa lei, ' ma nel posto da cui vieni i porno li danno?'. Insomma era un tipo così, diretto, era sboccata, ma con allegria".<br />"La sboccata con allegria aveva una pistola, ha sparato a Laura, ti ha fregato la macchina e, dulcis in fundo, è crepata in un conflitto a fuoco coi carabinieri. E' morta, defunta, kaputt." la voce di Matteo è un misto di compatimento e di astio.<br />"Ma lo sai che sei uno stronzo"<br />"No, sono solo realista"<br />"Per che cazzo ti eri fermato, stronzo?"<br />"Un cavolo di caffé di merda, che mi hai fatto andare di traverso prima di prenderlo"<br />"Vallo a prendere e ti potessi strozzare. Cazzo, bell'impresa fare la morale postuma a una persona".<br />Matteo scende e sbatte lo sportello con calcolata potenza.<br />Massimo tira giù il finestrino: "Con 'sta storia delle stazioni hai rotto i coglioni, stronzo".<br />Matteo, di spalle, alza il medio della mano destra e va verso l'autogrill.<br /> <br />38.<br />Massimo cerca una stazione radiofonica sull'autoradio, poi appoggia un braccio al finestrino e guarda fuori, alcuni camionisti a mangiare panini, qualche auto alla pompa di benzina.<br />Gli vengono in mente gli altri viaggi che avevano fatto insieme, quando la macchina puzzava di fumo ed era piena di briciole e sacchetti. La Costa Brava per esempio. Per due che vivevano a Bevagna quello era il paradiso. I Viaggi per la Figa, li chiamavano così e poi non rimediavano mai un cazzo. La musica spaccava le casse e non importava niente allora, soltanto una birra, una macchina e una linea di mezzeria. Basta poco per sentirsi liberi. Poi tornavano cotti di sole a fare i buffoni al paese e a fischiare alle ragazze del supermercato. Matteo era stato un fratello per lui, l'amico delle cazzate e quello delle pacche sulla spalla. Gli doveva molte cose. Poi era arrivata Chiara .....<br />Massimo rabbrividisce, il sole sta tramontando e il vento è gelido, tira su il finestrino.<br />Matteo rientra in macchina, si strofina le mani "fa freddo". Poi tira fuori una tavoletta di cioccolato: "Tieni".<br />"Che è?"<br />" Ti piace fondente no?"<br />"Grazie Stella". Massimo lo chiamava così quando giocavano a fare le checche e tiravano fuori la lingua in modo osceno e si schiantavano dal ridere.<br />"Coglione..." Matteo ingrana la marcia e scuote la testa. Un sorriso gli allaga la faccia.<br /> <br />39.<br />È chiaro come il sole che io e Laura ci sposeremo..<br />Matteo ripensava a quella frase.<br />Come gli era uscita?<br />Lui e Laura non avevano mai parlato di matrimonio.<br />E, a pensarci bene, Laura non gli aveva mai fatto una torta.<br /><br />Non sono pronto, no..per niente.. pensava.<br />Eppure..le poche volte in cui aveva davvero lasciato che Laura entrasse nella sua vita..si era scoperto felice, sereno.<br />Un serenità da cui, immediatamente, fuggiva.<br />Perchè..?<br /><br />Gli vennero in mente i baci di Laura..<br />Le sue labbra..così perfette..e quella sua capacità di mandarlo in estasi sfiorandogli il collo...passandogli le mani tra i capelli..<br />Un brivido lungo la schiena.<br />E la netta sensazione di qualcosa che manca.<br />Qualcosa di importante. Di bello.<br /><br />Massimo canticchiava insieme alla radio, Matteo tamburellava le dita sul volante tenendo il ritmo.<br />Ma nessuno dei due avrebbe saputo dire che canzone stavano ascoltando.<br />Massimo pensava a Chiara.<br />Matteo pensava a Laura.<br />Entrambi incapaci di prendere davvero in mano i loro pensieri.<br /><br />"Perchè roviniamo sempre quello che di bello ci troviamo tra le mani?"<br />"Perchè siamo due pirla.."<br />"Parla per te.."<br />"Io almeno non mi sono sposato!"<br />"Bella roba..Hai forse concluso qualcosa di meglio?"<br />"Se non altro risparmio i soldi dell'avvocato per la separazione.."<br />"E chi ti dice che divorzieremo? Sei davvero sicuro che Chiara non tornerà?.."<br /><br />No.<br />Matteo non ne era sicuro.<br />Quando se l'era trovata davanti alla porta, valigie in mano e occhi gonfi ci avrebbe giurato.<br />Per un attimo aveva visto la loro storia ricominciare e, finalmente, realizzarsi.<br />Ma ora non lo sapeva più. Erano successe troppe cose..Laura, Sofia..e questo viaggio con Massimo, che sembrava fatto apporta per chiarirsi le idee a vicenda..<br /><br />E poi..era davvero quello che voleva?<br />O era stupido orgoglio maschile?<br />Perché lei..lei aveva scelto Massimo..il suo migliore amico.<br />E ogni volta che dalla città pensava al paesello non poteva fare a meno di mettersi di fronte ai propri limiti.<br />A quello che non aveva saputo essere. A quello che non era stato capace di dire, di fare.<br /><br />Se fossi stato diverso..Chiara avrebbe scelto me..!<br />Ma lui non era diverso. Me lo diceva sempre Laura.."Tu sei così..Chi ti vuole deve prenderti come sei.."<br />E Chiara voleva un marito.<br />Lei non se ne rendeva conto, ma era così.<br />Per questo alla fine aveva scelto Massimo.<br />E Matteo si era congratulato sinceramente con loro, quando gli avevano dato la notizia.<br />E allora perché era tornata indietro?<br />"Secondo te Chiara ti ama ancora?"<br />"Sì..credo di sì...Credo che stia solo scappando. Ma non da me...Forse da se stessa. Forse da uno stereotipo di moglie che le hanno incollato addosso e che non sa sostenere. Siamo anche stati felici.. io e Chiara.."<br />Lo disse come per convincere Matteo. Per dargli un motivo in più. Un motivo in più per non rovinare tutto.<br />Lo stava pregando. In nome della loro amicizia.<br /> <br />40.<br />- Roncobilaccio<br /><br />Squilla il cellulare di Massimo.<br />Lo prende con la mano fasciata, gli cade, bestemmia, lo raccoglie: "Cazzo", poi risponde.<br />"Sì"<br />...<br />"Sto con Matteo, in macchina" scosta il cellulare dalla bocca. "Mattè, dove cazzo stiamo"<br />"Roncobilaccio"<br />Riprende il cellulare: "A Roncobilaccio... sì ... una mezz'oretta forse ... d'accordo ... va bene, va bene ... spero di no. A dopo, ciao"<br />Riattacca, fa un sospiro piuttosto profondo, poi:<br />"Era Chiara"<br />"L'avevo capito"<br />"Sta a Firenze, alla stazione; la cugina che doveva venire a prenderla ha dato forfait. Cose di ospedale. Ci chiedeva se possiamo passarla a prendere. Io gli ho detto di sì. Mi ha chiesto se per te ci sono problemi se la riaccompagniamo a Bevagna e io..."<br />"E tu gli hai detto 'spero di no'; bello 'st'effetto viva voce in differita"<br />"Stronzo"<br />"Fantastico... a te in qualche modo ti reggo; ma tutti e due?"<br />"Stronzo"<br />"Disco rotto?"<br />"DJ dilettante"<br />Superano il valico e entrano in Toscana.<br />"Stavo pensando, Massimo: se vuoi mi lasci alla stazione, poi prendi su Chiara e tornate voi due a Bevagna. Io magari torno a Milano in treno"<br />"E la macchina?"<br />"Me la riporti uno dei prossimi week end"<br />"Mah, ora vediamo"<br />La discesa sembra a Matteo molto peggio della salita; va così piano che i Tir gli lampeggiano e un paio lo superano.<br />Si sente stanco, di quella stanchezza che nasce solo per i gesti inutili.<br /> <br />41.<br />Nella corsia dell'ospedale il tempo sembra ripetersi con monotonia e le ore scorrono lente. Nessuno parla ad alta voce, per non disturbare gli altri pazienti.<br />Solo, ogni tanto, si vede una lucetta che si accende nel corridoio e si ode lo sciabattare veloce dell'infermiera che va a controllare se c'è un'emergenza.<br />Talvolta, invece, la lucetta lampeggia a lungo, prima che l'infermiera di turno si degni di staccare gli occhi dalla soap opera preferita e decida di alzarsi...<br />Laura sente pulsante il dolore alla spalla. Si trascina da ore in un dormiveglia agitato e vorrebbe svegliarsi da questo lungo incubo. Ha mandato la madre a riposarsi un po' a casa e ora si sente sola.<br />- Dovevo mandarlo via, dovevo! - pensa.<br />Eppure non riesce a fermare le lacrime, al pensiero che lui se ne sia andato, senza provare ad insistere per restare.<br />- Non voglio passare i miei giorni a rincorrerlo. Basta. Non ne posso più. Io così non sono felice... Basta! - e rinizia a singhiozzare.<br />Apre gli occhi e osserva con tenerezza il mazzolino di campo che gli ha portato Matteo.<br />- Tesoro... da solo non è capace nemmeno a scegliere dei fiori...<br />Ecco nuovamente quel senso di nausea.<br />Laura vuole credere che sia effetto delle medicine che le hanno somministrato, ma ormai è da diversi giorni che questa sensazione non la abbandona...<br />Ha paura. Di confessarselo. Di prendere decisioni. Di crescere.<br />Eppure lo sente. Che qualcosa in lei sta già cambiando...<br /> <br />42.<br />Laura ripensa a quel prato.<br />Prima del concerto.<br />A quel viso familiare in mezzo a 110.000 persone.<br />Eravamo gli unici due che non stavamo fumandoci una canna, su quel cazzo di prato..<br />"Matteo..che combinazione! Cosa fai qua?"<br />"Quindi anche tu ora vivi a Milano.."<br />"Dai..ti lascio il mio numero..chiamami..Ci dobbiamo assolutamente vedere!"<br />Poi i giorni erano passati.<br />Per un po' aveva aspettato.<br />Alla fine si era rassegnata.<br />Pazienza..<br />Le avrebbe fatto piacere parlare con qualcuno del suo paese.<br />Certo, a Milano aveva trovato lavoro, amici, un appartamentino che era una favola..ma sentirsi a casa era un'altra cosa.<br />Una sera, cena a casa di Giovanni.<br />Un tipo molto carino che stava frequentando da qualche settimana.<br />Squilla il cellulare..<br />"Pronto? Matteo? Accidenti, sì! Ce ne hai messo di tempo a chiamarmi! Quando? ..Sì..segnati il mio indirizzo.."<br /><br />Me la ricordo ancora la faccia di Giovanni.<br />Un mese di corte serrata, finalmente cedo..e lo pianto per l'ultimo arrivato.<br />Dovrò chiamarlo uno di questi giorni, appena sarò di nuovo presentabile.<br />Non gli ho mai chiesto scusa per quella sera..<br /><br />"Vai pure La'..anche se ti chiedessi di rimanere non lo faresti..Ormai ti ho capita..Non ti preoccupare, la pasta la metto in frigo e domani la riscaldo. Ti ho mai detto che adoro la pasta riscaldata?"<br />Ricordare quella frase le strappò un sorriso.<br />Matteo. Se ne era andata per Matteo.<br />Rimpianti?<br />Neanche l'ombra.<br />Aveva fatto quello che voleva.<br />Stare con Matteo e starci bene.<br />E le era riuscito parecchie volte.<br /><br />Sempre la stessa storia.<br />Che Matteo fosse innamorato di lei era una certezza.<br />E neanche lui avrebbe potuto negarlo.<br />Ma quando se ne rendeva conto..quando..in quei momenti..lui si fermava un attimo..e lo sentiva..<br />In quei momenti la guardava negli occhi, cercando di dirle tutto e niente, senza parlare.<br />E lei ascoltava i suoi occhi.<br />E ci credeva.<br />E aspettava.<br />Convinta che prima o poi quelle parole sarebbero uscite.<br />Convinta che, nel frattempo, gli occhi di Matteo riuscivano a darle tutto quello che lei voleva.<br /><br />Mi basterebbero ancora, adesso, i suoi occhi?<br />Se non ha parlato fino ad oggi non parlerà più..<br />Forse è ora che la smetta di aspettare..<br />Come canta Vasco..<br />"Io non ti aspetto più.."<br />Guardò fuori dalla finestra.<br />Ma da lì l'autostrada non si vedeva..<br /> <br />43.<br />- Stazione di Firenze Santa Maria Novella<br /><br />Quasi le sette di sera e ha cominciato a piovere.<br />Matteo sta impazzendo sui viali di Firenze cercando di finire, anche per caso, alla stazione.<br />"Come guida Chiara?" chiede<br />"Come la nonna paralitica di Nuvolari"<br />"Ho capito" sospira Matteo; "tu sei Muzio Scevola, lei è la gioia delle assicurazioni; mi tocca portarvi io a Bevagna"<br />Massimo annuisce quasi impercettibilmente.<br />Riescono ad azzeccare la piazza della stazione.<br />"Dove ha detto che ci apettava, Chiara?"<br />"Boh, aspetta che chiamo..."<br />Massimo fa il numero al cellulare.<br />"Chiara, dove sei? ... Guarda, noi accostiamo" fa cenno a Matteo di fermarsi "stiamo sotto le tetta destra di Megan Gale ... porca vacca è una cavolo di battuta ... chiama un taxi, allora ..."<br />Matteo sente le urla di Chiara uscire dal cellulare di Massimo; se la immagina davanti alla biglietteria con le valigie per terra, rossa per la tensione.<br />"Ok ok stiamo qua"<br />Massimo riattacca: "L'ho convinta, arriva"<br />"Certo che la battuta su Megan Gale era fuori luogo" ride Matteo.<br />"Cazzo già la tensione sta a mille, se non posso sparare una stupidaggine ogni tanto, come usciamo da 'sto casino".<br />Matteo tamburella con la mano sul vetro; Massimo cerca di guardarsi intorno, ma il suo vetro si sta appannando.<br />Una mano bagnata bussa al vetro di Matteo.<br />Massimo si getta fuori dalla macchina e apre lo sportello posteriore a Chiara, poi carica le valigie nel portabagagli.<br />Chiara, coi capelli bagnati appiccicati alle guance, rossa per il freddo di sera di febbraio, entra in macchina.<br />"Cazzo, siete due imbecilli: un cretino che ci arrivasse al fatto che piove e c'ho due valigie".<br />Chiara respira in maniera quasi fragorosa; il resto, sui sedili davanti, è un silenzio imbarazzato.<br /><br />In un mezzo rantolo Matteo dice un "si va", con un tono freddo, come quello del pilota di un aereo che annuncia la temperatura a terra.<br /> <br />44.<br />- Incisa<br /><br />Per uscire da Firenze ci hanno messo un'ora.<br />Un'ora passata in silenzio, interrotto da qualche indicazione logistica, tipo 'Ecco il cartello', 'Là è senso vietato'.<br /><br />Finalmente in autostrada, cala un silenzio vero, di ghiaccio: Matteo si sente un intruso, Massimo sembra particolarmente concentrato sulla fasciatura e Chiara fa finta di dormire.<br />Un chilometro prima dell'uscita di Incisa squilla il cellulare di Matteo.<br />"Meglio che accosti, dai" lo invita Massimo.<br />"Sì ... ciao ... sto riportando a Bevagna Massimo ... penso domattina stessa ... dai, appena torno, passo lì in ospedale e parliamo ... no, non lo so, si sono sentiti, penso ... va bene, a domani, ciao. Riposati"<br />Matteo spegne il cellulare.<br />Passa un attimo, poi Massimo ho finito di fare mente locale.<br />"Era Laura, vero?"<br />"..."<br />"Era Laura, vero?"<br />"Sì"<br />"Perché non gli hai detto che Chiara sta in macchina?"<br />"In che senso?"<br />"Gli ha detto 'penso che si sono sentiti', giusto?"<br />"Sì"<br />Massimo annuisce, poi fa:<br />"Sei il mio autista preferito"<br /><br />Chiara dorme o finge di dormire piuttosto bene; Massimo ha la sensazione che la telefonata di Laura metta qualche ingranaggio a posto e guarda sua moglie raggomitolata sul sedile posteriore, la testa sul Barbour appallottolato.<br />Sembra serena.<br /> <br />45.<br />- Area di servizio di Badia al Pino<br /><br />"Forse è il caso di mangiarci qualcosa. Non so se è più fame o sonno", dice Matteo sottovoce al cartello che indica 2 km all'area di servizio di Badia al Pino.<br />"Ok, magari scendi solo tu, che io sto qui con Chiara".<br />Si fermano.<br />Matteo scende e entra nel bar; Massimo si volta verso Chiara, nel momento in cui sbatte le palpebre.<br />"Dove siamo?" dice la sua voce impastata dal sonno.<br />"All'autogrill, quello dopo Arezzo"<br />"Matteo?"<br />"E' andato a comprare qualcosa al bar. Tu, come stai?"<br />"Lascia perdere"<br />Chiara si mette seduta, rotea la testa per far scrocchiare le vertebre del collo.<br />Massimo si guarda la fasciatura, poi si gratta una spalla.<br />Chiara prende il cellulare dal Barbour e lo riaccende.<br />Il cicalino di accensione del Nokia dà a Massimo una sensazione di quotidianità, la sua, che gli sembra insopportabile.<br />Chiara rimette il cellulare nella tasca del giubbotto.<br />Massimo guarda l'orologio; lui e Chiara gli sembrano due estranei in ascensore che devono trovare qualsiasi espediente per evitare di andare oltre il grugnito del saluto.<br />In quel momento Matteo torna con tre panini e due coche.<br />"Per evitare discussioni, ho preso 3 Fattoria. Le coche sono per inocularci la caffeina, ovviamente".<br />Scartano i panini, mangiano e bevono in silenzio.<br />Poi Matteo raccoglie carte e bottiglie vuote e le va a gettare nel cestino.<br />Torna in macchina, apre il finestrino e fa: "Ve lo ricordate Don Bairo?"<br />"Chi?" chiede Chiara<br />"Il prete del catechismo; mi sembra che si chiamasse Don Urbano o qualcosa del genere, ma lo chiamavamo Don Bairo. C'era la pubblicità dell'Uvamaro quando andavamo al catechismo"<br />Fa una piccola pausa.<br />"Una volta, al catechismo, io gli chiesi ... oppure Massimo gli chiese ... a quei tempi eravamo praticamente intercambiabili; insomma gli chiedemmo 'se Dio sa tutto, sa già se sarò buono o cattivo, se andrò in Paradsio oppure no'. E Don Bairo, c'aveva una cadenza toscana: 'te, tu c'hai il libero abritrio'.<br />E ci spiegava che il destino ce lo scegliamo da noi, anche se Dio lo conosce già.<br />A me, allora mi sembrava una stupidaggine. Poi, vi ricordate quella sera in piazza, dopo Fandango.<br />Ecco là mi sembrava che potevo solo andare via: a Bevagna, in paese, il libero arbitrio non c'è. Le cose vanno come devono andare.<br />Pensavo che in città avrei potuto scegliere: più persone, più occasioni, incontri, soldi, vita vera.<br />Invece il mio libero arbitrio si è ridotto a farmi qualche biondina di passaggio, che si sveglia la mattina dentro al mio letto e non mi ricordo neanche come cazzo si chiama".<br /> <br />46.<br />Sto male.<br />Mi fa star male.<br />Ma l'unico modo per capire è essere diretti una volta per tutte.<br />Vedere Chiara e Massimo forse è stato un bene, un modo per guardare in faccia i fantasmi e capire se spariranno per sempre o si faranno carne e sangue>.<br /><br />In ospedale c'è silenzio. Dormono quasi tutti. Anche i campanelli.<br />Rimangono solo l'odore di disinfettanti e Laura con i suoi pensieri, per una volta finalmente lucidi. Emotivamente lucidi.<br /><br />Si domanda come mai non abbia mai chiesto a Matteo di fare una scelta. Perché l'abbia sempre accettato così. In amore è bello accettare l'altro così come è.<br />Ma è altrettanto bello e necessario chiedere ciò di cui si ha bisogno.<br />Ed ora Laura ha finalmente deciso di farlo.<br />Quando vedrà Matteo gli chiederà conto degli anni che hanno speso insieme.<br /><br />Ma sopratutto di quelli che devono ancora arrivare.<br /> <br />47.<br />- Tra Perugia e Foligno<br /><br /><br />In macchina c'è un'aria viziata, da ore di viaggio, sudore e silenzio.<br /><br />Poco dopo Perugia Massimo si addormenta, la testa appoggiata alla mano fasciata.<br /><br />Matteo oramai guida sotto gli ottanta all'ora, un po' perché la superstrada gli sembra più ostica dell'autostrada, un po' perché si sente spossato.<br /><br />A un certo punto il "Matteo" di Chiara è quasi un sussurro.<br />"Sì"<br />"Penso di avere fatto una cazzata enorme"<br />"Quale?"<br />"Intendi quale delle tante?"<br />"Intendo quale, ora"<br />Chiara si tortura un ciuffo per cercare le parole.<br />"Il fatto che sono venuta a Milano. Non avevo diritto di irrompere nella tua vita, in quel modo ... con le valigie ... senza uno straccio di telefonata"<br />"Quando ti ho visto penso di essermi sentito come un malato a Lourdes che è stato miracolato"<br />"Figurati"<br />"Non scherzo. Pensa che per quante volte l'avevo sperato, quando ho aperto la porta mi è sembrato di avere un déjà vu"<br />"Favoloso... comunque è stata una cazzata"<br />"Quindi non così enorme"<br />"Non scherzare. E' che ... certe sere, Massimo si addormentava dopo giornate desolanti, inutili. E pensavo che rispetto a molte mie amiche che non avevano nemmeno un lumicino di speranza, chiuse a Bevagna o a Foligno, con un matrimonio, i figli, la gente che parla, un lavoro che non ci arrivi manco a fine mese, io stavo meglio. Perché, io, quelle notti pensavo che c'eri tu: avevo la speranza che se un giorno non fossi riuscita più a tollerare la mia situazione, la mia realtà, avrei potuto fare le valigie e venire da te, a Milano"<br /><br />"E l'hai fatto"<br /><br />"E, come vedi, non è servito. Sto tornando a casa... e neanche un minuto di questi ultimi giorni è stato come avevo immaginato."<br /><br />Chiara poggia la mano sulla spalla di Matteo; Matteo prende la mano di Chiara e prima l'accarezza con il pollice, poi sta per portare la mano di Chiara verso le labbra.<br /><br />Massimo, in quel momento, tira su col naso, cambiando posizione.<br /><br />Matteo caccia un sospiro di petto.<br />Chiara appoggia la schiena sul sedile.<br /><br />La notte di febbraio è un muro nero; le poche macchine illuminano la campagna dell'Umbria, per una volta sterile e spettrale.<br /> <br />48.<br />- Bevagna<br /><br />Quando arrivano a Bevagna ha ripreso a piovere.<br />Arrivano sotto casa di Massimo e Chiara.<br />"Bevagna, stazione di Bevagna" Matteo imita la voce distorta dell'altoparlante.<br />Massimo si sveglia; Chiara si scuote.<br />Matteo scende dalla macchina, apre il portabagagli, prende le valigie di Chiara e le porta accanto al portoncino stile georgiano.<br /><br />Massimo scende un po' a fatica.<br />Matteo gli fa: "Fatti dare un'occhiata a quel taglio; la fasciatura te l'ha fatta un dilettante".<br />Chiara guarda Matteo, guarda i tre nei sotto l'occhio come se se li dovesse stampare nella memoria in modo defintivo.<br />Massimo e Matteo si stringono la mano, quasi un high five.<br />Due baci rapidi sulle guance tra Matteo e Chiara.<br />"Sicuro che non vuoi buttarti un attimo sul letto?" fa lei.<br />"No, grazie. Voglio provare a ripartire; magari mi fermo a quel motel dopo Perugia".<br />Matteo guarda il selciato un attimo e poi: "A questo punto dovrei dire la frase storica, ma non mi viene niente. Anzi una me ne viene in mente. Massimo, abbi cura di lei, è speciale".<br /><br />49.<br />- Aspetta, lascia fare a me... - Mentre la macchina di Matteo si allontana, Massimo prende tutte le valigie e, contemporaneamente, cerca di aprire la porta. Nell'armeggiare con le chiavi, gli cadono di mano... Chiara dà un ultimo sguardo alla strada, poi si china, prende le chiavi da terra e guarda suo marito, impacciato come le prime volte in cui uscivano insieme. Lo guarda. E lo vede per la prima volta dopo tanti mesi. Lo guarda. E finalmente sorride. <br />- Massi? <br />- dimmi<br />- grazie...<br />Massimo alza gli occhi e vede quelli di lei che brillano. Sorride di rimando.<br />- Ti amo Chiara. Non so stare senza di te... Scusami...<br />- Scusami tu. A volte mi sembra di non essere mai cresciuta. Volevo cercare altrove la felicità che non trovavo in me. Avere un'altra chance, un'altra vita... Ho fatto una cazzata. Scusa...<br />- Non dirlo nemmeno. E' colpa mia... mmm... Senti, io non ti prometto che d'ora in avanti sarà tutto semplice. Ma voglio provare a stare con te. A starci davvero. Ad ascoltarti. Ad amarti. A venirti incontro. Chiara... ehm... - e si inginocchia - Chiara, vuoi sposarmi?<br />Chiara scoppia a ridere - ma siamo già sposati!<br />- dimmi di sì... ti prego...<br />- mmm... sì, lo voglio.<br />Massimo sorride ancora, si alza in piedi, prende il viso di Chiara tra le mani e avvicina le sue labbra a quelle di lei in un dolcissimo bacio. Poi abbandona le valigie a terra, la prende in braccio e di nuovo insieme, come una coppia di sposini, solcano l'uscio...<br />- ecco, la nostra seconda chance!<br /> <br />50.<br />- Motelagip di Perugia<br /><br />Matteo guarda il soffitto della stanza del motel e afferra il motivo per cui l'aggettivo più ricorrente per motel è squallido.<br />Ha fatto una doccia così calda da spellarsi vivo.<br />Poi si è accorto che non ha pigiama, né ricambio e se ne sta avvolto in un asciugamano che ha avuto cura di non bagnare.<br />'Laura.<br />Chissà cos'è che deve dirmi.'<br />Dentro gli occhi, prima di addormentarsi, alle quattro di notte, ormai, il viso di Laura, irradiato dalla sorpresa, al concerto di Vasco.<br /><br />Alle sette e mezza è in piedi.<br />Si rimette i vestiti impregnati di sudore e di pioggia di febbraio.<br />Pensa di chiamare Laura, ma poi, vista l'ora, decide che probabilmente la sveglierebbe.<br />Si guarda nello specchio incrinato dell'armadio e ci vede, finalmente, l'uomo che da bambino aveva immaginato di diventare.<br />Chiude l'armadio.<br />Prende il cellulare.<br />Un sms a Laura: "Amore, sto tornando a casa"<br /> <br />51.<br />Toc toc..<br />"Dormivi?"<br />"No, tenevo gli occhi chiusi per guardarmi le palpebre da dentro..."<br />"Ho scelto il momento sbagliato? Se vuoi ripasso più tardi.."<br />"Scherzavo dai, entra.."<br /><br />Ha sorriso. È un buon segno..<br /><br />"Dove li appoggio?"<br />"Gigli?"<br />"Sì..beh..ho chiesto consiglio alla fiorista. Dopo l'ultima volta mi pare di aver capito che i fiori di campo non sono i tuoi preferiti.."<br />"Non è vero..erano belli.."<br />"Sì..ma non erano abbastanza.."<br />"Già..non abbastanza"<br /><br />Ahia..brutto segno?<br /><br />"Già.."<br /><br />Come per dire...Hai ragione. Lo so. Lo so che non erano abbastanza..<br /><br />"Come stai? Ti fa ancora male la spalla?"<br />"Un po', quando faccio certi movimenti..Ma domattina mi dimettono. Poi dovrò fare un po' di riabilitazione ma.."<br />"Sì..beh..certo.."<br /><br />Laura si rese conto che Matteo non la stava ascoltando..<br /><br />"Chiara?"<br /><br />Ecco..adesso mi ascolta..<br /><br />"L'abbiamo riaccompagnata a casa.."<br />"Tu e chi?"<br />"Io e Massimo.."<br /><br />Laura si voltò a guardare il soffitto, come fosse lo schermo di un cinema..<br /><br />"Mi sembra di vedervi..Voi tre in macchina. Come ai vecchi tempi.."<br />"No..era tutto molto diverso questa volta..Noi siamo diversi. E ce n'è voluto di tempo per rendercene conto. Continuavamo a vivere di quello che eravamo ieri. Ci siamo convinti che questo avrebbe risolto tutti i problemi, placato le ansie, chiarito i dubbi..Ma non è così. Siamo cambiati in questi anni e ancora non avevamo capito che era stata la nostra fortuna..e la nostra più grande occasione..<br />Non è stato affatto un viaggio spensierato. Sai..c'erano dei momenti in cui nessuno di noi tre sapeva cosa dire. L'aria era come congelata. Sembrava avessimo paura di rompere quel silenzio irreale.."<br />"Quindi non avete parlato?"<br />"Quanto basta. Credo che tutti e tre ci fossimo illusi di poterci chiarire le idee a vicenda. Chiara se lo aspettava da me, Massimo da Chiara.."<br />"E tu?"<br />"Io pensavo che quei due, alla fine, avrebbero deciso anche per me. E io mi sarei lasciato scegliere. Poi ho capito che era solo con me stesso che dovevo chiarirmi. E allora mi sei venuta in mente tu. Una volta..due volte..e ho pensato che doveva pur dire qualcosa..."<br />"Già..solo che non ti riesce mai di capire cosa.."<br />"E invece questa volta l'ho capito...Vuol dire semplicemente che ti amo. E adesso so che questa è la mia fortuna..e la mia più grande occasione.."<br /><br />Laura non sapeva più cosa dire..cosa rispondere..<br />Non era preparata a questa eventualità.<br />Continuava a guardarlo negli occhi alla ricerca di qualcosa..Un'ombra..una luce..Qualcosa che le desse la certezza che quello che Matteo stava dicendo era vero. Oppure era falso..Bastava una certezza qualsiasi.<br /><br />No no no..e adesso? Mi ero preparata tutto un discorso..che volevo di più..che se lui non poteva darmelo allora mi sarei presa il diritto di cercarlo altrove..che dovevo pensare a me..Matteo io ti amo..ma amo anche me stessa e tu non...E poi adesso...<br /><br />"Non dici niente..?"<br />"Aspetto un bambino.."<br /><br />Matteo deglutì così forte da farsi sentire in tutta la stanza.<br />"E adesso..? Sei ancora della stessa idea? Pensi ancora che sia una fortuna?"<br /><br />Ma lui ormai era convinto.Convinto davvero.<br />Non per Laura, non per il bambino che stava arrivando...ma per se stesso.<br /><br />Se mi lascio scappare una così...io sono un pazzo..<br /><br />Diglielo..<br /><br />"Lo penso ancora..Sarei un pazzo a lasciarmi scappare una come te..."<br />"Sì..ma..Matteo..ti ho sppena detto che aspetto un bambino.."<br />"Posso scegliere io il nome?"<br />"E come lo chiameresti?"<br />"Beh..se è maschio...Jacopo.."<br />"Jacopo?!? Ma non se ne sta neanche a parlare!"<br />"Eh..suggeriscine uno tu allora..!"<br />"Manuel.."<br />"Manuel?!? Ma è un nome da checca!!"<br />"Mio fratello si chiama Manuel!!!"<br />"Ah già..Appunto..Uno in famgilia basta e avanza!"<br />"E se nasce femmina?"<br />"Anna.."<br />"Non ci pensare nemmeno..è il nome di una tua ex!"<br />"Davvero?!? Santoiddio...nemmeno me la ricordo!"<br />"Me la ricordo io, me la ricordo!"<br />"Ma com'era..? Bionda?"<br />"Rossa..era rossa..Ma come fai a non ricordartela..portava la 5° di reggiseno!!!"<br />"Accidenti..Non me la ricordo no..Come mai?..Giulia?"<br />"È una tua ex anche quella.."<br />"Merda..Non ne becco una.."<br />"Tanto per cambiare!"<br /><br />Laura ride..<br />Matteo anche..<br />Poco alla volta la tensione si scioglie..<br />Poco alla volta si riavvicinano..<br />Senza neanche bisogno di dirselo..<br /><br />"Laura?.."<br />"Sì?"<br />"Quando arriviamo a casa..me la fai una torta?"<br />"Cioccolato?"<br />"Cioccolato! Con sopra la panna montata..!"<br />"La panna montata?!? Non crescerai mai!!"<br /><br />Laura ride..ride ancora..e in quell'attimo le sembra di non poter più smettere di farlo..<br /><br />Crescerà..crescerà..Quel ragazzo ha un gran potenziale…stefanopz + laralidiahttp://www.blogger.com/profile/15249029335247491670noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9052045044980251020.post-53479926872854693522012-01-25T15:44:00.000-08:002012-01-25T15:45:04.500-08:00Mary, l’attrazione principale del Reality Human Zoo di Svellenburg<br /> <br />1.<br />Cazzo, non era meglio fare il caddy? Però quel cavolo di campo da golf stava quaranta chilometri fuori Svellenburg; la benzina gli costava più dello stipendio.<br />Ma porca vacca, pensava Eron, fare il guardiano al Reality Human Zoo.<br />Certo, tutto meglio dell’Albania, ma la paga faceva schifo anche allo zoo e il lavoro a volte era terrificante.<br />Il peggiore di tutti era Ryan, il ragioniere: camicia a maniche corte bianca, cravatta nera, una scrivania a loculo, senza luce naturale, con un pacco di fatture, fornitori con la A.<br />Un minuto di pausa, alla fontanella; poi al cesso si cacciava fuori dalla tasca una fiaschetta e beveva avidamente, poi si gettava in gola quattro Saila e se ne tornava al loculo.<br />Eron preferiva fare il guardiano, pulire la sera il loculo, i cestini, piuttosto che il ragioniere. Le penne nel taschino, il giornale sportivo nel cassetto, il salvaschermo con quella diavolo di modella nera che sembra un cerbiatto.<br />Le uniche cose che Ryan poteva fare.<br />Eron la mattina cercava di guardarlo negli occhi, ma sembravano gli stessi della sera prima.<br />E poi, chissà cosa diavolo c’era in quella fiaschetta.<br />2.<br />Chissà cosa avrà da fissarmi quell'Eron. facile per lui. fare pulizie. essere il guardiano.<br />avrei bisogno di fare un po' di pulizie nella mia testa. vorrei assumere un guardiano per la mia sanità mentale.<br />ditemi voi cosa fare! quando dopo una settimana di merda come questa ti senti dire<br />-papà mi porti allo zoo umano?<br />speravo di non dover sentire quelle parole al telefono. speravo proprio che mio figlio non volesse andarci. tendenzialmente odio questo posto. un buon motivo forse è perchè ci lavoro già tutta la settimana. e passarci uno dei pochi giorni liberi non mi sembrava una grande idea.<br />non vorresti andare da qualche altra parte?<br />non volevo passare il fine settimana a disposizione con mio figlio al Reality Human Zoo. già faccio fatica a vedere il mio Nicolas. grazie a quella stronza di mia moglie. ex-moglie. ma riesce così bene a tormentarmi da farmi credere di essere ancora sposati.<br />no, ti prego portami!<br />non volevo ma mi piegai al suo volere. ci vediamo già poco. voglio solo vederlo contento.<br />- ok come vuoi, ricorda a tua madre di essere puntuale, non come l'ultima volta.<br />già per arrivare c'era da smaltire la sempreverde coda. tempo perso. tempo che vorrei passare in modo diverso.<br /><br />mi farò un altro goccio. tanto qui non se n'è ancora accorto nessuno. e poi con le caramelle non si sente che ho bevuto.<br /> <br />3.<br />Nicolas sapeva che suo padre non capiva la sua insistenza.<br />Del resto, neanche lui avrebbe capito perché un recente seienne avrebbe dovuto desiderare così tanto di passare la giornata in un posto come quello.<br />Nicolas non aveva detto a suo padre che tutto questo era per Mary.<br />Avendo sei anni si sentiva abbastanza grande per poter tenere dei segreti.<br />E poi neanche suo padre gli aveva mai detto, per davvero, perché lui e la mamma non dormivano più insieme.<br />Quindi.<br />Nicolas cominciò a fantasticare su quanto sarebbe successo.<br />Vide se stesso alla cassa dello zoo, tirare suo padre perché si sbrigasse, con quei biglietti.<br />Si vide gironzolare per qualche minuto tra le stradine ben curate, fingendo di non aver già chiara in testa la sua meta.<br />Si vide, finalmente, davanti alla gabbia di Mary.<br />Sentì il cuore bussare per uscire.<br />Si fermò.<br />La fisserò così intensamente che sarà costretta a voltarsi, pensò.<br />Esercitò il suo sguardo magnetico davanti allo specchio.<br />Quando si sentì pronto, proseguì.<br />Vide Mary voltarsi verso la folla.<br />Vide Mary trovarlo in mezzo a tutte quelle persone.<br />Vide Mary allungare la mano verso di lui, per invitarlo a entrare.<br /> <br />E in un attimo fu dentro e la prospettiva era cambiata.<br />Non era più un anonimo seienne a cui non si spiegavan le cose.<br />Ora era al centro del mondo e un sacco di gente stava lì ad osservarlo.<br />Fra tutti spiccava il volto di suo padre, paonazzo, sudato, incredulo.<br />Stava a bocca aperta senza riuscire a emettere suono.<br />Ma Nicolas lo sapeva a che stava pensando, lo sapeva sempre a cosa pensavano i suoi genitori.<br />Ora nella testa di suo padre si leggeva a caratteri cubitali una sola frase "CHI CAZZO GLIELO SPIEGA A EDITH DOVE E’ FINITO NOSTRO FIGLIO???????? "<br /> <br />4.<br />Questa storia schifosa dovrebbe finire. Edith prese una sigaretta da dentro un cassetto. Lui, quello per cui era andata via di casa, il grande avvocato, si stava facendo la doccia.<br />Certo, quella casa che le aveva affittato era davvero bella, un grande salone centrale, con poltrone firmate e schermo al plasma, una camera da letto con gli specchi messi esattamente dove dovevano stare.<br />In bagno Jacuzzi e doccia.<br />Tre anni a fargli la segretaria, poi la prima volta in macchina, in garage, sui sedili in alcantara di un'auto a noleggio a lungo termine, dopo mesi di sorrisi, doppi sensi, un paio di baci discreti.<br />Ma solo quel giorno aveva capito cos'era diventata: una mantenuta e Edith, che comunque non aveva rimpianti, voleva essere il centro della vita del suo uomo e non la scopata dei giorni pari.<br />Il salone aveva una vetrata e una vista spettacolare; una vista che arrivava lontano, fino ai limiti della città, fino al Reality Human Zoo.<br /> <br />5.<br />Mary ripassò mentalmente tutte le clausole del contratto. O, almeno, tutte quelle che riusciva a ricordare. Rilesse più volte, nella sua testa, tutto ciò che aveva esplicitamente richiesto di escludere. Acqua non potabile, esclusa. Mancanza di assistenza medica in caso di malattia grave, esclusa. Accoppiamento forzato con altri componenti dello zoo, escluso. Possibile che avesse tralasciato proprio quella clausola?<br />Maledisse la sua ingenuità per l'ennesima volta.<br />Ne aveva già parlato durante gli incontri mensili con il dirigente preposto alle relazioni con le attrazioni a lungo termine e quindi conosceva la risposta. Lui aveva verificato il suo contratto. E le aveva ricordato come, sue testuali parole, "tutto ciò che non fosse esplicitamente escluso dovesse considerarsi tassativamente pubblico".<br />Cercò di concentrarsi pensando intensamente al suo piccolo Michael, a casa, lontano da tutto.<br />Quando riuscì finalmente a defecare sentì un lungo applauso nascere spontaneamente dalla folla dietro alle transenne.<br /> <br />Mary capi' dopo un bel bidet rinfrescante, che la vera merda era rimasta fuori dalle transenne e penso': ma chi c...se fotte delle clausole, se viviamo in un mondo che applaude anche questo?<br /> <br />Pensò a cosa l'avesse spinta lì.<br />Se era una reclusione a cosa si doveva?<br />Avrebbe dovuto andare per le strade, selvaggia, a stupire gli altri perchè sapeva come farlo. Invece si mostrava parzialmente al pubblico, secondo le clausole del contratto.<br />Era la cicatrice di una precedente vita a sottrarla alla luce?<br />Era il desiderio di essere stupita, di pescare a occhi bendati l’ostrica che racchiudeva la perla. E forse solo per riconsegnarla alle profondità del mare.<br />Il piacere di confidare in una scintilla che desse fuoco alle polveri.<br />E la scintilla doveva venire, lei questo lo sapeva.<br /> <br />Sapeva che le vere scintille di vita potevano essere solo dono di un bimbo innocente. Lei, del resto, lo aveva capito solo dopo il secondo aborto. Quando alzava lo sguardo verso la folla sperava sempre di incrociare gli occhi di un piccolo, non ancora intaccati dallo squallore che intuiva dietro tutti gli altri. Allo stesso tempo sperava di incrociarne sempre meno, cosa che avrebbe significato che dei genitori, finalmente, si stavano chiedendo l'utilità di portare un figlio al Reality Human Zoo. Sapeva senz'altro di saper resistere fino alla fine, fino al termine imposto dal contratto; dopo, avrebbe avuto abbastanza soldi per sé, per Michael, per potersi sentire sicura anche se la sua carriera nel mondo dello spettacolo fosse finita. Strinse i denti, alzò gli occhi dal pavimento e allora vide la testa bionda di Nicolas eludere la sorveglianza di Eron ed avvicinarsi. Sbigottito dal suo stesso coraggio, sembrava esitare di fronte alla gabbia trasparente. Allungò la mano e bussò.<br /> <br />6.<br />Il suono del cellulare interruppe il filo di pensieri nella testa di Edith.<br />Sua madre.<br />Da quando aveva lasciato quel "buono a nulla"di suo marito, sua madre la chiamava spesso, anche solo per chiacchierare o per farsi raccontare in quale meraviglioso mondo ora Edith viveva.<br />"Mamma, sono occup...." Non ebbe nemmeno il tempo di finire la frase. Sua madre stava urlando.<br />"Accendi la tele sul canale 9! Accendila! "<br />Meccanicamente, senza aver capito il perchè di tanta agitazione, prese il telecomando e accese la TV.<br />Davano un servizio in diretta dallo Human Zoo.<br />- Dove lavora Ryan-<br />Era un collegamento straordinario, c'era molta concitazione alle spalle della giornalista.<br />Si tranquillizzò pensando che suo figlio non poteva essere lì.<br />Mancavano ancora due giorni alla gita programmata con suo padre per quel fine settimana.<br />Stava cominciando a pensare a cosa poteva aver combinato quell'inetto del suo ex-marito quando le parve di riconoscere la sagoma di Nicolas, ma il collegamento era molto disturbato, stretto tra le braccia di una donna.<br />Un primo piano fugò ogni suo dubbio.<br />Gli occhi di Nicolas fissavano il monitor. Era tenuto stretto, come a farsene scudo, da una donna giovane, magra, con lunghi capelli castani che le coprivano in parte il volto. E anche lei fissava il monitor con due occhi scuri e pieni di terrore, ma al tempo stesso determinati e forti.<br />L'inquadratura si allargò: Nicolas era prigioniero di Mary nella gabbia.<br /> <br />7.<br />Edith si mise qualcosa addosso. uscì come una furia dalla porta, dimenticandosi del grande avvocato e della doccia.<br />Scese due piani a piedi, poi si ricordò che ne aveva altri dieci da fare e decise di prendere l'ascensore: invece di premere il tasto, si mise a bussare, poi a battere.<br />Finalmente l'ascensore arrivò: nello specchio una donna coi capelli bagnati, senza un filo di trucco, con occhi stravolti che si ripassava fissandosi nello specchio la sua scala di priorità.<br />E Nicolas stava al numero uno, anzi era tornato al numero uno.<br />Era così stravolta che pensò a quel bastardo di suo marito solo quando si mise in macchina, dentro quella che per mezzo anno era stata la station wagon di famiglia.<br />Lo ammazzo, lo faccio ammazzare, pensava.<br />Ma poi dentro agli occhi di Edith tornarono, fissi e pieni di terrore, gli occhi di quella donna, della donna che in quel momento stringeva con mani rapaci Nicolas.<br />Edith guidava a scatti; il motore si spense un paio di volte.<br />La strada era vuota.<br />Sembrava che Svellenburg si fosse fermata, che tutta la gente la stesse a guardare da dietro le serrande o davanti alla tv, guardasse andare quella auto verso il Reality Human Zoo, verso una battaglia.<br />Sembrava che tutta Svellenburg stesse trattenendo il fiato.<br /> <br />8.<br />- fantastico! ora sì che sono VERAMENTE nella merda!<br />cosa fare adesso. mio figlio in diretta nazionale nella gabbia dell'attrazione principale del REALITY HUMAN ZOO. dovrebbero cancellare quella seconda parola. qua non c'è più nulla di umano. sicuramente la mia dolce ex-moglie ora starà fissando lo schermo del televisore. sicuro come l'oro. l'avrà avvertita quell'arpia dell'ex-suocera. qui siamo tutti ex. ex-mogli, ex-mariti, ex-suocere. ex-esseri-umani. siamo delle sottospecie di iene. altro che cazzi. la mia adorabile ex-suocera avrà chiamato la dolce figlia. quella se ne sta tutto il giorno davanti al televisore. ora la dolce ex-moglie starà fissando quel cazzo di schermo. è la mia fine. tra poco mi saranno addosso tutti. giornalisti. telecamere. gente curiosa. meglio godermi tutto questo. diventerò famoso. in qualche modo. forse non il migliore. ma avrò i miei cinque minuti di attenzione. sarò il padre snaturato del ragazzino rapito. anche se qui non ho ancora capito chi abbia rapito chi. un goccio mi aiuterà ad affrontare la situazione. anzi. intanto che ci sono saluto in camera. mamma e papà. ex-suocera ed ex-moglie. saluto tutti.<br />- lei è il padre del ragazzino?<br />ecco gli sciacalli. sorridi Ryan.<br />- legalmente sì.<br /> <br />9.<br />Nicolas osservava tutta quella confusione senza capire bene cosa fosse successo.<br />Tutto era endato esattamente secondo le sue fantasie.<br />Beh, non proprio tutto.<br />Ad esempio non aveva dovuto tirare suo padre perché si sbrigasse con i biglietti, per il semplice fatto che suo padre non c'era.<br />Nicolas aveva deciso che non c'era alcun motivo valido che lo costringesse ad aspettare fino a Sabato. Sapeva la strada e aveva da parte abbastanza soldi per l'autobus e il biglietto. Gli sarebbe rimasto anche qualche spicciolo per comprare le patatine da tirare al vecchio della gabbia 5.<br />Così adesso era lì. Proprio dove avrebbe voluto essere.<br />E non capiva il motivo di tutta quell'agitazione.<br />Quando vide il volto di suo padre quasi sorrise.<br />Adesso si che era proprio tutto uguale.<br /> <br />10.<br />Edith arrivò nel grande parcheggio subito fuori lo zoo.<br /><br />Si proiettò fuori dalla macchina.<br /><br />La station wagon rimase con lo sportello aperto e un cazzo di fischio continuo stava a significare che la chiave era rimasta nel quadro.<br /><br />Edith stava correndo, su un paio di pantofole con ricami cinesi, viola, col tallone che strusciava sull'asfalto.<br /><br />E coi talloni sanguinanti arrivò al cancello: nessuna divisa, nessun programma, nessun buono per il ristorante messicano.<br /><br />Anzi, qualcuno le aprì un portoncino in mezzo alla cancellata.<br /><br />Edith fece in tempo a guardare una scritta, rossa in campo nero.<br /><br />Una scritta inequivocabile: Lasciate ogni speranza, o voi ch'entrate.<br /><br /><br /><br />11.<br />"EHI..! STAI UN PO' ATTENTA! Ci ho messo due ore a raccoglierle tutte!!"<br /><br />Quella donna gli era quasi franata addosso, ma era riuscita a non cadere e aveva proseguito la corsa, come fosse passata attraverso un fantasma.<br />Per fortuna Eron era un tipo paziente e senza lasciarsi scomporre si chinò per raccogliere di nuovo tutte quelle cartacce.<br /><br />"Che cazzo avrà da correre poi..In ciabatte. Cazzo, era in ciabatte..! La gente è strana.."<br /><br />Riempito di nuovo il sacco lo chiuse e se lo caricò sulla spalla. Si accese una sigaretta e fece per incamminarsi verso il gabbiotto.<br /><br />"Ma..come mai tutta quella gente..là c'è..cazzo, la gabbia di... Ma che diavolo.."<br /><br />Collezionando mezze frasi si ritrovò davanti alla gabbia di Mary..<br />Ma quello che vedeva era solo confusione. Si alzò sulle punte dei piedi.<br />Niente.<br /><br />"Quello è mio figlio! Tiratelo fuori!"<br />Eron si girò. Quella donna strillava come una posseduta.<br /><br />"La signora in ciabatte. Ecco cosa aveva da correre. Ma.."<br /><br />Eron fece un rapido calcolo mentale.<br />Donna che corre. In ciabatte.<br />Donna che corre, in ciabatte e strilla.<br /><br />Merda.<br /><br />"Permesso, permesso cazzo!!! Sono il guaradiano! Lasciatemi passare!"<br /><br />Quando finalmente riuscì a trovarsi davanti alle sbarre si fermò di colpo, come colto da paresi. Gli occhi spalancati e l'espressione intronata.<br /><br />"Oh merda..Nicolas.."<br /> <br />12.<br />"Così mi fai male!"<br />Mary sembrò non sentirlo. Le cose non stavano andando come aveva pensato. Non che avesse qualcosa di preciso in mente, ma sicuramente non si aspettava di ritrovarsi in diretta nazionale con una squadra d'assalto pronta a intervenire.<br />Quando aveva visto quel bel bambino bussare alla sua gabbia si era accostata al vetro.<br />Lo aveva accarezzato, maledicendo quella lastra fredda e dura. Gli aveva ricordato il suo Michael, in un giorno d'inverno, bussare alla finestra fregandosi le mani in quei minuscoli guanti. Con una nuvoletta di vapore bianco che accompagnava ogni parola.<br />"Sbrigati, mamma, fammi entrare", gli aveva detto allora.<br />E lei aveva obbedito. Lo aveva fatto entrare. E la stessa cosa aveva fatto qui e ora.<br />"Ti ho detto che mi stai facendo male!"<br />"Oh, Michael, scusami", gli disse, prima di allentare la presa.<br /> <br />13.<br />Buonasera, signore e signori, qui è Rufus Lloyd che vi parla dal Reality Human Zoo di Svellenberg.<br />Voi siete su Canale 9 e questa è Live, la trasmissione che va sulla notizia.<br />Stiamo assistendo in questo momento ad un evento terribile, signori spettatori.<br />Mary, una donna di razza caucasica di trenta anni, attrazione principale dello zoo, ha rapito e portato nella sua gabbia Nicolas, un bambino di sei anni.<br />Vedete inquadrata ora la madre del piccolo Nicolas, questa inconsapevole vittima della cattiveria e dell'odio di questa belva rinchiusa nella sua gabbia di dolore.<br />La madre, Edith Kramer, una segretaria di trentadue anni, è stata prontamente avvertita dalla polizia centrale di Svellenburg ed è stata accompagnata sin qui dalla squadra volante.<br />Eccola, è una maschera di dolore.<br />Pochi minuti fa, il commissario Walker, comandante della polizia di Svellenburg, ci ha dichiarato che reparti speciale delle teste di cuoio sono già in arrivo e sono pronte ad intervenire.<br />'Non sarà un bagno di sangue, i nostri uomini sono altamente esperti', ha dichiarato Walker.<br />A voi studio, richiederemo la linea non appena ci saranno novità.<br />Un saluto da Live, la trasmissione che va sulla notizia, Rufus Lloyd, Canale 9, Svellenburg.<br /> <br />14.<br />- quindi lei è il pad.. scusate ecco la madre! signora! signora! siamo di canale6! la prego signora!<br />ecco qua. il mio momento di notorietà è andato. con il microfono. e le telecamere. e le luci. eccomi ancora qui in disparte. messo in un angolo per l'ennesima volta. sempre lei. "sono incinta. non avevi detto che ti sapevi controllare? idiota". nell'angolo dei cattivi. faccia al muro. sempre lei. "è finita. me ne vado". da solo. sempre lei. lei e la sua teatralità. 'Non sarà un bagno di sangue, i nostri uomini sono altamente esperti'. bene. anche i corpi speciali. sono un tassello inutile. sbattuto come uno straccio. "ancora ubriaco! fai schifo! vattene!". lei e i suoi comandi. potrei sedermi e guardare lo spettacolo. le tute nere. i lacrimogeni. i flash-bang. l'irruzione. Mary a terra e Nicolas salvo. potrei. al diavolo.<br />- ehi Eron! ehi!<br />nonostante il casino che regna sovrano riesco a comunicare con lui.<br />- che c'è?<br />mi accorgo che dopo tre anni è la prima volta che parliamo<br />- dammi le chiavi<br />è quasi surreale la scena. è quasi buffo tutto questo.<br />- cosa vuoi fare? sei pazzo?<br />se non fosse che<br />- quello è mio figlio. dammi le chiavi.<br /> <br />15.<br />La confusione intorno alla gabbia stava diventando insopportabile. Tutta la gente, i flash dei giornalisti, ma soprattutto le urla di quella donna le facevano scoppiare la testa... Mary chiuse gli occhi per un istante, e si rese conto che aveva iniziato a tremare.<br />Doveva cercare di stare calma. Doveva assolutamente stare calma. Sapeva bene infatti, che quando - per qualche motivo - si innervosiva le succedeva un fatto strano. Era come se perdesse conoscenza... e in quei momenti faceva la 'cosa'. Quella cosa che l'avevano portata lì, dentro la gabbia.<br />Il pensiero la innervosì ulteriormente.<br />Mentre cercava di fermare il tremolio della sua mano, un grido iniziò a sfuggire dalla sua bocca.<br />E tutto il pubblico - come d'incanto - si azzittì.<br /> <br />16.<br />Ebbe per un attimo il dubbio di averne spenta una da poco. Nel dubbio, appunto, se ne accese un'altra. Distese le gambe sul divano scostando con il piede una pila di vecchi giornali. Poi ruttò. Illuminato in viso dal colore blu dello schermo, strinse gli occhi espirando. Il capo leggermente inclinato verso la spalla dava la sensazione che stesse aspettando qualcosa, con aria di sfida. In realtà si stava solamente lasciando andare, staccando uno ad uno gli interruttori di ogni minimamente significativa attività cerebrale. Sulle spalle la solita giornata cominciata male e finita peggio, passata a gironzolare per bar e ritrovi per gente come lui. "Devo avere un angelo custode da qualche parte...ehi! non mi rompere i coglioni...se ti trovo ti apro in due...". "Vediamo cosa siete capaci di fare!" sfidava i passanti capitati per caso nel bel mezzo del suo ring immaginario. Ottava ripresa, tre secondi al gong. E cadeva. Ubriaco. Lo riportarono a casa, come sempre, i soliti amici con cui divideva le giornate. Lo lasciarono cadere sul divano che erano da poco passate le due del pomeriggio. Si risvegliò dopo qualche ora. Un pacchetto di sigarette quasi pieno in terra, una scatola di fiammiferi. Rotolò in posizione eretta. Tre passi avanti per prendere una birra sul tavolo, due a destra per accendere il piccolo televisore. tre passi indietro per lasciarsi ricadere sul divano. Il telegiornale iniziato da poco stava parlando della situazione internazionale. Seguire il notiziario, in condizioni di lucidità, lo faceva sentire comunque rispettabile. Gli dava l'impressione che quella esistenza fino ad allora fallimentare fosse comunque l'esistenza di una persona sfortunata, forse, maldestra, probabile, ma comunque una persona in qualche modo affidabile, attenta a ciò che le succedeva intorno, interessata e cosciente. Con anche una dozzina di idee politiche mica male, che prima o poi ne avrebbe parlato con qualcuno che conta, per vedere cosa si poteva fare...<br />Seguire il notiziario con addosso i postumi di una sbronza era un esercizio di equilibrio mentale e fisico, la lingua all'angolo della bocca, scarsissime possibilità di riuscita.<br />Cronaca. Ultimi aggiornamenti sul caso del bimbo intrappolato nella gabbia del Reality Human Zoo...<br />Corrucciò la fronte. Raddrizzo la testa in un goffo tentativo di mostrare attenzione.<br />Notò i capezzoli della giornalista inviata sul luogo. Si grattò la pancia con la mano sinistra.<br />Poi l'inquadratura passò sul bambino, seduto in terra, e su quella donna.<br />"Ehi, vuoi vedere che è quella che ha visto Morten ieri l'altro mentre cagava davanti a tutti? Aha...che schifo...merda...te lo trovo io un bel lavoretto se non sai cosa fare...ma guarda che...ma...quella è...o cazzo...". In un attimo era sveglio. E incredibilmente sobrio.<br />"Mary!!"<br /> <br />17.<br />L'immagine del Tg lo ricatapultò, senza pietà, a tanti anni prima. A quando lui e Mary percorrevano il medesimo sentiero.<br />A quando uno sguardo bastava loro per capirsi.<br />A notti trascorse a mangiare, parlare, far l'amore...<br />A lui bastava guardarla per sentirsi felice, per capire che per lei si sarebbe buttato nel fuoco.<br />La osservava addormentata, mollemente distesa in un letto senza futuro.<br />Ora, la voce del cronista sullo sfondo, il suo pacchetto di sigarette quasi pieno, i mille pensieri che si agitavano nella mente, sgomitando come passeggeri scomodi di una metropolitana.<br />E poi quell'urlo, agghiacciante. La voce di Mary, disperata.<br />Lui la conosceva, quel grido straziante aveva cambiato per sempre la sua vita.<br /> <br />18.<br />L’hai sentito cantare il vento freddo di dicembre<br />quando ti diceva quali occhi guardare?<br /><br />Le hai viste planare le nuvole di neve di gennaio<br />quando quello che avevi dentro l’hai chiamato tesoro?<br /><br />L’hai visto febbraio vestito da speranza<br />dirti quante poesie possono starci in un cuore?<br /><br />L’hai sentito l’odore della rugiada di marzo<br />quando un bacio, una primula, una primula, un bacio…<br /><br />L’hai sentito come scalda il sole di aprile<br />se lo lasci arrivare dove deve arrivare?<br /><br />L’hai visto maggio (è banale) riempirti di rose<br />il giardino e di rosa il tramonto?<br /><br />E giugno, un alito caldo<br />a cercare un respiro, silenzio, parole<br /><br />E luglio è arrivato e il concerto è finito<br />e rimane soltanto, enorme, il rimpianto<br />dell’incendio di brividi, che eravamo noi due<br /><br /><br />'Cazzo, Mary, il cervello non me lo sono bruciato del tutto; quella cavolo di poesia me la ricordo. Ti avevo scritto pure una cavolo di poesia, Mary.<br /><br />L'incendio di brividi, ecco cos'eri.'<br /><br />Pensava queste cose, mentre il grido straziante continuava a rimbalzare contro le pareti del suo cervello.<br /><br />'Dov'è che ci siamo incontrati. Come si chiamava quella rossa, con quegli occhi da cagna in calore, quella che ci ha presentato, dopo quel concerto. Tu stavi col batterista: era più scoppiato lui allora di quanto lo sono io adesso.'<br /><br />Spense una sigaretta mezza iniziata.<br />Con le mani che continuavano a tremare se ne accese un'altra.<br />'Cazzo, l'ultima.'<br />Quando era finita tra loro, era uscito di scena con la frase più banale del mondo, 'scendo a prendere le sigarette'.<br /><br />Non ricordava più cosa fosse successo dopo, se fosse passato a riprendere le sue cose, dove avesse vissuto per un tempo che gli sembrava a volte un giorno, a volte settimane.<br /><br />E come quando era andato via, anche stavolta pensò che usciva di casa per andare a comprarsi un altro pacchetto.<br /><br /><br /><br />19.<br />Che era stato lui ad andarsene se lo ricordava. Il grand'uomo con le braccia muscolose e i pettorali ben in vista. Quello che non aveva paura di nulla. Quello che la stringeva forte al primo gong del temporale.<br />Quello che non aveva reagito quando lei gli aveva detto: "Non lo farò una terza volta. Questo sarà il mio bambino".<br />Quello che aveva guardato, da quel giorno, la sua vita sgretolarsi. Solo guardato, come se fossero diventati giorni di qualcun altro.<br />Il suo terrore aveva spento l'incendio che erano stati.<br />Qualche anno dopo l'aveva chiamata.<br />Voleva spiegarle, cercava il suo perdono. Per se stesso, non che avesse intenzione di tornare.<br />Lei lo aveva ascoltato in silenzio. Non aveva detto una parola.<br />Solo, quando stava per riattaccare, aveva sentito un suono cupo, profondo.<br />Aveva riavvicinato la cornetta all'orecchio proprio mentre quel suono si trasformava in un grido.<br />Lo aveva assorbito, tutto.<br />Quel grido che aveva annegato il suo futuro adesso era diventato la sua guida.<br /> <br />20.<br />Nicolas era seduto per terra con le ginocchia sotto il mento. Nicolas guardava quella signora che gridava. Non gridava come gridano in genere i grandi. Non come gridava in genere la mamma quando era arrabbiata e diceva cose come “Ma si può sapere che hai combinato in questa stanza?” e faceva gli occhi cattivi. Non era così. Quella signora era strana. Gridava come quei bambini che piangono quando la mamma li lascia in classe il primo giorno di scuola. Come faceva Marcella certe mattine di pioggia, per esempio. Quando continuava a urlare e non riprendeva neanche fiato e neanche sentiva la maestra. E la maestra le diceva: “Marcellina, se fai così finirai per far piangere anche noi”. E infatti un po’ di voglia di piangere veniva. Saliva su per la gola, si arrestava sulle labbra, indecisa se andare avanti o tornare indietro.<br />Fuori dalla gabbia di vetro Nicolas aveva cercato gli occhi di quella signora. Era uno sguardo che conosceva: pesce rosso nella sua boccia. Pomeriggi interi a fissare il globo di vetro immaginando come dovesse essere guardare le cose da lì dentro. E quando metteva il dito indice sul vetro il pesce si avvicinava, lui spostava il dito e il pesce lo seguiva. Perché lui sapeva parlare con tutti gli animali. Anche con i criceti, anche con il coniglio nano. Lui sapeva sempre cos’è che volevano. Frugò nelle tasche, tirò fuori una Big Babol. L’ultima. “Vuoi?” domandò tendendola alla signora col palmo aperto della mano.<br /> <br />Allungò la mano.<br />Esitò un istante, giusto il tempo di guardare Nicolas negli occhi.<br />"Una Big Babol non si rifiuta mai.."<br />Gli sorrise, rassicurata da una presenza che non poteva nuocerle.<br />Se ne stavano in piedi, con le mani intrecciate. Guardavano la bolgia che li circondava e scoppiavano palloncini in faccia ai curiosi. Come se per un attimo quel dentro fosse diventato il fuori. Come se fossero loro a guardare, osservare straniti il fenomeno in gabbia: telecamere, giornalisti, curiosi, mamma e papà.<br />In fondo era quello che volevano tutti e due. Allontanarsi da quella gente, isolarsi.<br />"Devo farlo, se voglio sopravvivere.."<br />"Con te, voglio stare con te..Tu mi basti. Tu sei diversa da tutti "i grandi" che conosco.."<br />Uniti quei due potevano mettere il mondo tra parentesi.<br /><br />L'aveva guardata per mesi, appiccicato a quel vetro.<br />Suo padre aveva cercato di spiegargli che allo zoo c'erano anche altre attrazioni.<br />Niente da fare. Lui finiva sempre lì, appiccicato a quel vetro.<br />"Ti porterò via, un giorno o l'altro".<br />Glielo aveva promesso. Ogni giorno. Per mesi.<br /><br />Lui voleva tirare fuori lei.<br />Lei voleva di tirare dentro lui.<br /><br />"Andremo via, insieme.."<br />"Resterà qui con me, e io non sarò più uno spettacolo da baraccone.."<br />Due anime in fuga, dal mondo.<br /><br />Lo stava tenendo in ostaggio. Ecco cosa stava facendo.<br />Non lo avrebbe lasciato uscire.<br />Lui era l'unico capace di sedare le sue grida.<br />Di riconciliarla con se stessa e con il ricordo del suo bambino.<br />Perché lui non aveva bisogno delle sue grida.<br />Ma la gente fuori..la gente fuori sì.<br />Quelle grida disperate che avevano il potere di annullare la loro disperazione.<br />Campi magnetici, empatia, suggestione.<br />Gli avevano dato mille nomi. Ma teorie e pubblicazioni avevano solo ingrassato le tasche degli esperti. Nessuna risposta.<br />In fondo la risposta non interessava a nessuno.<br />Interessava soltanto che davanti a quella gabbia ogni dolore spariva.<br />Bastava impaurirla, infastidirla, provocarla.<br />Il meccanismo era sempre lo stesso. Un brivido, un tremolio, prima alle mani e poi su, fino al cervello. Il respiro le si fermava in gola e per farlo uscire, il suo corpo iniziava a gridare, in preda ai ricordi, in preda alla rabbia e alla consapevolezza di non avere vie d'uscita.<br />E quei "maledetti bastardi", come li chiamava lei, che stavano lì fuori ad assistere allo spettacolo, come fedeli da santuario in attesa di un miracolo, prendevano la loro dose di salvezza e tornavano a casa sollevati.<br />Aveva inconsapevolmente risolto il male del secolo.<br />"Il dolore degli altri impallidisce di fronte al mio. Semplicemente..si annulla.."<br />L'avessero chiesta a lei la risposta.<br /> <br />21.<br />Vedete, il problema non è salvare un ragazzino oppure una donna in una gabbia che gridando pone un caso di interesse scientifico.<br />A me importa solo che la gente segua questa storia senza badare più a quello che succede nella vita reale.<br />Gli eventi ci pongono sempre davanti a qualcosa che può essere un problema od un'opportunità. In tutti i corsi di business administration t'insegnano proprio questo: devi trasformare tutto in opportunità.<br />Questo è un caso mediaticamente importante. La gente è a casa davanti alla televisione, proprio come gli abbiamo insegnato a fare. La congiuntura economica è disastrosa, i leader che abbiamo dato in pasto al popolo, dei figuranti per carità, sono evidentemente degli inetti.<br />Ecco che allora entro in campo io: lo spin doctor. Quello che crea la realtà mediatica: la versione ufficiale ed anche le altre.<br />La mia strategia prevede infatti che il leader dell'opposizione, anche lui è dei nostri ovviamente, rilasci una dichiarazione che faccia montare il caso. E deve dire esattamente quello che ho scritto in questo documento.<br /><br />Ho una parte per tutti, ma devo parlare subito con il ragazzino ed i suoi familiari. Non si può far star zitta quella pazza, intanto?<br />Dite ai giornalisti di attendere le mie direttive.<br /> <br />22.<br />Ora ho le chiavi. Il buon Eron si merita una bella bottiglia quando tutto questo sarà finito. Se e come finirà lo vedremo poi. Per ora ho le chiavi. Scivolo tra le persone che continuano ad accalcarsi. Perché siano tutti qua non l'ho mai capito. Non hanno nulla di meglio da fare? Forse no. Forse aspettano solo questo. Aspettano la probabile tragedia per poi piangere. come se fosse morta la loro madre o il loro figlio. Aspettano la probabile tragedia per fasi riprendere con i fiori. con le lacrime. con le loro parole vuote. Come avviene sempre. Come avviene sempre. Aspettano la lieta conclusione per applaudire. Emozionarsi. Piangere. Comunque vogliono piangere. Per fortuna questa confusione farà da paravento. Devo muovermi. Prima della polizia. prima dei corpi speciali. prima della fine della partita. Veloce Ryan. Veloce. Tanto ci pensano gli altri a tenere tutti occupati. Affascinati. Presi. Mary con il suo urlo. Nicolas con la sua tranquillità. Edith con le sue scenate isteriche. Mi devo sbrigare. Sono solo una comparsa. Scivolo nella zona riservata. "Accesso riservato agli addetti del Reality Human Zoo". Cerco la chiave. La trovo. Apro. Richiudo la porta dietro di me. tre mandate. click. click. click. Mi appoggio alla porta. prendo la bottiglia. la apro. Solo un sorso. devo fare in fretta. veloce. Guardo le targhette sulle porte che portano alle gabbie. Jack. l'ubriacone. Mike. il paraplegico. Jason e Morten. gli omosessuali. Mandy. la tossica. Mary. eccola. l'attrazione principale del Reality Human Zoo. basta trovare la chiave. eccola. apro la pesante porta. la richiudo e la blocco. ben bene. "Non aprire. Zona ad esposizione pubblica". In culo al non aprire. In culo alla zona pubblica.<br />- Canale 6 seguirà passo passo le trattive con l'aiuto della pol... ma attenzione! Scusate, attenzione! C'è una terza persona nella gabbia. Ma chi è?<br />- Ciao Nicolas. Ciao Mary.<br />- Papà!<br /> <br />23.<br />'Quel cazzo di batterista c'aveva il braccio destro con tatuato uno di quei serpenti aztechi con quei nomi impossibili. Io, se fossi stato Mary, c'avrei scopato solo a luci spente; come cazzo si fa a non pensare che quel cavolo di serpente non si stacchi dalla pelle e non ti strangoli'.<br /><br />Aveva superato il tabaccaio e anche il distributore automatico nella piazza quadrata, di fronte ai giardini. 'Vent'anni fa 'sto quartiere lo chiamavano città-giardino, per quattro panchine e due scivoli; il cesso di Svellenburg, anzi no, lo scannatoio, il bucatoio lo dovrebbero chiamare'.<br />Furono gli ultimi pensieri lucidi; macchine non ne aveva o se l'aveva non si ricordava dove diavolo poteva stare.<br /><br />La strada per lo zoo non la conosceva, ma fu tutto fin troppo facile.<br />Quattro bambini con le bici, vecchie bici da cross anni settanta, gli passarono accanto; dove altro potevano andare?<br />Gridò qualcosa e loro si fermarono; a quello con la bici più grande fece vedere qualcosa che c'aveva in tasca, fumo forse.<br />Il contratto verbale fu chiuso in un lampo.<br />Lui pedalava in bilico, come un ciclista in salita e il bambino stava sulla sella con le gambe penzoloni.<br />Cazzo, quanto era difficile stare in equilibrio.<br />24.<br />“Ci conosciamo?”, gli disse Mary interrompendo il suo urlo.<br />“Beh, in un certo senso. Io so chi sei” rispose Ryan.<br />“Penso che in tanti lo sappiano, ormai”<br />“…”<br />“…”<br />“Lui è mio figlio”<br />“Oh, penso che ti sbagli. Lui è mio figlio”<br />“…”<br />“…”<br />“Se non lo lasci andare ti spareranno. Non sono ammesse insubordinazioni all’interno dello Human Zoo. Le attrazioni che danno segni di squilibrio vengono abbattute”<br />“Ma io sono un essere umano. Non possono spararmi”<br />“Ti sbagli. Le regole sono chiare. Avresti dovuto leggerle prima di firmare il contratto”<br />“E tu cosa ne sai?”<br />“E’ il mio lavoro. Io sono il ragioniere. Li archivio tutti io, i contratti. E prima li controllo”<br />“…”<br />“…”<br />“Voglio andarmene da qui. Voglio rivedere mio figlio. Quello vero”<br />“Questo non è possibile. Il contratto non prevede nessuna clausola rescissoria. L’unico motivo valido di rinuncia prima della scadenza naturale deriva dalla morte dell’attrazione”<br />“Se muoio non lo rivedo, mio figlio”<br />“Mi dispiace. Il contratto è inoppugnabile, lo so per certo. C’è una giurisprudenza alta un chilometro”<br />“…”<br />“…”<br />“E se non ci fosse più nessun contratto?”<br /> <br />25.<br />Buonasera, signore e signori, qui è ancora Rufus Lloyd che vi parla dal Reality Human Zoo di Svellenberg.<br />Voi siete su Canale 9 e questa è Live, la trasmissione che va sulla notizia.<br />Ricapitoliamo la situazione: Mary l'attrazione principale dello zoo, ha rapito e portato nella sua gabbia Nicolas, un bambino di sei anni.<br />Il padre del bimbo, Ryan Nimitz, appositamente autorizzato dal commissario Walker, è entrato nella gabbia e sta cercando di ammansire la belva umana.<br />In questo momento sta parlando con Mary; inquadriamo ora il bambino, Nicolas, di cui ovviamente non diremo il cognome, trattandosi di un minore.<br />Guardatelo, vittima di una triste storia di separazioni e litigi tra suo padre, che risulta essere il ragioniere dello zoo e la madre che, pare abbia abbandonato la famiglia, pare dopo una depressione.<br /><br />Ci è arrivata ora la notizia che il vescovo Brandt ha inizato una veglia di preghiera per Nicolas, dopo aver comunque stigmatizzato il crollo dei valori familiari.<br /><br />A voi studio, richiederemo la linea non appena ci saranno novità.<br />Un saluto da Live, la trasmissione che va sulla notizia, Rufus Lloyd, Canale 9, Svellenburg.<br /> <br />26.<br />Teneva la busta stretta tra le mani. Da qualche minuto, ormai. Un tempo sufficiente a macchiarne di sudore i bordi. La sventolò un po’, come se fosse preoccupato che le secrezioni del suo corpo potessero cancellarne il contenuto.<br />Quando aveva ricevuto l’ordine aveva pensato di aver sentito male.<br />Balle.<br />Aveva solo sperato, di aver sentito male.<br />In realtà sapeva dall’inizio come sarebbe finita.<br />Quando chiamavano loro, la sua squadra, finiva sempre a quel modo.<br />Stavolta però aveva sperato in qualcosa di diverso. Tutta quella gente, tutte quelle televisioni. Una volta, se non altro, quelli sciacalli servivano ad impedire le sue azioni.<br />Era stanco.<br />Aveva discusso, per quanto possibile.<br />Cioè quasi niente.<br />E aveva chiesto che glielo mettessero per iscritto. Giocandosi la carriera.<br />Inspirò. Espirò. Inspirò.<br />Chiamò con voce tonante il suo miglior cecchino.<br />“Preparati a sparare”, gli disse.<br /> <br />27.<br />Nicolas iniziava ad avere un po' sonno. Ma tutta quella gente, intorno, tutte quelle luci e la confusione non lo lasciavano dormire. Sbadigliò e cercò di trovare una posizione più comoda, su quel pavimento così duro.<br /><br />"Cantami una canzone."<br /><br />"Come?"<br /><br />"Sì, una canzone. Per farmi dormire. Non proprio una ninna nanna, per quelle sono grande. Ma le canzoni mi piacciono, mi fanno dormire."<br /><br />"Io non ne so di canzoni. Mi pare."<br /><br />"Uff. Ho sete."<br /><br />"Bevi."<br /><br />"Quest'acqua fa schifo, preferivo l'aranciata."<br /><br />"L'aranciata non c'è. Però magari poi la chiediamo ai quei signori lì fuori. Adesso aspetta che sto pensando se mi viene in mente una canzone..."<br /><br />"..."<br /><br />"..."<br /><br />"Mary."<br /><br />"Sì?"<br /><br />"Su quel tetto lì c'è un signore con un fucile."<br /> <br />28.<br />“Bang! Bang! Vieni fuori che ti sparo!”<br />Correva con le mani a fucile mirando a un nemico invisibile quando qualcuno lo chiamò.<br />”Basta giocare, forza, è ora di cena!”<br />“Uffa!” sbuffò il bambino “non ho fame”.<br />”Siediti qui, avanti, ti ho preparato le patatine fritte”<br />Sophie cercò Disney Channel e andò al frigorifero per prendere della maionese.<br />Edizione straordinaria, novità dal Reality Human Zoo, le forze speciali sono pronte ad intervenire. Sono già parecchie ore che Nicolas viene trattenuto in ostaggio da Mary la famosa attrazione.<br />Sophie sentì correrle un brivido lungo la schiena, cazzo, cazzo.<br />La paura le tolse il respiro, corse in soggiorno e strappò con mani tremanti il telecomando dalle mani del bambino.<br />“Quante volte ti ho detto che non devi mai cambiare canale?? Quante volte????” gridò.<br />Sudava freddo, l’agitazione le incattivì lo sguardo : “Portati la cena in camera tua!”<br />Il bambino cominciò a piangere e Sophie si sentì morire dentro.<br />“Scusami amore, zia è tanto stanca, ho avuto una brutta giornata. Ti raggiungo fra un attimo e giochiamo ai soldati. Va bene tesoro?”<br />Appena il bambino fu fuori riaccese il televisore, appena in tempo per vedere Mary con quel ragazzino e il cecchino….dio mio Mary….che stai facendo….Mary….<br />Pubblicità.<br />Sophie si coprì il volto con le mani e si accasciò sul divano. Che cosa doveva fare? Che cosa poteva fare? I pensieri le si aggrovigliavano nel cervello, non riusciva a pensare. Proteggerlo. Doveva proteggere il bambino.<br />Si riavviò i capelli, si alzò e indossò un sorriso. Bussò alla porta. "Hey Michael, campione!" "Dove sei?" "Fatti sotto!"<br />Il bambino sbucò da dietro la porta con gli occhi ancora rossi e le mani a fucile:”Bang!Bang!” “Morta”.<br /> <br />29.<br />Il cecchino vide Mary tirare il bambino vicino a se. Doveva essersi accorta di qualcosa. La vide parlare con Nicolas e vide il bambino indicare dalla sua parte. Lei lo girò istintivamente dritto verso la canna del suo fucile di precisione. Questo poteva essere un problema. Ma non necessariamente. Aveva centrato bersagli in condizioni peggiori. Aveva anche ucciso innocenti in condizioni simili, a dire il vero. Ma faceva parte dei rischi del suo mestiere. Lui era il migliore, ma nessuno era infallibile.<br />Intanto, dalla parte opposta rispetto alla sua postazione, un pazzo su una bmx piombò tra la folla che riuscì a stento ad aprirsi per fargli largo. Andava zigzagando, veloce, come se avesse perso il controllo, dritto verso la gabbia. Freni rotti, probabilmente. Sempre che quella bicicletta da bambino li avesse mai avuti, i freni.<br />Il cecchino non poteva vederlo. Il cecchino aveva Mary nel mirino. Il cecchino stava per fare il suo lavoro. Aspettava solo l’ordine definitivo.<br />Fu allora che Mary lasciò andare il bambino. Allargò le braccia e lo spinse via. Anche quando il bambino fu lontano tenne le braccia larghe, distese, all’altezza delle spalle.<br />In quel momento l’ordine arrivò. Distintamente, in cuffia, la parola fuoco gli bruciò nelle orecchie.<br />Il cecchino sparò.<br />E colpì in pieno il ciclista che, in quel preciso istante, aveva finito la sua corsa andando a sbattere contro la spessa gabbia di vetro.<br /> <br />30.<br />Quando Ryan sentì lo sparo aveva appena infilato la chiave nella pesante porta. Si irrigidì, lo sguardo fisso sull’avviso “Non aprire. Zona ad esposizione pubblica”. Fu tentato di tornare indietro. Nessuno avrebbe potuto fargliene una colpa. Nessuno sapeva che era lì.<br />“Cazzate”, si disse.<br />Si appoggiò alla porta accostando l’orecchio. Dentro c’era un silenzio irreale, quell’attimo di silenzio che segue una tragedia, appena prima dello scatenarsi del putiferio.<br />Era preoccupato per Nicolas, ma aveva la sensazione che tutto fosse a posto. Che non gli fosse successo nulla. Ne era certo.<br />Prese la bottiglia. La aprì e ne bevve un sorso. Solo un sorso.<br />Girò veloce la chiave nella pesante porta ed entrò.<br /> <br />31.<br />Buonasera, signore e signori, qui è Rufus Lloyd che vi parla dal Reality Human Zoo di Svellenberg.<br />Voi siete su Canale 9 e questa è Live, la trasmissione che va sulla notizia.<br />Ci sono delle evoluzioni clamorose nel caso dell’attrazione impazzita.<br />Poco fa un colpo di fucile indirizzato verso la gabbia ha ucciso un uomo che si trovava per sbaglio sulla traiettoria. Tutt’intorno a noi ormai è il caos assoluto.<br />Il portavoce delle squadre speciali ha escluso che il colpo sia partito da uno dei cecchini appostati sulle colline ai lati della gabbia.<br />“Nessuno ha dato l’ordine di sparare”, sono state le esatte parole del comandante in capo, generale Jack D. Ripper, raggiunto da un nostro inviato.<br />Ma… attenzione… attenzione…<br />Di nuovo quell’uomo! C’è di nuovo un terzo uomo nella gabbia! E sembra che abbia un documento con se! Ma…cosa sta facendo?L’uomo sta tenendo il documento bene in vista. Sembra che voglia essere sicuro che tutti vedano cosa ha in mano prima di…brucia!L’uomo a dato fuoco al documento. Guardate che ghigno, signori telespettatori. Si tratta sicuramente di un folle. O di un ubriacone.<br />A questo punto pensiamo sia il caso di tenere la linea per portarvi in diretta ulteriori spettacolari sviluppi. Regia? Regia? Ah, peccato. Mi dicono che c’è stato di nuovo un attentato in Italia. Si, d’accordo. Come volete.<br /> A voi studio, richiederemo la linea non appena ci saranno novità.<br />Un saluto da Live, la trasmissione che va sulla notizia, Rufus Lloyd, Canale 9, Svellenburg.<br />Ma andate a cagare, pensò Rufus Lloyd, che razza di sfiga. ‘sti terroristi del cazzo m’han rovinato la diretta.<br /> <br />32.<br />Il sangue del ciclista formava una stella sulla gabbia di vetro.<br />Mary si mise a guardare quella faccia.<br />Aveva una specie di sorriso; sì, dietro a una barba di una settimana, quel viso aveva una specie di sorriso.<br />Di colpo il sangue di Mary si gelò.<br />In un lampo rivide il tatuaggio del batterista, la rossa, Diandra, si chiamava la rossa che li aveva presentati. Di colpo rivide un foglio, no, una di quelle buste marroncine di carta per le verdure, con quelle parole sopra.<br /><br />E lo rivide e lo rivisse, l'inferno di brividi.<br /><br />Era lui.<br /><br />Si girò verso Nicolas.<br />"Chi sei? Tu non sei mio figlio".<br /><br />Il bimbo sembrava l'unico a non avere paura; la faccia di Ryan era quella di un diavolo salito in terra, sadica e divertita, rossa del riflesso del fuoco.<br /><br />Per terra, tra i fogli bruciacchiati, si leggeva ancora qualche lettera: "CONT".<br /><br />Mary capì di essere libera.<br /> <br />33.<br />- Cazzo, e adesso cosa facciamo?<br /> <br />- Mmmmhh...<br /> <br />- Quello stronzo di contabile ci ha rovinati! Senza la nostra attrazione andremo a rotoli!<br /> <br />- Mmmmhh<br /><br />- Mi piaci quando hai quella faccia. Hai in mente qualcosa.<br /><br />- No, è che.<br /><br />- Che?<br /><br />- No, è che pensavo.<br /><br />- ?<br /><br />- No, niente, pensavo che non abbiamo mai avuto un bambino, nello zoo. Voglio dire, cioè, il pubblico è maturo, ormai. Per una scelta di impatto, dico. Oltretutto il soggetto è gia lì. Logisticamente sarebbe a bassissimo costo.<br /><br />- Non so, sei sicuro? Mi pare un po' eccessivo. Anche per noi.<br /><br />- Ma lasciare la gabbia vuota... In termini di immagine, cioè. Ci abbiamo lavorato, su questo progetto. Ci abbiamo creduto. E poi l’hai detto tu, senza Mary rischiamo la bancarotta.<br /><br />- Sì, ma il contratto... credi che lo firmerebbe?<br /><br />- Il contratto, il contratto. Non avrebbe comunque valore legale, firmato da un minorenne.<br /><br />- In effetti. Ma i genitori? Non vorranno...<br /><br />- Mah, lui, sai. L'avrebbe qui, vicino, proprio dove lavora. Lo vedrebbe molto più di prima. Solo da esser contento, avrebbe. E poi ci sono quelle irregolarità, nelle fatture... non gliele abbiamo mai fatte presente, ma...<br /><br />- Hmm. Ma anche ammesso che lui non fosse un problema, la madre, lei non vorrà.<br /><br />- La madre... E chi la conosce, quella? È una qualunque, una casalinga come milioni.... Nessuno sa chi sia, la sua faccia l'han già dimenticata. Chi vuoi che ci faccia caso?<br /><br />- Beh...<br /><br /><br /><br />- Quel cecchino, non è già andato a casa, vero?<br /> <br />34.<br />Ryan si prese qualche giorno per riordinare i propri pensieri. Erano state giornate difficili e le cose non erano andate proprio come si era immaginato. Comunque lui la sua parte l’aveva fatta. Aveva salvato il suo bambino. Adesso toccava alla polizia scoprire cosa era successo dopo. Finora parlavano tutti di un incidente, un colpo partito per sbaglio.<br />Ryan si era chiesto più volte cosa avesse provato in quel momento. Aveva cercato di analizzare i suoi sentimenti. Ma la realtà era molto più semplice. La realtà era che ormai la sua ex-moglie era solo un’estranea, come tutti gli altri. E di estranei ne muoiono tutti i giorni. Forse per quello non aveva provato nulla vedendola cadere.<br />Per Nicolas era stato diverso. Per lui era stato un vero shock. Vedere morire sua madre dopo tutto quello che aveva passato lo aveva trasformato. L’aveva guardata, la bocca spalancata, immobile. Poi, pian piano, si era avvicinato all’albero più alto e aveva cominciato ad arrampicarsi.<br />Ogni tentativo per farlo scendere era stato inutile. Anche Mary aveva provato a parlargli, prima di andarsene. Lui non l'aveva nemmeno guardata.<br />I responsabili dello Zoo avevano preso subito la palla al balzo. Lo avevano avvicinato con il contratto già pronto, solo da firmare. Con un tempismo che adesso a Ryan sembrava leggermente sospetto. Ma in quel momento non ci aveva fatto caso. Aveva guardato Nicholas appollaiato sul ramo più alto della gabbia. Aveva guardato la sua ex-moglie sdraiata in un lago di sangue. Aveva concordato che quella sarebbe stata la soluzione migliore. E aveva firmato.<br />“Beh, è ora di tornare al lavoro”, si disse Ryan.<br />Prese la giacca e il sacchetto della colazione per suo figlio e uscì.<br /> <br />35. <br />Mary aveva guidato per quasi cinquecento miglia, quattro caffè e due soste fisiologiche prima di riconoscere finalmente il quartiere dove era nata. Aveva ripercorso quella strada senza nessuna cartina, seguendo soltanto l’istinto, come un salmone che risale la corrente per tornare esattamente al punto dove tutto aveva avuto inizio, per dare origine a una nuova vita.<br />Rivedeva il suo quartiere dopo tanti anni ma non lo trovò molto cambiato.<br />Le case erano ancora basse e i giardini ben curati. Il parco dove andava tutti i pomeriggi si intravedeva quasi alla fine della strada.<br />La casa che era stata dei suoi genitori appena più avanti.<br />Si fermò a guardarla, con il leggero borbottio del motore acceso in sottofondo.<br />Il momento era arrivato. Tutto quello che era successo era successo soltanto per rendere possibile quell’istante.<br />Quando vide Sophie uscire con due grosse valige un brivido la attraversò andando ad atterrare sul suo piede destro. La macchina fece un paio di ruggiti ma nessuno se ne accorse. Sua sorella non sollevò nemmeno lo sguardo.<br />Michael uscì subito dopo.<br />Era bellissimo. Era cresciuto tanto ma, guardando meglio, Mary vide che stringeva al petto la ruspa che gli aveva regalato tanti anni fa.<br />Sorrise.<br />Di colpo si sentì esausta.<br />E, proprio come un salmone alla fine del suo viaggio, morì sorridendo, sapendo che una nuova vita avrebbe avuto inizio.<br /> <br /> <br />36.<br />Era passata una settimana, dalla liberazione di Mary dallo zoo. E da allora, Sophie non aveva fatto altro che guidare, fermandosi una sola notte in ogni motel dello stato. A Michael aveva raccontato che avrebbero fatto un bel viaggio, che lo avrebbe finalmente portato a vedere l'oceano, quell'oceano che lui, finora, aveva visto soltanto in fotografia. E per quel bimbo, la distesa blu sembrava un richiamo irresistibile. Non parlava d'altro. I suoi disegni avevano sempre per scenario delle grosse onde, persone che si tenevano per mano e guardavano l'orizzonte. Una vera ossessione.<br />Sophie aveva riempito alla rinfusa due grandi valigie, dicendo a suo nipote di raccogliere i suoi giochi preferiti e di portarli con sé. Mike ubbidì entusiasta, anche se con un fondo di stupore e di ansia. Percepiva la paura di Sophie. Come gli animali, anche i bambini sentono le vibrazioni intorno a loro. Lui, poi, era dotato di una intelligenza accesa e vivace. Ma era così stanco di restare sempre in casa, che non si fece ripetere due volte le direttive. Così stanco. I suoi pianti disperati non erano serviti a nulla. Non poteva uscire, mai. Non possedeva una bicicletta come quelli della sua età, non aveva mai giocato al parco con gli altri del quartiere, non era mai stato allo zoo, al cinema, non aveva fatto niente di niente. La grande finestra con vista sulla collina era poco più del buco nel muro di una prigione. E sognava l'oceano. Non aveva mai visto nulla, ma l'oceano gli appariva tutte le notti, immancabile, puntuale, poco dopo aver chiuso gli occhi. Non sapeva perché.<br />Sophie guidava, guidava, guidava, improvvisando il percorso giorno per giorno. Il paesaggio intorno a loro cambiava di continuo. Voleva allontanarsi il più possibile, la sua unica missione era salvare Mike. Il suo unico scopo. La promessa fatta a sua sorella qualche anno prima doveva essere mantenuta a qualunque costo. "Proteggi mio figlio da me. Qualunque cosa succeda. È tutto quello che ti chiedo. So che è molto, ma tu mi devi molto. Ti prego."<br /> <br />Poi, per caso, mentre mangiavano un hamburger in un squallido McDonald’s, gli cadde l’occhio sulla prima pagina di un vecchio giornale di una settimana prima. E capì che finalmente avrebbe potuto fermarsi.<br /> <br /> <br />Epilogo<br />Michael si sfilò il ricevitore dall’orecchio destro. Sentiva un fischio fastidioso alternarsi alla voce gracchiante della guida. Guardò sua moglie e i suoi figli, pochi passi avanti a lui. In tutto il gruppo di visitatori sembrava che nessuno avesse problemi con l’auricolare. Camminavano attenti voltandosi a sinistra o a destra simultaneamente, a seconda delle attrazioni descritte in quel momento.<br />Si fermò per guardare l’apparecchio. Sembrava integro. Lo scosse un po’ e lo rimise al suo posto. Adesso non sentiva più neanche la voce della guida. Quando risollevò lo sguardo il gruppo era lontano.<br />“Poco male, li raggiungerò all’uscita”, pensò.<br />Vide una panchina a pochi passi da lui.<br />Si guardò intorno.<br />In basso, dentro alle classiche gabbie di plexiglas, vide un signore che aveva più o meno la sua età fissarlo intensamente.<br />“Chissà perché il percorso non passa da lì”, si chiese Michael.<br />Ormai aveva una certa età ma era riuscito a proteggere un minimo di quella curiosità che non aveva potuto sfogare da bambino.<br />Scese lentamente, avvicinandosi alla targhetta identificativa per capire che tipo di attrazione fosse. Quando fu abbastanza vicino da riuscire a leggerla capì il motivo di tanta indifferenza da parte del percorso ufficiale. Aveva davanti un’attrazione ormai in disuso, inutile. Una di quelle che vengono tenute in gabbia su richiesta volontaria.<br />Il primo bambino del Reality Human Zoo di Svellenburg era cresciuto e ormai non interessava più a nessuno.<br /> <br />Nicolas appoggiò la mano alla barriera di plexiglas.<br />Michael fece altrettanto, dalla sua parte.stefanopz + laralidiahttp://www.blogger.com/profile/15249029335247491670noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9052045044980251020.post-74918321298179401682012-01-25T15:41:00.003-08:002012-01-25T15:41:59.707-08:00IL GENERO<br /><br />Ho sempre avuto le fossette sulle guance. Una delle due è più profonda. Ora come ora non saprei dire se è la destra o la sinistra, perché io, come tutti, le mie guance le guardo allo specchio.<br /><br />Ma stamattina mi stavo lavando i denti. In camera da letto Toni e Margherita stavano litigando; io mi lavavo i denti distratta: Toni aveva detto, l’avevo sentito distintamente, aveva detto ‘vaffanculo’. A sei anni già ‘vaffanculo’. Sulla guancia, la fossetta più profonda non era più una fossetta; era una ruga.<br /><br />Ho fatto trentacinque anni a agosto e non dovrei preoccuparmi. E invece è uscito un urlo. Panico puro.<br /><br />Toni e Margherita sono stati cinque secondi zitti. Cinque secondi che mi sono sembrati un secolo.<br /><br />Una goccia gelata di sudore sotto il pigiama, dalla spalla è arrivata giù fino al fondo della schiena.<br /><br />Simone non c’è; stanotte hanno arrestato Benito Martino, che è cliente di mio padre da vent’anni. "Uno dei clienti di punta" aveva scherzato papà a tavola a Natale due anni fa; la mattina della vigilia avevano arrestato Benito Martino con una ventiquattr’ore piena di pasticche, e papà si era perso la cena della vigilia per un interrogatorio.<br /><br />Papà ha chiamato Simone alle sei e mezza stamattina; l’interrogatorio è a Rebibbia alle nove e sono partiti presto; io e i bambini dormivamo ancora.<br /><br />Simone non ha fatto il minimo rumore; si sarà vestito in bagno. Non mi ha salutato con un bacio sulla fronte; qualche volta l’aveva fatto.<br /><br />Mi sono svegliata e non c’era, semplicemente.<br /><br />Non era colpa dello spazzolino. La ruga c’è davvero; sembra profonda, sembra quasi una cicatrice.<br /><br />**<br /><br />Sono vent’anni che io e Simone stiamo insieme; due mesi fa siamo andati a cena fuori per festeggiare vent’anni dal primo bacio. Erano due anni che non mangiavamo da soli, io e lui; siamo andati in un ristorante di pesce, poco fuori città. Io ero la prima volta che ci andavo; Simone, invece, chiamava per nome i camerieri e loro lo chiamavano, con deferenza, avvocato.<br /><br />Il proprietario si è seduto un quarto d’ora al tavolo. Hanno parlato di vini, poi di un assessore un po’ chiacchierato. Io ho provato tutti e tre i tipi di pane farciti, alle noci, alle olive e il terzo, non me lo ricordo; mi sono riempita di pane e non sono riuscita a toccare l’orata.<br /><br />Andando a casa, lui ha passato il tempo a sistemare la temperatura dell’aria in macchina, quasi in maniera nervosa, 20 gradi per lui e 22 per me. Nel silenzio ho sorriso pensando al fatto che io sono sempre stata la freddolosa di famiglia.<br /><br />Io e Simone stiamo insieme dal quinto ginnasio.<br /><br />Betta, la mia migliore amica, dice che è impossibile nominare uno dei due senza aggiungerci subito il nome dell’altro; nessuno ha mai detto Simone e basta, ma Simone e Milena, Milena e Simone, da più di vent’anni ormai.<br /><br />Ci siamo diplomati lo stesso giorno; del resto lui di cognome fa Ranieri e io Russo e quindi eravamo uno dopo l’altro nell’elenco alfabetico della classe.<br /><br />Abbiamo fatto giurisprudenza insieme; ci sembrava naturale. Già allora papà era uno dei più noti penalisti della città. Ovviamente abbiamo fatto tutti gli esami insieme; ci siamo laureati lo stesso giorno, in diritto penale. Io la lode e lui no; per la verità ho passato sei mesi ad aspettarlo perché ha avuto qualche problema con diritto commerciale.<br /><br />Abbiamo cominciato a fare pratica da papà; ci siamo abilitati insieme; abbiamo giurato da avvocati lo stesso giorno, prima lui, perché ci fecero giurare in ordine alfabetico.<br /><br />Siamo sposati da otto anni; Antonio, Toni, ha sei anni, l’ho già detto, Margherita tre.<br /><br />Sono i nomi di papà e di mamma. Simone ha insistito tanto perché li chiamassimo così.<br /><br />***<br /><br />Quando esco dal bagno trovo Margherita in lacrime. Toni è spietato: "se l’è fatta sotto".<br /><br />Il letto di Margherita è bagnato. "Non fa niente, piccola" cerco di consolarla. "Tu" faccio a Toni "vai al bagno a lavarti; e poi vestiti che è tardi".<br /><br />Margherita mi abbraccia; quando mi abbraccia sembra avere una forza spropositata rispetto al corpicino tutto pelle e ossa che si ritrova.<br /><br />Dire che è attaccata a me è limitante. Ogni mattina che provo ad andare a lavorare urla; riesce già a tre anni a inventarsi malattie psicosomatiche per fare in modo che io non la porti da mamma. Da una quindicina di giorni sembra andare un po’ meglio. Dopo le vacanze di Natale voglio provare a portarla alla materna.<br /><br />"Io non voio il pannolino" dice tirando su con il naso.<br /><br />"Lo so che sei grande ormai, stellina" le sorrido.<br /><br />"Vuoi metterti la gonna stamattina?"le propongo.<br /><br />"Quella cozzese" ora sorride.<br /><br />Le prendo dal cassetto una gonna scozzese rossa con le pieghe. Non se la toglierebbe mai. Quando la metto in lavatrice sembra Linus con la coperta, non riesco a convincerla che la gonna uscirà intatta da lì dentro.<br /><br />"Mamma sei superbella" lo dice con occhi quasi sognanti. Ha voluto i capelli tagliati come i miei e spesso ho visto che imita i miei gesti: accavalla le gambe tutte le volte che si siede sul divano dopo aver passato le mani sulla gonna come per lisciarla, esattamente come faccio io.<br /><br />Dopo che le ho messo la gonna, una calzamaglia bianca e un maglione rosso che sembra un’anticipazione del Natale mi guarda e mi dice: "Oggi da nonna no" e mi accarezza; anzi non mi accarezza, ma segue dall’inizio alla fine, per tutta la guancia, l’incisione profonda di quella fossetta che si è fatta ruga.<br /><br />****<br /><br />Ho portato lo stesso Margherita da mamma; ha pianto e alla fine le ho messo Gli Aristogatti e ha cominciato a calmarsi quando Edgar girava per Parigi con la motoretta smarmittata.<br /><br />Sono andata verso lo studio; in Tribunale non ci vado quasi mai, vado la mattina in studio e curo tutte le pratiche di civile che abbiamo, poche per la verità.<br /><br />Poi a discuterle in udienza ci va Simone o uno dei praticanti; un paio di volte che ci sono andata, mentre aspettavo il mio turno per la discussione ha chiamato mamma perché uno dei bimbi stava male o qualcosa del genere e ho finito per lasciare l’udienza scoperta. Simone mi dice che quando anche Margherita sarà andata alle elementari sarà più semplice e potrò tornare a lavorare, se non proprio a tempo pieno, almeno per un paio di pomeriggi alla settimana. ‘Sei troppo importante per i bimbi. Sono piccoli e hanno troppo bisogno della mamma’ mi dice spesso ed è ovvio che è vero.<br /><br />Anche stamattina dovrei preparare una comparsa conclusionale per una pratica di anatocismo di un piccolo imprenditore che papà difende da un’accusa, fondata per la verità, di sfruttamento della prostituzione.<br /><br />Da un paio d’anni papà e Simone hanno trasferito lo studio in un palazzo nuovo, pieno di studi legali; papà ha comprato lo studio e l’ha intestato a me e Simone, dice che lo studio è il nostro e quindi non aveva senso che se l’intestasse lui; io ho una stanzetta piccola di fronte a quella di Franca, la storica segretaria di papà, accanto alla sala d’attesa.<br /><br />Simone e papà hanno due grandi stanze in fondo; si sono fatti fare i mobili su misura da un vecchio falegname che andava lentissimo ma che alla fine ha fatto un piccolo capolavoro. Hanno gli stucchi veneziani al soffitto e due scrivanie uguali, classiche, di noce, pesanti, che danno un immediato senso di solidità e serietà.<br /><br />Mi fermo sotto lo studio; ho fortuna e trovo subito un posto senza fare i tre o quattro classici giri dell’isolato.<br /><br />Ho una bella borsa di pelle, nera e lucidissima, un regalo di Simone, con dentro la pratica della conclusionale. Avevo provato a portarla a casa ieri sera, per lavorarci un po’ col portatile, ma è stato impossibile. Margherita avrà impiegato un’ora e un quarto per cenare.<br /><br />La versione di Spiderman di Michael Bublé è a metà e non ho voglia di scendere dalla macchina prima che finisca; Micheal Bublé mi piace, anche se Betta dice che è l’idolo delle quarantenni e quindi è un sintomo di un mio invecchiamento precoce. Me l’ha detto l’altro ieri, mi sembra e mi ci sono fatta una risata.<br /><br />Stamattina chiudo gli occhi ma Spiderman non mi appare; li riapro e guardo nello specchietto, ma non per vedere se per caso mi sono sbaffata il rossetto.<br /><br />La ruga sta lì, profonda e feroce, e Micheal Bublé canta con la sua voce da Sinatra dei poveri a una donna di quarant’anni, che non ha il coraggio di scendere dalla macchina.<br /><br />****<br /><br />Spengo il cd. Comincia a piovere, un’acquerugiola quasi invisibile. Tra la macchina e il portone del palazzo dove sta lo studio c’è un bar; è nuovo nuovo, i cornetti sono surgelati e al bancone ci sta un’ucraina a cui bisogna sempre ripetere l’ordinazione due volte. Potrei prendere un cappuccino, penso, o addirittura una cioccolata calda.<br /><br />Sono paralizzata.<br /><br />Ho trentacinque anni e potrei tranquillamente scomparire. Adesso. Toni e Margherita ne soffrirebbero, certo, poi magari con il tempo. Simone si riprenderebbe subito, ha la sua scrivania di noce, nei ristoranti lo chiamano avvocato, a me mi chiamano signora, la moglie dell’avvocato.<br /><br />Lo studio andrebbe avanti, senza problemi; le pratiche di civile, per quelle basta un praticante un po’ sopra la media, oppure potrebbero darle a qualcuno dei colleghi che fanno civile e che quando si presenta da loro qualcuno con qualche problema di penale, un abuso edilizio, un figlio fermato con una dose, fanno il nome di papà. O di Simone. Di papà o di Simone. Mai il mio.<br /><br />Vorrei tornare da Margherita; c’è il pezzo in cui Minou cade nel fiume che la spaventa sempre. Quando vediamo insieme il dvd, lei mi stringe la mano forte.<br /><br />Ecco, se sparissi Margherita ne soffrirebbe di certo. Toni no, Toni è come il padre, è destinato a una scrivania di noce.<br /><br />*****<br /><br />Una settimana fa.<br /><br />Sono convinta che una settimana fa la fossetta non era ancora diventata una ruga.<br /><br />Siamo andati io e Simone, insieme nell’altro Tribunale della provincia, per un processo per truffa.<br /><br />In quella cittadina c’è un dietologo, uno di quelli che dicono ti faccia dimagrire togliendo qualche alimento. Questione di intolleranze. Ho approfittato del fatto che Simone aveva il processo per andare; mi scoccia guidare in autostrada.<br /><br />Alle nove Simone mi ha lasciato davanti allo studio del dietologo. Nello studio non c’è nessuno, io sono la prima.<br /><br />Entro, il dottore mi visita, una visita generale e mi dice: "Signora dopo due gravidanze è normale che i tessuti si rilassino un po’; in fondo lei ha solo un po’ di depositi adiposi sui fianchi. Ma vedrà..." E poi mi ha detto di non mangiare latte, latticini e derivati del latte per un mese e poi tornare da lui. Sono le nove e mezza; non mi aspettavo di fare così presto.<br /><br />Il corso principale era quasi vuoto; i negozi sono i soliti franchising e quindi i vestiti, le scarpe, i cappotti esposti, mi sembrava di averli visti milioni di volte.<br /><br />Sono entrata in un bar e ho deciso di dire addio al latte e ai suoi derivati con un maritozzo alla panna e un cappuccino chiaro.<br /><br />Si era messo a piovere anche quella mattina, così ho deciso di andare in Tribunale per vedere a che punto era Simone.<br /><br />L’aula penale era quasi piena, ma il collegio non c’era; mi sono messa a cercare Simone.<br /><br />Alla fine l’ho visto di spalle, la toga appoggiata sul braccio. La toga di papà.<br /><br />Sta parlando con il PM; anche se saranno sette anni che non andavo in quel Tribunale, ho riconosciuto il PM, un volto noto per un processo per l’omicidio di un ragazzino di tredici anni da parte di una banda di balordi.<br /><br />Il PM sta ridendo, sta con le mani giunte; mi sembra di interpretare il labiale, ‘avvocato, ma che sta dicendo?’, ma il tono sembra canzonatorio, confidenziale.<br /><br />Io ero tra il pubblico e stavo per superare la sbarra, quando mi hanno urtato due ragazze, due praticanti sui venticinque anni.<br /><br />Si sono scusate e poi si sono fermate proprio al passaggio tra la parte riservata al pubblico e quella riservata agli avvocati.<br /><br />Stanno guardando verso Simone ed il PM.<br /><br />Una ha chiesto all’altra: "Ma chi è quello che sta parlando col PM?"<br /><br />"E’ Simone Ranieri, è il genero di Tonino Russo". Un attimo di silenzio, poi ha continuato con il tono più basso. "E’ uno di quelli che sulla carta d’identità al rigo della professione ci dovrebbe essere scritto genero".<br /><br />******<br /><br />Ora ho cominciato a piovere forte; anche i tre passi che mi separano dal marciapiede, che è al riparo di un balcone, mi ridurrebbero come un pulcino.<br /><br />Il vetro si è appannato; mi sono messa a pensare al silenzio di ghiaccio del viaggio di ritorno da quel Tribunale.<br /><br />Dentro la Mercedes classe E nuova di sei mesi il silenzio è stato rotto solo da due telefonate di papà; la macchina ha quel sistema di viva voce incorporato nella radio o come diavolo funziona.<br /><br />"Simone, come è andato il processo?"<br /><br />"La parte lesa non s’è presentata per testimoniare"<br /><br />E poi sono andati avanti così per due minuti, poi è caduta la linea; papà ha richiamato e si sono dati appuntamento alle quattro di pomeriggio a studio per una difesa di un ragazzino ricco che si era messo a spacciare coca.<br /><br />Manco ciao Milena; manco è venuta pure Milena, sta qui, la saluta.<br /><br />Prima e dopo quelle telefonate il silenzio.<br /><br />La pioggia assorbe tutti i rumori della città; forse il rumore della pioggia è solo un particolare tipo di silenzio.<br /><br />Sto piangendo; le lacrime mi colano sul viso, come l’acqua sul parabrezza.<br /><br />Vent’anni; anzi no vent’anni e due mesi.<br /><br />Che cosa sono io?<br /><br />La moglie dell’avvocato.<br /><br />Che cosa sono io?<br /><br />Una toga ripiegata sul braccio; cosa mangia avvocato stasera?; una scrivania in noce; stucchi veneziani; una Mercedes classe E, che ci puoi parlare al telefonino senza auricolare; ma sì chiamiamolo Antonio, come tuo padre; i bambini hanno bisogno di te; lui avvocato, io signora; due scrivanie in noce, uguali; hanno arrestato Benito Martino, il cliente di punta, l’interrogatorio alle nove e mezza; professione: genero.<br /><br />Certo di asciugarmi le lacrime, ma non le trovo più.<br /><br />Tutte le lacrime che ho pianto sono finite dentro la ruga, quella ruga nuova nuova che mi è spuntata sulla guancia.stefanopz + laralidiahttp://www.blogger.com/profile/15249029335247491670noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9052045044980251020.post-18097226883792490232012-01-25T15:41:00.001-08:002012-01-25T15:41:23.821-08:00FUORI DA UN BAR<br /><br /> <br /><br />La rividi dopo un mese.<br /><br />Avevo lasciato un libretto degli assegni e il passaporto in fondo a un cassetto, in camera da letto.<br /><br />Lei però me l’aveva messi sul tavolo della cucina, perché, probabilmente, era la prima stanza in cui si entrava dall’ingresso.<br /><br />Io avevo suonato e lei aveva aperto, poi era scappata, verso la stanza da letto, la più lontana.<br /><br />Un amico comune mi aveva avvertito e aveva preso accordi per me, il giorno e l’ora.<br /><br />Io l’avevo vista di spalle, con una tuta grigia e le ciabatte da piscina. Le maniche della tuta erano tirate giù a coprirle le mani.<br /><br />Quel gesto mi era familiare; lei aveva sempre freddo.<br /><br />Ero andato via un mese esatto prima, e il fatto che fossi lì a un mese esatto di distanza mi sembrò quasi un modo per festeggiare l’avvenimento.<br /><br />Ero andato via durante il giorno. Fumare, non ho mai fumato e la storia di andare in strada a comprare le sigarette per poi non risalire più, beh, quella non l’avrebbe bevuta.<br /><br />Era un giovedì. Io ero di riposo e lei invece era fuori Roma, per un corso di aggiornamento, forse a Chianciano, un posto così.<br /><br />Perciò ebbi tutta la giornata per sbaraccare. Presi due vecchie borse da ginnastica; in una c’entrarono tutti i vestiti; nell’altra cd e libri, l’accappatoio, il rasoio elettrico, scarpe e ciabatte.<br /><br /> <br /><br />Misi un po’ di roba, vecchi pigiami, una giacca a due bottoni, magliette lise, dentro buste di plastica e le buttai, senza tanto rimpianto.<br /><br />I mobili li avevamo comprati insieme, ma non me ne feci un cruccio. Stavano bene dentro quella casa piena di luce, quel divano panna, la cucina verde chiaro, il tavolino che pareva quasi di formica, come i banchi di scuola.<br /><br /> <br /><br />Un foglio, anzi, un post-it giallo. "Me ne vado. Non cercarmi".<br /><br />Faccio l’autista dell’Atac e quindi non ho un ufficio; mi sono fatto cambiare tutti i turni, le linee; ho fatto corse in periferie, in canyon di palazzoni lunghi chilometri. Non sapevo nemmeno che esistessero, quelle strade, quei quartieri.<br /><br />Il telefonino, quello l’ho buttato, insieme coi pigiami.<br /><br />Mi sono preso una stanza, in una pensione, in una traversa di via Cavour. Il bagno è in corridoio e non c’è manco un italiano. Meglio, così non parlo con nessuno.<br /><br /> <br /><br />Me ne sono andato. No, non era premeditato. E’ che quella mattina non mi andava di fare colazione a casa e ero andato giù al bar, latte macchiato e un cornetto duro e secco.<br /><br />Quando sono uscito sono andato a sbattere a due vecchi.<br /><br />Lui ci aveva quegli occhiali con la montatura pesante e una lente appannata; lei una crocchia in testa, che sembrava sporca di settimane.<br /><br />La fede scavava quasi l’anulare di lui; la busta di plastica la portava lei con due panini e due peperoni.<br /><br />I tre occhi che ero riuscito a vedere erano acquosi, morti, un passo oltre la rassegnazione.<br /><br /> <br /><br />Lei aveva la voce quasi rotta, dalla stanza da letto; disse il mio nome quando stavo aprendo la porta di casa.<br /><br />Era uguale, in fondo, era come me la ricordavo, come l’avevo conosciuta: due begli occhi celesti, anche se appesantiti dalla mia assenza, bassina ma ben disegnata. Le braccia conserte, le mani invisibili, sotto le maniche.<br /><br />Stava per aprire bocca. "Non dire niente, non capiresti", le dissi e chiusi la porta e scappai, prima che potesse fare qualcosa di clamoroso, che so, cercare di picchiarmi, urlarmi bastardo nella tromba delle scale.<br /><br />Non avrebbe capito, che avrei voluto per sempre ricordarla così, giovane, bella, un corpo ben fatto, gli occhi vivi e brillanti.<br /><br />Mai e poi mai saremmo diventati due vecchi, con gli occhi morti, una busta in mano, fuori da un bar.stefanopz + laralidiahttp://www.blogger.com/profile/15249029335247491670noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9052045044980251020.post-87781737171334649242012-01-25T15:40:00.003-08:002012-01-25T15:40:59.773-08:00CINGHIALONA<br /><br />"No, ti prego … Monica è una cinghialona; simpatica certo, però..."<br /><br />Monica stava dietro un angolo del corridoio del piano dell’albergo dove stavano i maschi.<br /><br />Nessun dubbio che la voce fosse quella di Massimo.<br /><br />E, nonostante ci fosse un’altra Monica sul pullman, una della sezione C, non ci poteva essere dubbio che Massimo si riferisse a lei.<br /><br />Sul pullman erano stati a parlare una mezzoretta.<br /><br />E poi erano stati sulla spalletta del traghetto a guardare le luci di Reggio tremolare nel mare; avevano fatto la traversata senza parlare. Solo guardare il mare e le due sponde; a Monica era sembrata la cosa più romantica che le era mai successa.<br /><br />E anche adesso guardava il mare, a mezzanotte, o forse l’una; l’albergo stava sul lungomare di Giardini Naxos e la sua era l’unica stanza che non dava su uno squallido cortile interno, ma si apriva sul mare.<br /><br />Era appoggiata sul davanzale; Marica e Diana, le sue due compagne di stanza, stavano nella stanza accanto, da dove arrivavano risate, a volte vere e proprie esplosioni di risate.<br /><br />Massimo le era sembrato sin dal quarto ginnasio un essere umano; nel senso, pensava Monica, che non era solo pallone, file Mp3 scaricati da internet, parolacce e sotterfugi per passare l’anno.<br /><br />Non era la questione che era bravo a scuola, quello le sembrava un particolare.<br /><br />Era Stendhal, era Dostoevskij, era Svevo, Joyce: erano quei classici che a Monica occupavano gran parte del tempo libero e che sembrava che non interessassero nessuno. Massimo sapeva chi era Julien Sorel, sapeva quanto aveva sofferto Raskolnikov, sapeva che lei aveva provato un brivido, un misto di terrore e intensità quando Gilbert di The dead dice che è ora di andare verso Occidente.<br /><br />Cinghialona.<br /><br />Allora, allora … Massimo era come tutti gli altri.<br /><br />Era una colpa essere uno e settantotto? E pesare … beh, pensava, lasciamo perdere. Ma, porca miseria, si diceva, se papà e mamma sembrano i protagonisti di quella sit-com americana, Pappa e ciccia, io che ci posso fare?<br /><br />Marica era sua amica; l’aveva guardata cambiarsi appena arrivate in camera. I jeans a vita bassa, un diavolo di tatuaggio etnico proprio alla fine della schiena; difetti ne aveva anche lei, ad esempio le gambe un po’ corte, rispetto al busto, ma certo nessuno l’avrebbe mai chiamata Cinghialona.<br /><br />Marica era come doveva essere una ragazza di diciott’anni: rideva quando non ce n’era bisogno, ma per fare gruppo; fumava se gli altri fumavano; ogni paio di mesi cambiava ragazzo, o i ragazzi cambiavano lei con un’altra. In fondo non era male, per un film la domenica pomeriggio, o per un pezzo di pizza; non era male anche quando la stava ad ascoltare e, anzi, le sembrava che, quando l’ascoltava e le rispondeva, lì, ci fosse una Marica diversa, quella vera, che sapeva parlare e tacere coi tempi giusti e a volte trovare anche le parole adatte.<br /><br />Nella tasca dietro dei pantaloni sentì il telefonino vibrare. Massimo, sperò, un sms.<br /><br />Era Marica: "Vieni qui da noi, dai!".<br /><br />Monica sorrise pensando che, se in mezzo al casino, alle cuscinate, alle birre e alle pomiciate, quella ragazza con le gambe un po’ corte e il tatuaggio, pensava a mandarle un sms, non era poi così male.<br /><br />Ma non le sembrava essere arrivato ancora il momento di smettere di guardare il mare.<br /><br />C’erano due lucette lontane.<br /><br />A Monica vennero in mente i lupini, i pescatori, Aci Trezza. Chissà cosa sarebbe venuto in mente a Massimo, vedendo quelle stesse lucette lontane; e un brivido, uno vero, le venne nell’attimo in cui si trovò a pensare a come sarebbe stato avere Massimo appoggiato al davanzale, lì vicino a lei.<br /><br />Era da tempo che non si sentiva nata per fumare, cantare in coro Vasco, andare in giro ore per scegliere un vestito o un reggiseno; come nel pullman non si sentiva da ultime file. Era salita quasi per prima, la mattina, ma si era seduta nel mezzo, perché sedersi nelle prime file l’avrebbe sicuramente fatta passare per la solita secchiona, agli occhi dei suoi compagni.<br /><br />Valeva la pena andare nella stanza accanto?<br /><br />Aveva senso guardare lo Ionio in una notte di inizio aprile, con mezza luna in fondo al cielo e pensare ai Malavoglia?<br /><br />Voleva una sensazione che sentisse più sua, un’emozione più vicina a tutto quel suo mondo di libri, di film, persino in bianco e nero, di sabati al teatro, di strane piccole perle che a troppe persone sembravano noiose o incomprensibili.<br /><br />Decise che essere una cinghialona non l’avrebbe cambiata, che in fondo Massimo non era così male e che magari qualche canzone di Vasco, prima o poi, l’avrebbe cantata.<br /><br />Ma soprattutto decise che quelle due lucette lontane con Verga non c’entravano niente.<br /><br />Erano due amici che se ne stavano su una barca, con la scusa della pesca, a guardare la luna.stefanopz + laralidiahttp://www.blogger.com/profile/15249029335247491670noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9052045044980251020.post-39789185309268782542012-01-25T15:40:00.001-08:002012-01-25T15:40:38.020-08:00Zia Dani è la più simpatica di tutti i fratelli e le sorelle di papà, anche se pure lei stamattina sembra indaffarata.<br /><br />La scorsa settimana in camera sua c’era un poster appeso al contrario.<br /><br />"Zia, perché l’hai appeso al contrario?" le avevo chiesto.<br /><br />"Altrimenti non lo notavi" mi aveva risposto. Era vero: era un poster come tanti, una ragazza ed un ragazzo in riva al mare in un tramonto rosso fuoco.<br /><br />Siamo a casa di nonno e è sabato mattina: Ho sette anni e mezzo; mio fratello, Dario, ne ha due più di me e ha imparato da qualche giorno a fare il fischio alla pecorara. Ogni tanto prova a farlo e zia Dani stranamente lo azzittisce. Mia cugina Paola sta seduta al tavolo con me e mio fratello; Guido, suo fratello, ha quasi sedici anni sta in piedi vicino alla finestra e ci guarda dall’alto in basso.<br /><br />Per terra, con delle costruzioni Lego, la mia sorellina di un anno e mezzo muove con fatica le manine, insieme con gli altri cuginetti più piccoli.<br /><br />Zia Dani si siede con noi.<br /><br />"Facciamo un gioco". Ha dei fogli bianchi e delle penne.<br /><br />Prende tre fogli e traccia una riga e mezzo cerchio in tutti e tre i fogli.<br /><br />"Questo è lo schizzo" dice "adesso ognuno di voi lo completa e chi fa il disegno più bello vince".<br /><br />Il gioco mi piace e io mi impegno. Disegno, con la punta della lingua che esce di lato alle labbra. So che non potrò vincere perché Dario disegna molto meglio di me.<br /><br />Paola nasconde con il braccio il suo foglio.<br /><br />Zia Dani guarda ora uno ora l’altro. I suoi occhi sono di un celeste quasi trasparente: sono uguali a quelli di papà e degli altri due fratelli, zio Nino e zia Gigliola; noi abbiamo tutti e tre preso gli occhi scuri di mamma; oggi però quel celeste ha qualche ombra.<br /><br />Ogni tanto mette le mani davanti agli occhi, si tira la radice del naso.<br /><br />"Finito!" mio fratello fa pure mezzo fischio.<br /><br />"Ok, allora, tempo scaduto" fa zia Dani.<br /><br />Dario ha fatto diventare lo schizzo un’enorme onda che sta per sommergere una barca a vela, perfetta in tutti i particolari. Paola ha fatto una macchina; io ho fatto diventare il mezzo cerchio il cuscino e ho disegnato un letto.<br /><br />"Vinceee ... Dario" fa zia Dani.<br /><br />"Sì" urla Dario. Zia Gigliola arrivando fa segno a Dario di non urlare; si ferma alle spalle di zia Dani, le mette una mano sulla spalla e zia Dani gliela prende. Si fanno un sorriso e un sospiro, ma poi gli occhi di zia Gigliola si fanno rossi.<br /><br />Zia Dani prende altri tre fogli fa un altro schizzo. Un angolo retto e una mano.<br /><br />Stavolta voglio vincere, anche se mia sorella piange e mi disturba, come quando voglio fare i compiti. Mamma arriva e si capisce che deve cambiarla.<br /><br />Per il secondo disegno mi impegno al massimo: disegno un bambino seduto a tavola che disegna sul foglio.<br /><br />"Vinceee ... Andrea" annuncia zia Dani. Esulto sbattendo i pugni sul petto, come ho visto fare a King Kong.<br /><br />Facciamo altri tre o quattro disegni e zia Dani ci fa vincere una volta tutti.<br /><br />Poi facciamo il gioco delle parole, quello dove c’è scritta solo l’iniziale e l’ultima lettera e ci sono i più per le consonanti e i meno per le vocali.<br /><br />Prima di azzeccarle spariamo delle parole inventate, soprattutto io.<br /><br />Ridiamo come matti: Paola si copre la bocca mentre ride, io e Dario siamo sguaiati; quando ridiamo così mamma dice che sembriamo dei gallinacci.<br /><br />Mi vengono le lacrime agli occhi dalle risate.<br /><br />Erano mesi che non mi divertivo così tanto, neanche con le macchinine, nemmeno con Oggi le comiche il sabato mattina.<br /><br />Poi torna zia Gigliola. "Dai Daniela, è ora".<br /><br />Zia Dani si alza. "Dai, zia, giochiamo ancora" piagnucola Paola.<br /><br />"No, bimbi, è ora di andare".<br /><br />I bambini più piccoli escono con mamma.<br /><br />In un angolo della stanza zia Dani e zia Gigliola si aiutano l’un l’altra a tirarsi su le cerniere sulla schiena. Hanno due abiti uguali, neri.<br /><br />Nessuno in questo momento sta facendo caso a me.<br /><br />Prendo il disegno del bambino che disegna, quello con cui ho vinto.<br /><br />Esco dalla stanza, c’è un corridoio, con una mattonella del pavimento rotta.<br /><br />Una porta di legno vecchia, dipinta di bianco, scrostata.<br /><br />E’ la camera di letto dei nonni.<br /><br />Sul letto, steso, c’è nonno, con gli occhi chiusi, le mani unite sul petto e un rosario tra le mani.<br /><br />Chissà perché sta steso sul letto col vestito nero, la camicia e la cravatta.stefanopz + laralidiahttp://www.blogger.com/profile/15249029335247491670noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9052045044980251020.post-75501749882875436102012-01-25T15:39:00.004-08:002012-01-25T15:40:11.308-08:00TORINO<br /><br />Chissà perché c’è tutta questa nebbia.<br />Eppure è l’inizio di maggio. Io e Romeo stiamo ai piedi della collina, in mezzo a un campo; ci sta quell’erba strana che sembra avere le spighe.<br />Gliele tiro addosso, le spighe. Due restano attaccate alla maglietta.<br />"Hai due fidanzate" rido.<br />"Vai al diavolo" mi dà uno spintone.<br /><br />Facciamo la quinta e ogni tanto di pomeriggio ce ne andiamo a giocare in questo campo. Agli indiani e ai cowboy, normalmente. A me piace fare l’indiano, soprattutto quando piove, perché mi piace prendere un po’ di fango e farmi due righe sotto gli occhi.<br />Oggi no. Oggi c’è questa nebbia strana, per essere maggio.<br />E’ mezzo pomeriggio e la nebbia attutisce i rumori.<br />Persino le formiche rosse non hanno voglia di uscire e se mi siedo sui sassi i pantaloncini non mi sporcano come al solito.<br />Quando torno con i pantaloncini sporchi, mamma si arrabbia, se non si deve arrabbiare con qualcun altro. Ho quattro fratelli, io sono l’ultimo e Renato, il primo, si deve sposare perché è successo qualcosa con la fidanzata, qualcosa che non mi vogliono dire.<br /><br />Romeo strappa pure lui qualche spiga; poi si schiaccia una zanzara sul braccio e la guardiamo muovere un’ultima volta le zampine.<br /><br /> <br /><br />Poi si sente un rumore, forte, di quelli che si sentivano quando scendevamo nei rifugi, cinque, sei anni fa, quando c’era la guerra.<br />Il rumore ora è fortissimo e molto vicino.<br />A un certo punto si sente un frastuono terrificante, un’esplosione e dal muro di nebbia arriva fumo.<br /><br />Io e Romeo ci siamo buttati per terra.<br />Stiamo un minuto, stesi, con il viso schiacciato sull’erba.<br />Ora c’è un silenzio infinito.<br /><br />Quando riusciamo a prendere un po’ di coraggio andiamo verso il fumo.<br />In mezzo alla nebbia cominciamo a vedere pezzi di lamiera, delle ruote, c’è fuoco dappertutto.<br /><br />A un certo punto Romeo inciampa in una cosa mezza bruciacchiata.<br />"Guarda!" urla.<br />E’ una borsa, di pelle. Doveva essere davvero bella.<br />La borsa è aperta.<br /><br />"Noooo!".<br />Sono io che urlo. Un urlo enorme, da uomo e non da bambino.<br /><br />Dentro la borsa, ancora perfettamente piegata, c’è una maglia, una di quelle dei calciatori.<br />Una maglia granata.stefanopz + laralidiahttp://www.blogger.com/profile/15249029335247491670noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9052045044980251020.post-78450571488161276642012-01-25T15:39:00.003-08:002012-01-25T15:39:43.137-08:00AMNESIA<br /><br />Quel rumore, come di strappo, che il treno fa quando entra in galleria a tutta velocità.<br /><br />Quel rumore lo svegliò. Si sentì la bocca impastata, gli occhi incastrati, un piede addormentato.<br /><br />Si guardò attorno e, quando il treno uscì dalla galleria, vide prati e qualche casa su una collina distante.<br /><br />Cercò di concentrarsi. Dopo una decina di secondi sentì una goccia di sudore gelato scendergli sul collo.<br /><br />Provò un impulso irrefrenabile di alzarsi e mettersi a gridare.<br /><br />Si era reso conto che non sapeva cosa ci stesse a fare su quel treno, dove stessero dondolando quei vagoni.<br /><br />Non sapeva niente. Non si ricordava nemmeno come si chiamava.<br /><br />Nello scompartimento c’erano solo una signora sulla settantina con i capelli bianchi, quasi viola, che leggeva Confidenze, e un tizio con i baffi e un riporto disordinato che dormiva, con gli occhiali da lettura a metà della fronte.<br /><br />Decise di correre in bagno.<br /><br />Mentre correva si guardava le mani, sperando che gli facessero venire in mente qualcosa.<br /><br />Quando entrò in bagno sentiva un odore acre di sudore; aveva già due aloni piuttosto estesi sulla camicia.<br /><br />Chiuse a chiave il bagno, chiuse gli occhi dieci secondi.<br /><br />Li riaprì.<br /><br />Non si riconobbe.<br /><br />Si sembrò un perfetto estraneo.<br /><br />Era ben vestito; o meglio, da asciutta la camicia doveva essere di fattura pregiata.<br /><br />Si lesse le iniziali ricamate: SDS.<br /><br />I pantaloni avevano ancora la piega quasi perfetta.<br /><br />Aveva i capelli che stavano tendendo al brizzolato; gli occhi, se non fossero stati quelli di un uomo sull’orlo della pazzia, erano di un bell’azzurro intenso.<br /><br />In un attimo di lucidità, si disse che quell’uomo che vedeva allo specchio gli faceva venire in mente l’espressione aspetto distinto.<br /><br />Cominciò a toccarsi; nella tasca posteriore dei pantaloni trovò il portafogli.<br /><br />Trovò la patente, ma ci trovò una versione dell’uomo allo specchio di almeno vent’anni prima, con riccioli neri e un’espressione singolarmente spavalda.<br /><br />Richiuse subito la patente.<br /><br />Aprì la carta di identità.<br /><br />Il nome del comune non gli disse nulla.<br /><br />Il suo nome, Salvatore Di Stefano, non gli disse nulla.<br /><br />La sua professione, avvocato.<br /><br />Anno di nascita, 1961.<br /><br />Queste due cose avrebbe potuto capirle anche un estraneo.<br /><br />Si guardò allo specchio.<br /><br />Lui era un estraneo.<br /><br />Sarà un’amnesia temporanea, si disse.<br /><br />Cercò di calmarsi, si lavò la faccia.<br /><br />Si tolse la camicia e con qualche salviettina e il sapone, il cui odore ricordava le corsie degli ospedali, cercò di lavarsi e togliersi di dosso la puzza di sudore.<br /><br />Stava per aprire la porta del bagno, quando vide la fede.<br /><br />Era sposato, quindi. Con fatica se la sfilò e lesse dentro: "Rossella 14 luglio 1992".<br /><br />Niente.<br /><br />Tornò al suo posto. Guardò fuori e gli sembrò di riconoscere il paesaggio: la campagna e le colline a nord di Roma.<br /><br />Ecco, questo gli sembrava giusto: era su un treno Firenze – Roma; l’orologio diceva che era da poco passata l’ora di pranzo. Gli venne in mente qualcosa, un nome: Fantini. Si alzò e dai ripiani sopra i sedili prese la borsa, la aprì.<br /><br />C’era una cartellina di un verde chiaro intenso; c’era scritto "Studio dell’avv. Salvatore Di Stefano – Civile, Penale, Amministrativo". E poi più sotto, con un pennarello blu: "Fantini Rosa / Comune di Empoli – TAR di Firenze".<br /><br />Sì, quella cosa se lo ricordava, una questione di espropri. La signora Fantini era la moglie di un farmacista, una signora con chili d’oro addosso e l’aria di chi si aspetta di essere servita e riverita.<br /><br />In borsa trovò il cellulare.<br /><br />Con qualche difficoltà riuscì a trovare la rubrica.<br /><br />Stava per chiamare il numero memorizzato con "Rossella", ma poi gli sembrò più naturale tornare un po’ più in alto.<br /><br />Fece il numero.<br /><br />Una voce di una donna non più giovane, ma ancora determinata e brillante, gli rispose: "Toto, come va?"<br /><br />"Bene, mamma, sono in treno". Furono le prime parole che si sentì dire da quando si era svegliato. La voce gli sembrava adattarsi bene a tutto il resto.<br /><br />"A Benedetta è scesa la febbre, con un po’ di Tachipirina. A proposito hanno riaperto l’autostrada verso le undici". Ecco perché il treno, pensò.<br /><br />"Ah davvero, bene". Poi entrarono in un’altra galleria e cadde la linea.<br /><br />Quando il treno uscì dalla galleria l’avvocato Di Stefano cominciò a tranquillizzarsi: chiudendo gli occhi cominciavano a delinearsi delle forme.<br /><br />Sua madre, con i capelli tagliati corti e gli stessi occhi celesti che aveva visto in bagno sulla sua faccia, una bambina di due – tre anni, un bambino più grande, forse sette o otto anni, con un braccio ingessato, una donna sulla quarantina che sembrava dire qualcosa del tipo Matteo non sta mai fermo.<br /><br />Poi gli apparve una stanza con una scrivania massiccia e degli armadi pieni di libri e riviste; poi, con una fitta di dolore, un uomo, abbastanza vecchio, con un pigiama leggero steso su un letto, con gli occhi chiusi.<br /><br />La fitta, per un attimo, passò. Poi, a mano a mano che le immagini di quella che doveva essere la sua vita gli correvano avanti, cominciò a sentire prima un sapore amaro in bocca, poi un fastidio fatto di noia e immobilità; poi, da qualche parte, sorse un senso di rancore, che si fece intenso, quasi insopportabile.<br /><br />Riuscì a dominarsi e non si mise a urlare, come tutte quelle sensazioni avrebbero preteso.<br /><br /> <br /><br />Riprese il portafogli dalla tasca.<br /><br />Aprì la patente. Guardò quel ragazzo di diciott’anni, con i riccioli neri e lo sguardo spavaldo.<br /><br />Quel ragazzo sembrava che sapesse quello che voleva.<br /><br />Decise che sarebbe ripartito da lì.stefanopz + laralidiahttp://www.blogger.com/profile/15249029335247491670noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9052045044980251020.post-63848336360120796752012-01-25T15:39:00.001-08:002012-01-25T15:39:13.141-08:00Il tempo che ho sprecato a cercare di fermare il tempo ora non so dove sia finito.<br />Cerco di farmene una ragione; ora che ho tolto tutti gli specchi in casa, non guardo più il mestesso invecchiare.<br />Capelli non ne ho più e per la barba, col rasoio elettrico, non ho bisogni di specchi: il posto dove radermi lo conosco bene. E' la mia faccia.<br /><br />Ho solo ricordi inutili.<br />Le cose importanti della vita, il primo incontro con Laura, il giorno del matrimonio, la nascita di Matteo, il primo giorno di scuola, la laurea di Matteo, il giorno in cui sono andato in pensione, sono giorni facili da ricordare.<br />Sono un 25 novembre, un 7 ottobre, un 14 febbraio, qua e là in giro per gli anni.<br /><br />Sono i ricordi inutili quelli che mi assalgono adesso, che di mestiere faccio il vecchio.<br /><br />Un giorno a vent'anni sulla spiaggia abbiamo fatto la pista per le palline, con le paraboliche alte un metro e mezzo e ci abbiamo fatto quindici giri. Io avevo Anquetil.<br /><br />Una mattina, tre anni fa, sono andato al solito bar dove faccio colazione e invece del cappuccino ho chiesto una Peroni. L'ho bevuta a stomaco vuoto, per vedere l'effetto che faceva. Nessuno.<br /><br />Stavamo disegnando a casa di Fernando, che abitava alla porta accanto e gli ruppi la gomma da cancellare, di quelle blu, che servivano per le macchine da scrivere. Lui diede la colpa a sua sorella, che pianse addirittura. Io non ho mai detto niente, ma dopo qualche mese Fernando ho smesso di frequentarlo.<br /><br />Al matrimonio di Rossana, mia nipote, c'era un ragazzo che a un certo punto, quasi allo scambio degli anelli, è uscito dalla chiesa, è andato vicino al campetto dell'oratorio, si è appoggiato alla porta e si è messo a piangere.<br /><br />Ora siamo qua, seduti su una poltrona, io e miei ricordi inutili, a passare senza pace il poco tempo che ho.<br /><br />In mano stringo una pallina di plastica. Anquetil.stefanopz + laralidiahttp://www.blogger.com/profile/15249029335247491670noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9052045044980251020.post-13738178104792035372012-01-25T15:38:00.003-08:002012-01-25T15:38:52.368-08:00LA MAMMA DI MANUEL<br /><br />"Signora, può venire per cortesia?". La maestra aveva l’aria un po’ scocciata.<br /><br />"Manuel sta piangendo, vero?"<br /><br />La maestra annuì con una smorfia.<br /><br />Nel lungo corridoio la mamma di Manuel iniziò a scuotere la testa. Non era possibile, ormai era l’ultimo giorno prima delle vacanze di Natale; non era possibile che Manuel piangesse ancora.<br /><br />Suo marito aveva ormai definitivamente addebitato le lacrime al fatto che Manuel era troppo piccolo per andare in prima, dato che era un anno avanti e di luglio.<br /><br />Ma di quelle maestre, anzi di quel ciclo, come dicevano le altre mamme, le avevano parlato troppo bene per poter aspettare un altro anno; certo, la Francesco De Sanctiis era una scuola pubblica, ma era in bel quartiere e, se aveva fatto bene i conti, erano solo tre i bambini di quella prima a non avere almeno un genitore laureato.<br /><br />La porta della Prima C era chiusa e la maestra, una signora sulla cinquantina con un po’ troppa ricrescita bianca nei capelli, aprì la porta.<br /><br />I bambini erano sparsi per la classe e la bidella stava semplicemente vigilando che nessuno si facesse male.<br /><br />Manuel stava con la testa sul banco, con la schiena che sussultava per i singhiozzi.<br /><br />"Manuel, c’è mamma"<br /><br />Manuel alzò la testa; le lacrime gli avevano impiastricciato il viso e le maniche del grembiule. "Mamma".<br /><br />La mamma di Manuel calcolò che era la quarta volta dall’inizio di dicembre che passava nella Prima C il primo quarto d’ora di lezione.<br /><br />‘Fortuna che non lavoro’ aveva pensato la mamma di Manuel la prima mattina che aveva dovuto consolare Manuel.<br /><br />E cominciava a pensare con terrore all’anno successivo, quando Giulia, che pareva ancora più timida e introversa di Manuel, sarebbe dovuta andare alla scuola materna.<br /><br />**<br /><br />In cinque minuti Manuel si calmò anche grazie alla certezza che la mamma sarebbe andata a riprenderlo prima rispetto al solito: alle undici e un quarto c’era infatti la recita di Natale, o qualcosa di simile.<br /><br />Uscendo, la mamma di Manuel fu colta da un momento di nervosismo perché aveva paura che la mamma di Leonardo se ne fosse andata: era in mezza parola per un salto dal parrucchiere e anche senza averne la certezza, aveva chiamato sua madre per tenere Giulia.<br /><br />Il nervosismo divenne quasi collera, quando non vide nessuno alla fine delle scale, dove di solito alcune mamme restavano a chiacchierare dopo aver portato i bimbi a scuola.<br /><br />Arrivò sul marciapiede e vide tre o quattro mamme a metà strada tra l’uscita della scuola e il bar.<br /><br />Anche senza mettersi gli occhiali, che chiudeva in borsa appena scesa dalla macchina, riconobbe i folti ricci rossi della mamma di Leonardo, moglie di un avvocato.<br /><br />Si avvicinò sperando che la prima domanda non fosse su Manuel e sulle sue lacrime.<br /><br />C’erano la mamma di Valentina, moglie di un medico, che ogni tanto aiutava il marito nello studio e la mamma di Francesco, che parlava per la metà del tempo della sua laurea in economia e commercio sacrificata a Francesco e a due gemelli di due anni, biondi come pulcini, che qualche sabato mattina apparivano in braccio al papà, che lavorava in un’azienda fuori città (e alla mamma di Manuel faceva un po’ specie che la sua statistica sui genitori laureati comprendesse anche quella coppia anomala con la moglie laureata ma a casa ed il marito diplomato e al lavoro).<br /><br />Quando la mamma di Manuel era arrivata a cinque-sei metri dal gruppetto, la mamma di Valentina, con un po’ di compatimento le aveva chiesto: "Era Manuel che piangeva?"<br /><br />La mamma di Manuel riuscì a fare quasi finta di niente. "Solo un secondo; sapete ... stanotte non ha dormito. Mal di pancia."<br /><br />"Deve essere l’influenza che comincia a girare" disse la mamma di Valentina.<br /><br />"Mia sorella ha tutti e due i figli a letto" confermò la mamma di Francesco.<br /><br />"Io sto peggio di tutte voi" rise la mamma di Leonardo, "mi si sono ammalate la babysitter e la donna di servizio. Pensate che la donna di servizio, ieri mattina si è presentata con due occhi così, rossi da far spavento. L’ho rimandata a casa; ci avrebbe fatti ammalare tutti"<br /><br />"Sotto Natale, poi" sorrise la mamma di Valentina. "Pensate che io l’ho cacciata la scorsa settimana, la mia"<br /><br />"Perché?" chiese qualcuna<br /><br />"Il solito problema; stava con me da due anni e, niente, voleva comandare dentro casa mia. Ormai decideva lei che voleva fare: magari c’erano le camicie da stirare e niente, lei puliva i balconi. C’era il parquet sporco e lei faceva il bucato. E poi, se c’era bisogno di un idraulico, chiamava un suo cugino, l’elettricista è il cognato; hanno ridipinto il salone l’anno scorso. Parenti e amici suoi, con lei che dirigeva".<br /><br />Le teste si scossero contemporaneamente.<br /><br />"Guardate" disse la mamma di Francesco, "ormai sono meglio le straniere. Io c’ho una, rumena, no, quell’altro paese là vicino.."<br /><br />"Ucraina?"<br /><br />"No, con la emme..."<br /><br />"Moldavia"<br /><br />"Sì Moldavia, no lei dice Moldova. Insomma, sarà che conosce quattro parole di italiano in croce, ma sta zitta, lavora; io le spiego, lei fa. Certo, a volte, soprattutto d’estate, arriva che c’ha un cattivo odore. Una volta le ho cercato, ma gentilmente, vi dico, di farglielo notare. Ha cercato di spiegarmi; boh, io ho capito che vive in un posto dove l’acqua va e viene".<br /><br />La mamma di Manuel pensò che a casa le pulizie le faceva lei, un paio di mattine le dava una mano sua madre, il sabato mattina Rina, che aveva sessant’anni e che la mamma di Manuel se la ricordava a casa dei suoi, praticamente da sempre.<br /><br />"Ce lo vogliamo prendere un caffè?" disse la mamma di Leonardo.<br /><br />Entrano nella caffetteria e si sedettero a uno dei tre tavolini. Dopo qualche indugio, decisero di comprarsi due cornetti e di farli a metà, così da accompagnare il caffè.<br /><br />"Allora cosa hai preso per le maestre, per regalo?" chiese la mamma di Valentina, lottando con una briciola all’angolo della bocca.<br /><br />La mamma di Manuel si sentì trasalire.<br /><br />***<br /><br />Il pomeriggio prima attraversava il corso principale in preda al panico.<br /><br />Era stata lei ad avere l’idea delle cornici, e aveva raccolto venti euro per ogni bambino. Quei 460 Euro nel portafogli le sembravano un piccolo tesoro, un quarto dello stipendio da funzionario della Tesoreria provinciale dello Stato, che suo marito riusciva a portare a casa a fine mese.<br /><br />Mentre si riparava sotto un ombrello mezzo rotto, la mamma di Manuel pensava che aveva voluto prendersi quell’impegno un po’ per cercare di creare un po’ di simpatia attorno a Manuel, per non fargli pesare troppo le sue lacrime mattutine, e un po’ per cercare di allacciare un po’ più i contatti con le altre mamme.<br /><br />La mamma di Veronica, che doveva accompagnarla quel pomeriggio aveva addotto una scusa abbastanza ridicola (una visita del cane dal veterinario) e quindi la mamma di Manuel si era ritrovata sola a scegliere i regali per le maestre.<br /><br />La mamma di Manuel si era proposta per il regalo, ma sul corso, col vento che le tagliava il viso, le sembrava di aver osato troppo.<br /><br />Alcune cose le erano sembrate troppo pacchiane; altre di valore troppo basso e, comunque, le sembrava assurdo restituire i soldi.<br /><br />Alla fine aveva scelto quattro cornici d’argento, uguali, con delle striature in oro.<br /><br />Per il suo matrimonio tra i suoi parenti e quelli di suo marito, avevano ricevuto una ventina di cornici; una decina stavano ancora nel cassettone dell’armadio, dentro scatole di plastica e borsette di velluto rosso.<br /><br />Il pensiero che una qualsiasi delle maestre potesse destinare la sua cornice a stare addormentata per anni in un cassetto le aveva reso difficoltoso prendere sonno.<br /><br />****<br /><br />Il cappuccino riscaldò un po’ la mamma di Manuel e quando, proprio sulla soglia del bar, la mamma di Valentina si mise a parlare dei compiti per le vacanze di Natale, la mamma di Manuel cercò di trovare il momento giusto per dire la sua.<br /><br />"Ma vi rendete conto, quindici pagine di italiano e cinque di matematica; va bene che sono diciotto giorni di vacanza, ma insomma... e poi noi a Santo Stefano partiamo per la settimana bianca. A tutto ho pensato, tolto il fatto di portare i libri di Valentina".<br /><br />"E dove andate?" chiese la mamma di Leonardo<br /><br />"Ah sono quattro anni che andiamo al Sestriere; è un albergo, in centro, a conduzione familiare, ma il paesino è bello e poi mio marito e Andrea, il grande, stanno a sciare tutto il giorno, che per loro stare al Sestriere o al Terminillo è lo stesso".<br /><br />"Comunque" intervenne la mamma di Valentina, "quando Riccardo, il grande, faceva la prima, i compiti a Natale non glieli diedero"<br /><br />"Che classe fa adesso?" chiese la mamma di Leonardo.<br /><br />"La terza"<br /><br />"Beh, però, mi ha detto la mamma di Monica, quella bambina con l’apparecchio, che è amica mia, che sono un po’ troppo moderne le maestre della terza".<br /><br />"Magari sono le maestre dei nostri figli che sono un po’ troppo tradizionaliste" disse la mamma di Leonardo.<br /><br />"No" disse con forse troppa foga la mamma di Manuel, che avrebbe difeso la scelta di quella scuola contro chiunque, "a me sembrano abbastanza moderne, anche se stanno sulla cinquantina"<br /><br />"Beh" disse la mamma di Valentina, "c’è la maestra Luciana che forse va in pensione prima di arrivare in quinta"<br /><br />"Manuel mi parla sempre della maestra Luciana; è quella più dolce, è comprensiva e mi sembra che i metodi siano abbastanza moderni"<br /><br />"Oh cavolo, è ora di andare" disse la mamma di Leonardo rivolta alla mamma di Manuel.<br /><br />"Dove andate?" chiese la mamma di Valentina.<br /><br />"Dal parrucchiere. Preferisco oggi, perché da domani c’è una fila e rischi di starci le ore. E poi andiamo solo per una pettinata" rispose un po’ scocciata la mamma di Leonardo.<br /><br />"A me il ventiquattro pomeriggio viene a casa una ragazza, che lavorava fino all’anno scorso da Marcello. Il taglio no, ma la tinta la fa benissimo" disse la mamma di Francesco.<br /><br />"In effetti" disse con occhio clinico la mamma di Leonardo "quant’è che l’hai fatta questa tintura?"<br /><br />"Venti giorni fa"<br /><br />"Beh, niente male; ciao, allora ragazze. Alle undici e un quarto, vero?"<br /><br />Si confermarono l’orario della recita e si salutarono<br /><br />"Andiamo con la macchina mia?" disse la mamma di Leonardo.<br /><br />"Va bene" disse la mamma di Manuel.<br /><br />Chiuse la vecchia Clio rossa e salì su una fuoristrada di cui non riusciva a capire la marca.<br /><br />Le sembrò la macchina più silenziosa dove aveva messo piede.<br /><br />"Dimensione Suono va bene?" chiese la mamma di<br /><br />"Sì sì, non ti preoccupare" disse la mamma di Manuel.<br /><br />Guardava la strada dall’alto in basso e quando arrivò al parcheggio del parrucchiere si sentì felice.<br /><br />*****<br /><br />La mamma di Leonardo si comportò da cliente abituale. Sia il parrucchiere che le ragazze non lesinavano il "Signora" e lo estesero alla mamma di Manuel.<br /><br />Mentre stavano affiancate, di fronte allo specchio, la mamma di Leonardo cominciò con tono cospiratorio.<br /><br />"Pare che la mamma di Valentina abbia qualche problema in famiglia"<br /><br />"Davvero?" la mamma di Manuel ne fu stupita. La mamma di Valentina le era sempre sembrata serena ed allegra.<br /><br />"Pare che per una quindicina di giorni a settembre il marito sia andato via di casa"<br /><br />La mamma di Manuel riuscì solo a inarcare le sopracciglia.<br /><br />"Sai, la classica storia del medico con l’infermiera; lui prima è andato via di casa, poi pare che abbiano convissuto, lui e l’infermiera, a casa di lui al mare; poi pare che sia tornato a casa con la coda tra le gambe. Adesso lei vorrebbe che lui facesse domanda per cambiare ospedale e andare in uno di quelli dei paesi qui attorno e insomma, pare che questa cosa del trasferimento sia la condizione per tornare a casa".<br /><br />"Quanti figli hanno?" chiese la mamma di Manuel.<br /><br />"Due, Valentina e Riccardo, che fa la terza. L’ha detto prima, la mamma di Valentina"<br /><br />"Cavolo… ci vanno di mezzo i bambini…"<br /><br />"Pare che non fosse nemmeno la prima storia; un paio di anni fa si vociferava di una collega che veniva da Roma, una che in un paio di mesi si era fatta una nomea da zoccola, se mi passi il termine"<br /><br />La mamma di Manuel chiuse per qualche attimo gli occhi, pensando a Manuel e a Giulia; pensò a suo marito e si domandò se lui fosse felice, con lei, con i suoi bambini o se, magari gli mancasse qualcosa che lo spingesse a cercare la felicità da qualche altra parte.<br /><br />Si riscosse a metà della frase successiva della mamma di Leonardo e capì che stava parlando della recita.<br /><br />"No, non è una recita" disse, in un sospiro di sollievo la mamma di Manuel; "le maestre hanno detto che per una vera e propria recita avrebbero dovuto cominciare a metà ottobre e in prima non se lo possono permettere. I bambini canteranno una canzoncina di Natale".<br /><br />"Ah sì è vero. Ecco cosa canticchiavano Leonardo e la baby-sitter questi ultimi giorni".<br /><br />****<br /><br />"Bel lavoro,che ne dici?"<br /><br />La mamma di Manuel si guardava nello specchietto di cortesia. La mamma di Leonardo aveva insistito per far mettere sul suo conto tutte e due le pettinature.<br /><br />"Sì, niente male..."<br /><br />In quel momento alla mamma di Manuel tornarono in mente le quattro cornici nel portabagagli della Clio e una goccia di sudore freddo calò sul collo.<br /><br />"Che ore sono?" chiese con la voce un po’ chiusa in un singhiozzo.<br /><br />"Undici e dieci" disse la mamma di Leonardo guardando il display dell’orologio digitale. "Siamo in perfetto orario".<br /><br />Arrivarono nel piccolo parcheggio di fronte alla scuola; il fuoristrada si fermò accanto alla Clio. La mamma di Manuel scese quasi di corsa e chiuse la portiera in maniera un po’ troppo forte.<br /><br />Aprì il portabagagli della Clio e tirò fuori le cornici: le teneva strette al seno, come un figlio appena nato.<br /><br />Insieme alla mamma di Leonardo andarono verso l’entrata della scuola.<br /><br />C’erano quasi tutte le mamme e anche un paio di papà.<br /><br />La mamma di Nicola, che era stato con Manuel alla scuola materna, salutò la mamma di Manuel. "Sai cosa fanno?"<br /><br />"Mi hanno detto una canzoncina di Natale"<br /><br />"Ma è una cosa veloce? Perché mi hanno dato un’ora di permesso al lavoro"<br /><br />"In un’ora ce la dovremmo fare".<br /><br />Qualche mamma aveva un panettone, qualcun altra bibite; un paio di mamme sembravano avere torte fatte in casa.<br /><br />Uno dei due papà sussurrò all’altro. "Cavolo, ma noi siamo a mani vuote? Che figura ci facciamo?".<br /><br />"Mia moglie non mi ha detto niente"<br /><br />"La mia non aveva nemmeno capito che c’era la recita".<br /><br />Suonò la campanella, la bidella aprì la porta ed entrarono nella scuola.<br /><br />La bidella disse che i bambini erano già in palestra e quindi i genitori cominciarono a scendere le scale.<br /><br />Una mamma, forse la mamma di Daniele, chiese alla mamma di Manuel cosa avesse comprato.<br /><br />"Una cornice in argento e oro per ogni maestra" disse stavolta con orgoglio la mamma di Manuel.<br /><br />Quella che doveva essere la mamma di Daniele si tolse un brutto cappello di lana di sciatore e strinse due occhi che in un altro momento sarebbero sembrati belli.<br /><br />"Cornici d’oro? E in quinta, che regaliamo? I mongolini d’oro?"<br /><br />Si allontanò e la mamma di Manuel sentì scenderle le lacrime agli occhi. "Che cavolo" disse più a sé stessa che alla mamma di Veronica che scendeva le scale accanto a lei, "la prossima volta ci va qualcun altra a fare i regali".<br /><br />*****<br /><br />La maestra di inglese accese il registratore e diresse i bambini.<br /><br />Più che cantare sembravano gridare; li avevano fatti mettere con le braccia dietro la schiena.<br /><br />Qualche bimbo guardava il soffitto; un paio facevano a gara a chi cantava più forte. Uno era uscito dal gruppo e aveva intinto il dito nel cioccolato di una torta.<br /><br />Più di qualche mamma aveva un sorriso un po’ forzato.<br /><br />Le cornici stavano, scartate, accatastate su un tavolo di plastica.<br /><br />Manuel guardava sua madre, la guardava fissa con le labbra serrate.<br /><br />Alla mamma di Manuel sembrò che fosse l’unico bimbo a non cantare.stefanopz + laralidiahttp://www.blogger.com/profile/15249029335247491670noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9052045044980251020.post-36973550353154530052012-01-25T15:38:00.001-08:002012-01-25T15:38:17.713-08:00PERDERE UNA BATTAGLIA<br /><br />"Ma che vogliamo fare per domani?"<br />Mamma è seria seria, gli occhi quasi lucidi.<br />"Provo a parlarle io prima di pranzo" le dico.<br />"Con me… non lo so… non mi vuole parlare" mi dice e stavolta piange.<br />"Mamma, non è che non vuole parlare con te. Prova a capirla, si vergogna, prima di ogni altra cosa. Va a finire che presto, magari proprio per domani, ricomincerà a parlarti."<br />In quel momento dalla stanza di Francesca si sente un mezzo urlo: "Mariarì".<br />Io faccio un sospiro e uno sguardo di intesa con mamma e entro nella stanza di Francesca.<br />Mia sorella sta sul letto, a serrande chiuse.<br />Sono le undici e mezza di mattina, sabato mattina.<br />"Mariarita"<br />"Sto qui, France’, sto qui".<br />Mi prende la mano. Me la stringe.<br />Poi comincia a singhiozzare, cercando di non fare rumore per non farsi sentire da mamma.<br /><br />**<br /><br />Francesca, mia sorella, compie trent’anni domani.<br />Si è sposata dieci mesi fa, con Enzo.<br />Dopo due anni di fidanzamento, tranquilli, anzi agitati, perché erano due persone sempre in movimento, spesso a cena fuori, spesso a ballare, a Roma almeno un paio di volte alla settimana.<br /><br />Si erano conosciuti in palestra; o meglio, come spesso accade in città piccole come la nostra, si conoscevano da sempre, ma non avevano mai scambiato una parola.<br />Ora di spinning, invece dell’ora di pranzo.<br /><br />A volte a guardarli facevano invidia: Enzo sta attorno al metro e novanta e ha un fisico scolpito, senza esagerare. Francesca è più alta di me di cinque centimetri, ha un bel corpo, un po’ larga di fianchi magari, ma quella è la caratteristica delle donne della nostra famiglia.<br /><br />Io, più che i fianchi larghi, sembro un po’ balena, ma che ci posso fare.<br /><br />Enzo fa il promotore finanziario; io e Francesca abbiamo una profumeria che ci ha messo su papà, quando ha capito che con la sua ferramenta non potevamo farci molto, noi due ragazze.<br />La profumeria va bene, grazie al cielo, anche se ormai sono quindici giorni che Francesca non ci mette piede.<br /><br />***<br /><br />Sento mamma che esce di casa.<br />Gliene sono grata. Ha capito che se lei sta qui, Francesca resta nella stanza tutto il giorno, a serrande chiuse.<br />Mi alzo dal letto, anche se Francesca sembra non volermi lasciare la mano.<br />Singhiozza un ‘no’, quando capisce che sto per aprire la serranda.<br />La apro.<br /><br />Francesca avrebbe degli occhi neri stupendi, con delle ciglia lunghe.<br /><br />Gli occhi sono rossi, gonfi; sotto un occhio c’è un livido nero.<br />Mi vengono i brividi.<br />"Che hai fatto all’occhio?"<br />Silenzio.<br />Mi avvicino; le unghie delle mani sono tutte morsicate, tranne il pollice destro; nel polso sinistro ci stanno quattro cinque incisioni, col sangue che sembra ancora fresco.<br /><br />Vorrei urlare ‘cos’hai fatto?’, ma la paura è più forte della rabbia.<br /><br />Apro un cassettino della scrivania e ci trovo le forbicine; senza dire nulla le tengo ferma la mano e riesco a tagliarle l’unghia del pollice.<br /><br />"Che hai fatto all’occhio?"<br /><br />Cinque secondi, poi dieci.<br /><br />Poi comincia piano piano a darsi piccoli pugni sullo zigomo; i pugni diventano più forti.<br /><br />Mi lancio e riesco a fermarla.<br /><br />"Mariarita" ora sta urlando. "Mariarita, aiutami!"<br /><br />La abbraccio, come mamma ci abbracciava da piccole quando ci svegliavamo dopo un incubo.<br /><br />Ha il viso impiastricciato di lacrime e saliva.<br /><br />Chiude gli occhi e si calma.<br /><br />Le accarezzo i capelli.<br /><br />Sono due settimane che non li lava.<br /><br />****<br /><br />Due sabati fa alle tre.<br /><br />Mamma e papà erano ad un trentesimo anniversario di nozze di un cugino di papà che sta in campagna.<br /><br />Io me ne stavo in tuta a fumare, in salone.<br /><br />Mi fumo quattro sigarette al giorno, lo giuro. Se lo sa papà, che ne fumava trenta e ha smesso…<br /><br />Suonano alla porta e mi dico ‘Diavolo, ho acceso mo’ mo’ MTV’.<br /><br />Poggio Donna Moderna sul tavolino del salone.<br /><br />Apro. E’ Francesca.<br /><br />"Che c’è, Francé?"<br /><br />Mi butta le braccia al collo.<br /><br />"Basta, basta; sono andata via"<br /><br />"Come via? Via da dove?"<br /><br />"Via di casa…"<br /><br />"Via di casa? E Enzo?"<br /><br />"Enzo sta lì … e rimasto lì…"<br /><br />"Ma che è successo?"<br /><br />"Niente"<br /><br />"Come niente? Sei andata via di casa. Senti chiamo Enzo e gli pa…"<br /><br />"No!" aveva urlato ed era corsa nella sua stanza.<br /><br />E da quel momento era restata lì. Si era chiusa dentro, a chiave.<br /><br />La sera, quando papà e mamma erano tornati, aveva gridato che era lì, restava lì e di non chiamare Enzo.<br /><br />Papà aveva dato in escandescenze e voleva andare da Enzo.<br /><br />Mamma per fortuna l’aveva trattenuto a stento; papà c’ha due mani che sono palanche e persino a Enzo l’avrebbe buttato a terra con uno schiaffo, mica scherzi.<br /><br />Io e Francesca avevamo scambiato qualche parola.<br /><br />Avevamo preso accordi; sarebbe rimasta in stanza sua, avrebbe anche mangiato là. Nessuno avrebbe fatto parola del fatto che era tornata a casa; nessuno avrebbe cercato di parlare con Enzo e con i suoi, soprattutto con la sorella di Enzo, che era una nostra vecchia amica.<br /><br />Per due settimane la balla di Francesca malata aveva retto a malapena.<br /><br />*****<br /><br />Alla luce della mattina Francesca appare quasi piccola piccola, dentro un pigiama nero.<br /><br />E’ dimagrita.<br /><br />Sembra camminare a malapena.<br /><br />Si siede alla scrivania.<br /><br />"Alla profumeria ci sta Roberta, quella ragazzetta che avevamo provato l’anno scorso come commessa" le dico per provare un approccio con le cose di tutti i giorni.<br /><br />Niente.<br /><br />Allora vado diretta.<br /><br />"Francè, sono due settimane che stai qua. Ti vuoi ammazzare? Dimmi che è successo, se puoi dirmelo, ma fai qualcosa, reagisci, ti prego. Ci ammazzi tutti, a me, a mamma e a papà, se continui così"<br /><br />Francesca tiene gli occhi chiusi.<br /><br />Sembra fare uno sforzo, quello sforzo che fanno i bambini quando devono recitare le poesie in classe.<br /><br />"Ti ricordi dopo il viaggio di nozze?"<br /><br />"Sì, Francè"<br /><br />"Che ti dicevo che era bello starsene a casa il sabato sera; guardare la tv; Enzo tornava con la pizza; poi alle dieci andavamo a letto. A volte stavamo abbracciati fino alle tre di notte; una domenica ci siamo svegliati alle cinque per andare al mare e vedere l’alba"<br /><br />"E poi, che è successo?".<br /><br />Cavolo, è l’approccio sbagliato.<br /><br />Francesca sembra quasi spegnersi.<br /><br />******<br /><br />Sussurra qualcosa che sembra "Al bagno".<br /><br />Se c’è una cosa che non ho capito è quando va al bagno, forse di notte.<br /><br />Si chiude dentro e mi sembra sulle prime normale.<br /><br />Poi, di colpo, mi viene il panico.<br /><br />Nel bagno ci sono le lamette.<br /><br />E la varechina.<br /><br />E un armadietto pieno di medicinali.<br /><br />Non so se bussare o urlare possa servire a qualcosa.<br /><br />Cerco di avere un tono normale, allora: "Francé ti serve una mano?"<br /><br />"No", il suo di tono sembra normale, non normale... insomma il tono che sta usando nelle ultime due settimane.<br /><br />Scarica, apre e senza guardarmi (per fortuna, che devo avere un viso peggio del suo per la paura) se ne rivà in stanza.<br /><br />Chiude la porta.<br /><br />A chiave.<br /><br />********<br /><br />All’una meno un quarto sento la chiave che gira e lei che si risiede sul letto.<br /><br />Indugio giusto dieci secondi, sperando che il segnale di via libera non cambi.<br /><br />Entro.<br /><br />Si è fatta una coda ai capelli con un elastico e mi sembra un buon segno.<br /><br />"Una notte, c’avevo le mie cose, mi alzo e vado in cucina. Mi faccio una tisana, di quelle che mi hai regalato tu. Dalla camera da letto sento un rumore. E’ E... lui che russava. Accendo la luce in corridoio. Vicino al letto ci stavano le pantofole di pelle, tipo quelle che c’ha papà; c’aveva un filino di bava qua" si indica il lato della bocca "un vecchio maglione di pile. Sembrava troppo grosso per quel letto. Guardo la mia parte del letto. Io non c’ero, ovvio. Eppure mi sembrava che non ci fosse motivo perché in quel letto ci fossi pure io"<br /><br />Stavolta non ci casco; non le dico ‘e poi’.<br /><br />Si volta verso di me e fa "Certo che ‘sta stanza puzza davvero; come diavolo fai a starci"<br /><br />C’ho visto vita negli occhi, per un attimo ma ce l’ho vista.<br /><br />********<br /><br />Ho incrociato la sorella di Enzo fuori dalla Coop, la settimana scorsa.<br /><br />Io e lei abbiamo fatto insieme le medie e ragioneria e un paio di anni siamo state pure al banco insieme.<br /><br />Quindi quando mi passa a cinque metri e non mi saluta, mi sembra che lo sta facendo apposta.<br /><br />"Paola!" urlo.<br /><br />Sono ancora convinto che è stata un quattro-cinque secondi a decidere se voltarsi o meno.<br /><br />Si gira e c’ha gli occhi quasi rossi: "Ti prego, Mariarita"<br /><br />"Ti prego cosa?" le dico io.<br /><br />"Non parlarmi di Enzo e Francesca"<br /><br />"Perché?"<br /><br />"Perché no".<br /><br />La fisso; vorrei odiarla, ma non ci riesco.<br /><br />"Te l’ha chiesto Enzo, vero?"<br /><br />Annuisce.<br /><br />"Francesca ci ha chiesto la stessa cosa. State zitte, non parlate con nessuno; non parlate con Paola"<br /><br />Dal finestrino della sua macchina spunta suo figlio; sta in braccio a una ragazza, mi sembra sua cugina. "Mamma! Mamma!".<br /><br />"Adesso devo andare" fa Paola e spinge il carrello verso la macchina.<br /><br />Io la seguo con lo sguardo, combattuta se correrle dietro o mantenere la promessa a Francesca.<br /><br />Paola fa manovra con la macchina, mi viene vicino, tira giù il finestrino, che cigola.<br /><br />E’ un finestrino a manovella, ancora.<br /><br />"Enzo non ci ha detto niente; il giorno vive ancora a casa sua, a casa loro; ma la notte torna da noi. Arriva a mezzanotte, l’una, non parla con nessuno; alle cinque fa la doccia, alle sei se ne esce. L’ho incrociato un paio di volte, quando va o quando viene. Ha gli occhi che sembra un pazzo. Ma, ti giuro, cosa cavolo è successo io non lo so".<br /><br />Ritira su, a fatica il finestrino. Quando ha da poco superato la metà, infilo la mano dentro.<br /><br />Non so perché, ma le accarezzo la testa. Lei mi stringe la mano e sussurra un mezzo grazie.<br /><br />********<br /><br />Dell’incontro con Paola non ho detto niente a nessuna, manco a mamma.<br /><br />E’ a Paola che penso e non so perché, quando Francesca si è stesa sul letto un’altra volta e voltata verso il muro.<br /><br />M’è sembrato che Paola ci vedesse qualcosa di più di quello che ci vedevo io: io soffrivo per mia sorella, che è sempre stata la mia prima e più grande amica; lei forse, come dire, è come se, da sposata potesse capire delle cose che io, trentadue anni e ancora a casa con mamma e papà, non riesco a intuire.<br /><br />"Sai che mi sa che ti riesco a prendere in braccio, per quanto sei dimagrita?" faccio a quella schiena magra magra.<br /><br />Niente.<br /><br />Poi, forse mezzo minuto dopo, mi fa "Provaci".<br /><br />La prendo sotto le ginocchia e sotto le spalle. E’ uno sforzo immane, ma ce la faccio.<br /><br />Lei fa una cosa che sembrava aver dimenticato.<br /><br />Ride.<br /><br />"Cavolo, France’, vatti a fà la doccia" le dico dopo che l’ho rimessa sul letto.<br /><br />"Se mi ci porti in braccio fino al bagno, la faccio".<br /><br />Due bambine. Ecco cosa sembriamo. Due bambine che fanno a gara a chi fa la ... meglio. La porto in bagno, la poggio.<br /><br />Con lo sguardo mi dice di aspettare fuori.<br /><br />Non si chiude a chiave.<br /><br />Vado a prendere una sigaretta dal mio cassetto segreto; l’accendo e me ne vado alla finestra del salone per non lasciare la puzza. Sento le chiavi nella porta di casa.<br /><br />Corro, con la sigaretta accesa.<br /><br />E’ mamma; guarda me, poi la sigaretta, ma prima che si arrabbi, le dico "Ti prego, fatti un altro giro che si sta facendo la doccia".<br /><br />Rimane imperturbabile, ma comunque si fa chiudere la porta praticamente in faccia; dopo un po’ sento che la macchina che se ne va, forse da papà alla ferramenta.<br /><br />Francesca ha chiuso l’acqua. Ora si sente il phon.<br /><br />E’ lei che apre la porta.<br /><br />Si è messa il mio accappatoio e sembra quasi che ci si perda dentro.<br /><br />Il rossore delle guance riesce quasi a coprire il livido sotto l’occhio.<br /><br />Non ha quei bellissimi capelli neri lucidi di una volta, ma sono così gonfi e puliti, finalmente, che viene voglia di accarezzarli.<br /><br />Le metto un ciuffo dietro l’orecchio.<br /><br />Le lacrime le rispuntano, ma sembrano più veloci del normale, le finiscono sulle guance in mezzo secondo.<br /><br />Chiude gli occhi, probabilmente conta mentalmente fino a dieci.<br /><br />Riapre gli occhi.<br /><br />Non sorride, ma ormai non piange più.<br /><br />Si guarda allo specchio e mi fa: "Senti Mariarì: Roberta di profumi non ci capisce proprio un cavolo!"stefanopz + laralidiahttp://www.blogger.com/profile/15249029335247491670noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9052045044980251020.post-30938243831888470232012-01-25T15:37:00.001-08:002012-01-25T15:37:42.088-08:00Questo qui sotto non è un racconto, ma un regalo ad un'amica. Lei mi ha raccontato di un periodo della sua vita e io mi sono inventato la sua vita.<br />A lei è piaciuto<br /><br /><br />CINQUE MESI<br />Appena ebbe firmato il contratto di franchising le si spalancò un sorriso spontaneo.<br />Era stata cinque anni in erboristeria e finalmente ne aveva una sua; quando lavorava per altri, Annarita aveva fatto diventare il negozio il più importante nella provincia. Quando nessuna sapeva nemmeno cosa volesse dire, era stata la prima a vendere prodotti equi e solidali.<br />E adesso Erbe e salute avrebbe aperto il 20 di maggio.<br />L’avvocato Di Stefano le sorrideva, le mani intrecciate sulla pancia; il procuratore della Erbe e salute raccoglieva le sue copie del contratto, con un respiro quasi ansimante.<br />Annarita, forse per la soddisfazione, si estraniò un attimo dalla sala riunioni color noce dell’avvocato e si mise a fare l’appello delle sue sensazioni.<br />Si accorse che il procuratore le aveva teso la mano quando ormai la mano era ormai ritratta e l’in bocca al lupo già bofonchiato.<br />Una segretaria chiamò l’avvocato Di Stefano per una telefonata urgente e Annarita divise i suoi pensieri tra la pratica di finanziamento dell’imprenditoria femminile, da completare di lì a una settimana e quel tunnel lungo cinque mesi.<br />Primo mese<br />Luca non capiva: a lui bastava un sabato sera, da soli in pizzeria, zitti per la gran parte del tempo; anzi meglio quando Luca veniva a casa sua e si faceva due chiacchiere con il papà di Annarita, che da quando era in pensione stava involvendo in un mutante metà barba incolta e metà vestaglia.<br />La mamma di Annarita stava dietro il velo di una cataratta, aspettando per terrore dell’anestesia un’operazione da fare ormai con urgenza.<br />Annarita era terrorizzata dall’incubo, che un giorno Luca comprasse un paio di pantofole e le lasciasse a casa sua, per usarle quando la veniva a trovare; da quando le era venuto questo terrore, aveva deciso di girare per casa scalza, come ad abituare il pavimento al contatto con la pianta dei piedi o con i calzini.<br />Un venerdì sera, dopo che Luca e suo padre avevano discusso di qualche calciatore a lei ignoto, Annarita accompagnò Luca all’ascensore e si accorse, fuori dalla porta che quel saluto rapido (di solito, un piccolo bacio a bocche chiuse) era l’unico momento di contatto tra di loro. Quella sera, neanche una parola, sull’erboristeria ad esempio, sul fatto di partire insieme in franchising, niente di niente.<br />E davanti all’ascensore Luca aveva due occhi pieni di speranza, da animale sottomesso, che sperava nello zuccherino del suo domatore.<br />Quando ripensava a quella sera, Annarita sapeva che era lì, al din don dell’ascensore, che una storia di sei anni era finita; i dieci giorni successivi erano stati tali e quali ad una proroga che un creditore concede ad un debitore, pur sapendo che non vedrà mai un soldo.<br />Secondo mese<br />Annarita andò con la proposta di franchising dall’avvocato Di Stefano.<br />La scelta, oltre ad un buon sentito dire, derivava dal fatto che aveva lo studio nel palazzo dall’altra parte della strada e che aveva diviso molte volte l’ascensore con lui, da quando, da un paio d’anni, la madre dell’avvocato era andata a vivere nel suo palazzo.<br />Di Stefano proruppe in una risata: “Era il sogno della mia vita, prendere un cliente perché vive nel palazzo di fronte a studio; proprio un’aspra selezione!”; Di Stefano era alto tra uno e novanta e uno e novantacinque e si presentava sempre con camice bianche che sembravano sempre troppo strette. “Il giorno che ho comprato un vestito 60 di taglia, ho capito che ero un uomo finito” le aveva detto Di Stefano.<br />“Ho un’esperienza di cinque anni nell’erboristeria al centro commerciale, ma credo sia ora di partire da sola” aveva esordito in maniera abbastanza professionale, come se dovesse convincere l’avvocato di essere all’altezza di aprire una propria attività commerciale.<br />C’era tornata un paio di altre volte, dall’avvocato, per una proposta integrativa e per una proposta di un’altra catena.<br />In quel mese, un paio di volte uscì con delle amiche per andare in qualche posto dove facevano balli di gruppo; con Marzia, la sua amica storica, andò qualche volta in palestra la sera e più di qualche volta a mangiare la pizza o al pub, ma le chiese risolutamente di evitare che ci fossero ragazzi.<br />“Sono in stand-by” era la frase a cui si stava sempre più affezionando.<br />Terzo mese<br />La mamma di Annarita fu portata in ospedale praticamente a forza.<br />Fu operata un martedì mattina, dopo aver chiesto di entrare in sala operatoria stringendo un crocefisso; l’operazione, che era banale routine, andò bene, ma purtroppo per dimostrare a sé stessa di poter tornare rapidamente in forma, si alzò dal letto troppo presto e fece una brutta caduta. Clavicola rotta e quello che doveva essere un degenza di qualche giorno divenne un mezzo calvario per tutta la famiglia, primo fra tutti per il padre di Annarita che fu costretto ad abbandonare la sua tenuta da pensionato e a cercare di fare qualcosa per sua moglie.<br />Il risultato fu il peggiore possibile: avrebbe dovuto essere il marito a tirare su la moglie e invece fu la moglie a far spegnere qualcosa in lui.<br />Il padre di Annarita cominciò a soffrire di insonnia; poi durante il giorno si sentiva così stanco che non riusciva a guidare e Guglielmo, il fratello di Annarita, rimasto da poco senza lavoro, si era dovuto sacrificare a fare da autista per i tragitti casa-ospedale e ritorno, ma anche per qualsiasi altra incombenza familiare, dato che qualsiasi evento ordinario sembrava al di sopra delle forze di quel padre malato per empatia.<br />Annarita dovette sospendere qualsiasi attività al di fuori delle otto ore al negozio; la storia del franchising fu accantonata, dopo una mezz’oretta passata con l’avvocato Di Stefano, al quale aveva preferito comunicare la sospensione delle trattative di persona e non per telefono.<br />Quasi senza accorgersene, non solo quelle settimane di camici e pigiami, ma anche la storia dello stand-by e alcune telefonate di un Luca particolarmente incline al lamento, finirono per riempire quelle mezz’ora nella sala riunioni dello studio legale, tanto che a un certo punto Annarita si fermò nel mezzo di una frase sull’ultima telefonata di Luca.<br />“So che hai” le aveva detto l’avvocato; “ti sembra assurdo raccontare cose tanto personale a me, che sono un estraneo. Però ragiona un attimo: c’è gente che le va a raccontare al prete, le cose personali, e il prete è un estraneo, in fondo: è che alcune questioni ci sembrano così delicate, che parlarne a persone a cui teniamo ci sembra che possa offenderle.”<br />Annarita annuì, rise e cercò di congedarsi nel più breve tempo possibile.<br />Si sentiva sollevata, mentre scendeva le scale del palazzo dove era lo studio di Di Stefano, come se aver trovato un prete personale potesse servirle a qualcosa; tempo un minuto e tutto era tornato come prima: un sms di Luca, “T prego kiamami!!!”<br />Quarto mese<br />Certe sere voleva che Luca la chiamasse, anzi avrebbe voluto uscire con lui e sentirsi rassicurata dalla semplice presenza, giacché era comunque abbastanza obiettiva da sapere che, per il resto, non c’era più molto.<br />Sua madre era tornata a casa e a casa sembrava avessero firmato tutti e quattro un tacito armistizio: Guglielmo, degradato da pilota a disoccupato, aveva passato un paio di settimane con Annarita all’erboristeria; suo padre e sua madre sembravano darsi compagnia l’un l’altra passando quasi tutto il tempo in due stanze diverse.<br />Marzia aveva lasciato un ragazzo per un altro, con la stessa non-chalance con cui si cambia d’abito: per qualche giorno questo fatto l’aveva allontanate, ma più per una sorta di critica silenziosa al comportamento che sembrava leggero, che per un qualche rilievo sull’uno o l’altro dei due pretendenti.<br />A un certo punto pensò di essere diventata eccessivamente seria, come se a ventisei anni non avesse altra scelta che trovarsi un buon partito e trasformarsi in una versione non geneticamente modificata dell’angelo del focolare.<br />Per un paio di sere ebbe difficoltà ad addormentarsi: aveva qualcosa che avrebbe potuto battezzare tachicardia, un eccesso di tensione che le impediva di dormire. Non riusciva a pensare niente che potesse essere così importante da distrarla da quell’eccesso di tensione: si ritrovò in salotto a guardare la televisione e finì per guardarsi una trasmissione di maghi dopo l’altra.<br />Per quelle due notti, si addormentò verso le quattro, esausta.<br />Alla terza sera consecutiva di difficoltà, nonostante due tazze di camomilla e una cena leggera, scrisse un sms a Luca: “NN riesco a dormire: mi piacerebbe ke mi cantassi una ninnananna”.<br />Al momento di spingere il tasto per l’invio, fu come attratta dalla luce dei fari oltre le persiane semichiuse, si mise una vestaglia e un montgomery sopra la tuta di pile che usava come pigiama e, cercando di fare meno rumore possibile, uscì sul balcone.<br />Prima si appoggiò alla ringhiera, poi prese una sedia di plastica a si sedette: alle due di notte di un giovedì di marzo, neanche troppo primaverile, passava una macchina ogni cinque minuti, forse di ritorno da balli di gruppo in discoteca.<br />Ma oltre ai fari, le sembrava che le cose, di notte, avessero un senso differente che di giorno; le ombre sui muri di una villetta poco lontana, le parvero per qualche minuto una persona, un compagno di insonnia. I cani randagi si muovevano a gruppetti; vide un paio di finestre illuminate nel palazzo dall’altra parte della strada e un paio di luci azzurrine fluttuanti in stanze dove era ancora accesa la TV.<br />Non c’era bisogno di mandare messaggini qua e là, queste strade, queste case, sono la mia città, la mia vita; di notte queste ombre me la rendono più umana, questa città, mi dicono che questo è il mio posto. Questo pensava Annarita, col cappuccio del montgomery alzato, pensava che lei stava per entrare in scena e lo sfondo, almeno quello, era a posto.<br />Decise di andare a dormire solo quando a est, il nero della notte sfumò in un grigio.<br />Quinto mese<br />Marzia tornò al ragazzo precedente; il ragazzo precedente diede una festa, per la laurea breve; a casa del ragazzo precedente di Marzia, Annarita conobbe Massimo.<br />La prima cosa che capì dopo che si baciarono, la sera della festa, sul balcone, è che non era mai stata con un ragazzo così bello, tanto bello che se avesse avuto gli occhi chiari, sarebbe stato perfetto.<br />In mezza giornata seppe tutto su di lui e non le sembrò un buon segno: usciva anche lui da una storia di tre-quattro anni e anche questo non le sembrò un buon segno.<br />In mezza giornata seppe che impazziva per la pallacanestro e per i margaritas, che si sarebbe comprato una Golf appena possibile, che si ricordava di Annarita, da quando stava con Luca e un paio di volte l’aveva vista in erboristeria; che di Annarita gli piacevano i jeans a vita bassa e come rideva (o almeno queste, secondo Annarita, erano le cose che poteva dirle). Ah e poi, che la domenica sera sarebbero usciti dopo le dieci, perché gli piaceva la Gialappa e che per l’estate pensava che sarebbero andati o a Djerba o a Maiorca.<br />La prima riflessione di Annarita fu abbastanza scontata: dopo un giorno come può pensare questo qua che staremo ancora insieme ad agosto? La seconda riflessione fu su un immediato e furioso shopping di gonne e tailleur, perché non voleva vestirsi in un determinato modo solo perché a lui piaceva.<br />Una sera, per provare che effetto facessero come coppia, uscirono insieme a Marzia ed al ragazzo precedente, che ormai era stato reinsediato come titolare.<br />La sera, la pizza andò avanti a scossoni, quasi che la maggior parte del tempo la passassero a cercare un argomento che fosse di gradimento di tutti e quattro. La cosa che le piacque di più quella sera fu che la sua gamba era stata a contatto praticamente costante con quella di Massimo, come se le cose che non si vedevano di loro due, fossero più importanti e più forti di quelle che volevano mostrare agli altri.<br />L’indomani Massimo aveva un appuntamento importante abbastanza presto per un lavoro, e quindi la riaccompagnò a casa a mezzanotte e spiccioli.<br />All’una Marzia le telefonò. Esordì così: “Annarì, è lui, è quello giusto, è bello, anzi no, è bono. E come ti guarda, Annarì, come ti guarda”. Quelle tre parole le sembrarono più di un segno: “come ti guarda” e non “come vi guardate”. Insomma, in venti minuti, Marzia le spiegò che erano perfetti, che erano usciti tutti e due da storie precedenti nello stesso momento e questo ovviamente era dovuto ad una forza superiore, che i ragazzi non si cambiano come i vestiti (e qui Annarita non replicò solo perché gli occhi le si chiudevano quasi).<br />Annarita provò a spiegare quanto era presto per giudizi così definitivi, che, certamente, Massimo diventava ogni giorno più importante, che certe cose le sembravano fantastiche (e qui ripensava alle gambe attorcigliate sotto al tavolo). Aveva dentro qualcosa che poteva diventare un entusiasmo, ma ancora non lo era.<br />Un paio di giorni dopo Luca entrò nell’erboristeria, con gli occhi pesti di chi è venuto a sapere.<br />Annarita chiamò Guglielmo e gli chiese se poteva fare un salto per sostituirla al negozio per un’oretta; chiese a Luca di aspettarla in un bar a un centinaio di metri dal centro commerciale: tutto questo senza che Luca proferisse parola.<br />Annarita arrivò al bar e Luca aveva chiesto un caffè per lui ed un succo di frutta alla pera con un po’ di latte per lei. Il messaggio, nascosto nel break delle dieci e mezza della mattina da lei preferito, parve chiaro ad Annarita: io conosco i tuoi gusti, so chi sei, noi condividiamo delle cose.<br />Tre quarti d’ora dopo Annarita aveva alcune certezze. Prima certezza: aveva fatto bene a stare quattro anni e mezzo con Luca, era cresciuta con lui e gli doveva tanto; secondo certezza: era finita tra loro, senza rimpianto, ma con qualcosa che assomigliava alla serena certezza che fossero un passo da fare, l’uno per l’altra.<br />Luca aveva cominciato con una serie di velate accuse, di poco rispetto, di facilità, di eccessiva fretta; ma poi Annarita aveva spiegato, forse un po’ anche a sé stessa, quale fosse l’effettiva situazione, la storia dello stand-by; alla fine aveva lasciato socchiusa la porta, con una frase sospesa, del tipo “non è detta ancora l’ultima” o “potrebbe farci bene”.<br />Era l’unica nota di amarezza di quel succo di frutta alla pera con un po’ di latte: che quelle frasi buttate lì, con l’abito da speranza, servissero solo per consentirle di tornare rapidamente al lavoro.<br />Quella stessa sera, a cena, sua madre preparò uno sformato con le patate, che di solito riservava per le feste: era festa, del resto, dato che il medico le aveva dato il via libera per poter tornare al lavoro, purché restasse seduta e non facesse cose deliranti, tipo guidare o giocare a tennis.<br />A tavola suo padre mise un vino che gli aveva portato un paio di settimane prima un cugino che aveva una vigna nell’avellinese; Guglielmo cominciò a fare l’imitazione del vecchio Puglisi, quello del piano di sotto, l’ex funzionario dell’intendenza di finanza, che parlava come un libro di Camilleri.<br />Ad Annarita vennero le lacrime agli occhi per le risate: almeno questa, pensò, è sistemata.<br />Fine del quinto mese<br />La mattina dell’appuntamento per la firma del contratto di franchising, Annarita era scesa di casa per prendere la macchina per andare a lavoro, ma arrivata in garage vide che non aveva le chiavi della macchina.<br />Tornò su, dopo aver incrociato nell’androne suo padre e sua madre che uscivano di casa.<br />Aprì le quattro mandate della porta di casa e camminò svelta verso camera sua: ci entrò e fu come una luce accecante.<br />C’erano due bambole, cinque Barbie sulle mensole, un numero imprecisato di sorprese degli ovetti Kinder, una cornice a giorno con dentro una ventina di foto, di cui almeno quattro o cinque di Luca o con Luca. Un paio di programmi di saggi di danza classica, che aveva smesso alla fine delle medie; un poster di Vasco e uno di Piero Pelù, abbastanza piccoli per la verità, forse delle pagine centrali di riviste; pantofole di Pluto, le scarpette da danza, un armadio con attaccati adesivi di Barbie, dei Take That, di Bugs Bunny.<br />Annarita pensò: è la stanza di una ragazzina.<br />*<br />Quando finalmente si risvegliò dal torpore, l’avvocato Di Stefano era rientrato nella stanza e aveva cominciato a raccogliere le copie del contratto. “Allora, è andata!” disse Di Stefano. “Ah, cosa… sì, è andata” Annarita tornò in sé e si disse che quel periodo di dubbi, incertezze, problemi e stravolgimenti doveva essere finito. “Sa, avvocato, in questi cinque mesi mi è successo di tutto: una galleria lunga cinque mesi”.<br />L’avvocato Di Stefano sorrise a mezza bocca, poi fece sornione: “C’è una battuta di Lucia Vasini, che è stata la compagna di Paolo Rossi. Diceva così: ‘sono cinque mesi che non ho un uomo. Voi direte: cosa sono cinque mesi nell’arco di una vita? Sono d’accordo, ma cinque mesi nell’arco di cinque mesi?’”.<br />Annarita rise forte, strinse la mano all’avvocato e se ne andò, dentro un inizio di primavera che sembra sapesse fare il suo mestiere.<br />**<br />Ormai anche Massimo sembrava che cominciasse a capire: non era quello giusto, il definitivo, l’insostituibile. Massimo era uno spunto. Certo, un gran bello spunto; ma era lo spunto per una fase nuova, fuori dai cinque mesi, con l’erboristeria Erbe e salute e mai più ragazzina.<br />Mentre pensava queste cose, dentro ad un mobilificio, le squillò il cellulare. “Ohi, Marzia!” “Come va?” “Sto in un mobilificio” “Cavolo, l’avevo detto io che te lo sposavi, Massimo. Già ti stai a fa’ casa”. “No, Marzia, non mi faccio casa, mi sto rifacendo camera mia, con mobili che reggano almeno altri dieci anni”.stefanopz + laralidiahttp://www.blogger.com/profile/15249029335247491670noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9052045044980251020.post-10966713807232113212012-01-25T15:36:00.003-08:002012-01-25T15:36:56.978-08:00IL DOTTOR CORTESE<br />Il dottor Pierangelo Cortese, vicepresidente dell’Ordine dei dottori commercialisti di ***, se ne stava, porta chiusa e serrande abbassate, alla luce di un vecchio lumetto, che sua nonna gli aveva regalato per l’abilitazione.<br />La scrivania era vuota; sul computer un salvaschermo fatto di tubi sibilava.<br />La scrivania era classica, la poltrona presidenziale sobria, gli armadi con i libri divisi per argomenti, tre stampe di Kandinsky.<br />L’ultima mezz’ora era passata così. Aveva chiesto che non gli passassero telefonate e aveva sperato che nessun collaboratore lo disturbasse per un consiglio.<br />Del resto era la sera dell’ultimo giorno utile per i pagamenti delle tasse, fine giugno: tutti gli anni era serata quasi di festa, le ragazze della contabilità se ne andavano un’ora prima dell’orario stabilito.<br />Non riusciva a fare nulla.<br />Cercava di stare pressoché immobile.<br />Ogni tanto alzava gli occhi verso la foto di sua figlia, Gaia, che aveva ormai diciott’anni, dei quali gli ultimi due passati a lottare contro disturbi alimentari, con alternanza quasi ritmica di anoressia e bulimia.<br />La fase peggiore sembrava passata, l’estate precedente erano stati, Gaia, lui e sua moglie, in una clinica deprimente in un posto in Alto Adige che in altre occasioni avrebbe potuto sembrare piacevole.<br />La porta si aprì: era il dottor Giovanni Puglisi, il suo socio di studio, l’unico che poteva entrare senza bussare.<br />“Hai visto: fatta anche quest’anno!”, sorrise con quel sorriso siciliano che sembrava sempre canzonare piuttosto che esprimere gioia.<br />Il dottor Puglisi sembrò non fare caso all’assoluta assenza di attività nella stanza.<br />Il dottor Cortese aveva conosciuto il suo futuro socio di studio ad un corso dell’Ordine al quale stava facendo una lezione sulle novità della legge sulle manette agli evasori; Puglisi si era abilitato da un paio di settimane e faceva domande estremamente petulanti. Cortese non se lo fece scappare, perché intuì il potenziale di pignoleria e di puntiglio che per la gestione di contabilità era sinonimo di regolarità e correttezza.<br />Puglisi era antipatico, vestiva male, era un omarino grigio, con una moglie altrettanto grigia che insegnava religione ed una venerazione per il padre, vecchio funzionario dell’Intendenza di Finanza: ma era esattamente il tipo di persona che toglieva qualsiasi problema negli aspetti pratici della professione.<br />“Fatta, fatta” ammise Cortese.<br />“Senti, per domani sera è confermato tutto” fece Puglisi<br />“Tutto, cosa?”<br />“Come tutto cosa? La festa per i tuoi venticinque anni di professione. Abbiamo prenotato da Natalino, Piuttosto tua moglie viene? E Gaia?”<br />“No” disse Cortese, ripresosi dall’attimo di smarrimento. “Non vengono; poi sai come è mia moglie, meno gente vede e meglio si sente e Gaia, meglio se esce con qualche amica”<br />“Va bene. Che è questa luce così bassa?”<br />“Favorisce la concentrazione” Cortese sorrise<br />“Ah, certo” Puglisi rispose con quel sorriso che sembrava dire “A me non mi freghi”.<br />**<br />Il dottor Cortese salì sulla Audi A4 station wagon grigia, per tornarsene a casa, poco dotto le otto.<br />Non era appassionato di auto e non amava fare sfoggio; così guardava senza invidia le Jaguar o le Mercedes classe E di colleghi suoi coetanei, che probabilmente davano loro il brivido borghese del professionista arrivato.<br />Del resto non amava gli abiti particolarmente costosi e cercava di essere sempre sobrio. Non che provenisse da una famiglia povera, anzi, suo padre era stato uno dei primi ingegneri della città e spesso il dottor Cortese si incantava a guardare qualche palazzo o qualche ponte che suo padre (e poi suo fratello maggiore) aveva progettato.<br />Accese la radio e, come in ogni tragitto casa – studio e viceversa negli ultimi due mesi, fece partire la terza traccia di un cd.<br />Sapeva perfettamente il punto in cui gli sarebbe salita in gola un’amarezza fatta di bile e lacrime. A volte sentiva dei brividi violenti, un paio di volte aveva persino urlato.<br />Respirava sempre più lentamente; poi la strofa, inesorabile arrivò:<br />Ed il più grande conquistò nazione dopo nazione<br />E quando fu di fronte al mare si sentì un coglione<br />Perché più in là non si poteva conquistare niente<br />E tanta strada per vedere un sole disperato<br />E sempre uguale e sempre come quando era partito<br />Eppure negli ultimi mesi qualcosa di stimolante era arrivato; il Giudice delegato l’aveva nominato coadiutore del fallimento della Compagnia Casearia Italiana, una spa con quattro stabilimenti sparsi per il centro Italia.<br />Aveva avuto la ventura di conoscere meglio il curatore, l’avvocato Abbamonte.<br />Abbamonte era un uomo un po’ più in là dei settanta, con una fede incrollabile nel valore supremo della legge, un amore smisurato per il lavoro ben fatto. Era un uomo pignolo, onesto e rigoroso: ogni lunedì pomeriggio facevano una riunione per fare il punto della situazione e decidere gli atti da fare nella settimana successiva. “Sono il primo avvocato del foro, in ordine alfabetico, ovviamente” aveva detto l’unica volta in cui si era lasciato andare ad un argomento diverso dalla gestione della procedura.<br />Come fa Abbamonte?, si chiedeva Cortese, come si fa alla sua età, con il suo prestigio, ad avere ancora l’entusiasmo di un praticante alla prima settimana di Tribunale?<br />Pensare ad Abbamonte era o il preludio o il corollario a quella terribile e disperante strofa di Vecchioni.<br />Arrivò a casa svuotato, quella sera; uscendo dal garage montò sulla sua faccia qualcosa che poteva somigliare ad un sorriso. Gaia poteva averne bisogno.<br />***<br />“Allora andiamo?”; Puglisi era spuntato dalla porta preceduto dai granelli di forfora che cadevano dalla giacca blu.<br />“Solo un secondo” disse Cortese.<br />Premette il tasto Esc del computer; il salvaschermo a tubi si dissolse ed apparve la maschera iniziale di Windows. In tutto il pomeriggio non aveva aperto neanche un file. Per la verità non ricordava come aveva passato il tempo dalle quattro alle otto.<br />La mattina aveva trovato un espediente.<br />Alle dieci e mezza aveva preso la borsa, con dentro un’edizione tascabile del Testo unico e un codice delle società e nient’altro, bofonchiando un “Vado in Tribunale” abbastanza credibile.<br />Entrando nella A4 aveva acceso al massimo l’aria condizionata, era riuscito a non cadere nella tentazione – punizione di accendere il cd ed era partito. Era passato davanti al Tribunale; era andato oltre, un chilometro più avanti c’era l’ingresso dell’autostrada, il pigolio del Telepass, si era diretto a caso, verso Nord e dopo tredici chilometri si era fermato all’Autogrill.<br />Aveva trovato miracolosamente un posto all’ombra, era sceso ed era entrato nell’Autogrill: l’aria fresca del locale gli era piaciuta, come il fatto di essere in un bar dove non conosceva nessuno.<br />Aveva preso un cappuccino senza infamia e senza lode e aveva bighellonato vicino agli scaffali dei libri e dei dischi per una mezzoretta. Tornato indietro, aveva comprato la Gazzetta dello sport ed era tornato alla macchina, che adesso era per la metà al sole.<br />Aveva deciso quindi di partire, e si era messo a guidare in autostrada con il giornale poggiato sul volante.<br />Qualche pagina di calciomercato, uno sguardo ai nomi dei cavalli, che di solito lo mettevano di buonumore. Poi alla prima uscita utile aveva lasciato l’autostrada, il tempo necessario per fare l’inversione a U e rientrare in autostrada.<br />Era risalito in studio che era quasi l’una, quasi sereno.<br />****<br />La tavolata da Natalino era allegra e caciarona.<br />Puglisi, le tre ragazze della contabilità (Cortese continua a chiamarle le ragazze anche se la più giovane era sopra i trentacinque), Paola, la segretaria, la moglie di Puglisi, Piero e Angela, i due colleghi – collaboratori di studio, che a forza di stare sempre insieme a fare ricerche si erano fidanzati ed un ragazzo che Cortese non riconobbe.<br />“Quello chi è?” chiese sussurrando Cortese a Puglisi.<br />“Si capisce che stai sempre recluso da un mese a questa parte; è Federico Chiari, il figlio del professor Chiari. Ti ricordi quel mio collega, che è morto di tumore tre anni fa, quello che recitava, spesso anche durante le lezioni di tecnica. Si era fatto promettere che avremmo fatto fare la pratica al figlio da noi”.<br />“Ah già, ora mi ricordo” disse Cortese. Fissò il ragazzo, esile, quasi malaticcio, con una giacca a scacchi beige e marroni ed una polo a strisce rosse e blu, messe una sopra all’altra in maniera evidentemente casuale.<br />La serata scorreva più o meno sui suoi binari: antipasto maremonti, tagliolini zucchine e gamberetti, grigliata di carne con le mitiche patate al forno di Natalino.<br />E poi aneddoti di lavoro.<br />Piero: “Ve la ricordate Fabiola, quella che secondo Michele doveva fare la capo contabile alla società di costruzioni. Io gli faccio: ma le spese di manutenzione, l’eccedenza rispetto al cinque per cento, per capirci, ex articolo 67, la devi riprendere a tassazione. E lei: ma se non è più in vigore ‘st’articolo 67 perché lo devo applicare? E io: in che senso. E lei, seria seria: l’hai detto tu Pié, ex articolo 67 vuol dire che mo’ non esiste più.”<br />E Puglisi: “Allora andiamo alla Finanza per una perizia penale: i finanzieri ci raccontano di tre soci scalcagnati di una snc di costruzioni che vanno dai carabinieri e denunciano che tutta la contabilità della società, roba tipo dieci anni, stava tutta dentro una Uno e la Uno gliel’hanno rubata. E allora il maresciallo che sta scrivendo il verbale gli chiede la targa. E uno dei soci, tutto spedito gli dice tipo Roma 9E2109. Un altro socio gli va sottovoce “come fai a ricordartela a memoria la targa?”. E quello che ha detto la targa gli ammicca verso il monitor della telecamera dell’ingresso, dove si vedeva distintamente la Uno. Insomma, questi pazzi scatenati non solo si inventano che la contabilità di dieci anni entra nella Uno, ma vanno a fare la denuncia proprio con la Uno e dove la parcheggiano? Praticamente all’ingresso della stazione dei carabinieri”.<br />Così, raccontando storie già sentite, ogni tanto parlando dei problemi da risolvere l’indomani, arriva quasi mezzanotte.<br />A un certo punto Paola fece: “Ma lo sapete che Federico fa l’attore?” Tutti si misero a guardare verso il praticante ed il viso malaticcio si accese di imbarazzo. Una delle ragazze: “Dai, recita qualcosa”, altri lo incoraggiano.<br />Dopo un minuto buono, Federico accettò. “Due cose: non mi metto in piedi, perché se no mi sembro il bambino che recita la poesia di Natale. Secondo: non vi faccio un pezzo, ma dato che stiamo facendo un recital di poesie del Novecento, vi recito la poesia di Montale che mi piace di più”<br />“Ok vai Federì” disse Puglisi.<br />Si fece un gran bel silenzio, a tavola.<br />Federico chiuse un secondo gli occhi e quando li riaprì sembrava trasfigurato. Non era più il timido, l’ultimo dei praticanti, era l’attore.<br />Anche il respiro che fece prima di iniziare sembrava il primo verso della poesia, e poi:<br />“Forse un mattino andando in un'aria di vetro,<br />arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:<br />il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro<br />di me, con un terrore di ubriaco.<br />Poi come s'uno schermo, s'accamperanno di gitto<br />Alberi case colli per l'inganno consueto.<br />Ma sarà troppo tardi; ed io me n'andrò zitto<br />Tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.”<br />Era quello l’imbuto in cui tutti i pensieri di quei mesi dovevano finire.<br />Il dottor Cortese cominciò a sudare freddo, avrebbe voluto cacciare fuori il grido più forte del mondo, ma si sentiva come, da bambino, cercava di stare il più a lungo possibile sott’acqua, con le tempie a martellare e i polmoni a bruciare.<br />Cercò di fare finta di niente, ma qualcuno probabilmente riuscì a leggergli il tremendo pallore del viso, qualcuno dovette sentire il rumore delle nocche strusciate sulla paglia delle sedie, fino a farle sanguinare.<br />Si ritrovò in macchina, senza sapere come.<br />Nonostante non fosse una sera calda, mise comunque l’aria condizionata al massimo.<br />Partì, con la mente che non riusciva a fare altro che il minimo per non finire fuori strada.<br />Arrivò davanti al vialetto che portava a casa sua, ma andò oltre. Passò davanti al Tribunale, ma andò oltre, un chilometro più avanti c’era l’ingresso dell’autostrada, il pigolio del Telepass, si diresse a caso, verso Nord, passò l’Autogrill, passò l’uscita dove la mattina aveva fatto l’inversione ad U e continuò ad andare avanti.<br />Tutta la notte, ed altre ore dopo, guidando e guidando, cercando di fare il minimo indispensabile per non finire fuori strada.stefanopz + laralidiahttp://www.blogger.com/profile/15249029335247491670noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9052045044980251020.post-12613387522801198352012-01-25T15:36:00.001-08:002012-01-25T15:36:29.458-08:00LA VITA DEGLI ALTRI<br /><br />“No, mamma, non ti preoccupare. Non ho problemi a stare da sola …<br />No, soldi ce ne ho …<br />Questo weekend non penso. Il prossimo …<br />Va bene, ciao, salutami papà”<br />Lea preme il tasto di fine conversazione e va in bagno a lavarsi la faccia.<br />Dormire, non aveva dormito.<br />Dopo una settimana di tregua, i suoi vicini avevano ricominciato le litigate notturne.<br />‘Ce lo sai: so’ tornato solo pe’ li regazzini’<br />‘Co lei sì che l’avevi trovata l’America’<br />‘Ma guàrdate, sei ‘na poverina; che me rappresenti’<br />‘Nun è che sei stronzo, sei er gran capo dei stronzi’<br />Qualcuna di queste frasi Lea se le ricordava il mattino dopo; un paio di volte erano volati piatti; lui aveva una voce che sembrava Verdone quando diceva “Perché è l’amore che vince e l’odio che perde”; lei certe volte piangeva sommessamente, certe volte urlava parolacce miste a lacrime.<br />E ‘li regazzini’ non si sentivano mai. Ma Lea non pensa ai due (o più) poveri bambini; pensa a quante volte deve aver incontrato i suoi vicini al bar o alla latteria; sono i vicini, ma del palazzo accanto, e quindi non fanno parte di quelli che Lea incontrava ogni giorno in ascensore o nell’androne e con cui scambiava un grugnito.<br />Lea fa un paio di respiri più profondi, poi si veste, da battaglia, maglione norvegese, jeans e anfibi. Si mette un barbour e prende il tubo dei progetti.<br />Si dà un ultimo sguardo prima di uscire di casa, su uno specchio che ha messo apposta, attaccato alla porta d’ingresso. Ci vede una ragazza, una donna, di trent’anni. Il primo filo bianco sulla tempia sinistra l’aveva festeggiato come segno di maturità; ormai le sembra ora di pensare ad una tintura.<br />**<br />Esce dalla casa, a San Lorenzo; da un paio di mesi ormai la ragazza con cui divideva la casa e le spese se ne era andata via, era andata a convivere con il ragazzo.<br />Ma Lea pensa di farcela, in fondo la casa è di sua zia e l’affitto di 350 Euro è solo perché è la nipote e così via. Lea prende mille Euro al mese, collaborazione coordinata e continuativa.<br />San Lorenzo porta più segni dello scudetto della Roma del 2001 che del Natale imminente.<br />Lea va al bar e si prende un latte macchiato e un cornetto integrale.<br />Dietro di lei un ragazzo, primi anni d’università, sta dicendo ad un amico: “Totti nun po’ giocà da seconda punta; je devi mette qualcuno davanti, mejo se grosso”.<br />Corriere dello sport in mano, gesti netti, cappello amaranto.<br />Lea esce dal bar, contenta di potersi dimenticare almeno di questo ragazzo.<br />Cammina verso Termini, tiene gli occhi bassi e ci sente dentro qualche sassolino, per la notte che è stata.<br />Scende le scale mobili e le scale normali di tutti i giorni e arriva ai treni.<br />L’aria sa di metropolitana, di sudore invernale.<br />Il treno arriva e non è neanche troppo pieno. Lea entra e si abbarbica alla sbarra al centro del vagone.<br />Quello più alto ha un vestito quasi nero, un po’ lucido sulle maniche ed una borsa di pelle nuovissima; quello più basso ha un cerotto perché deve essersi tagliato radendosi.<br />Quello alto dice: “Se pensa di farmi le scarpe si è sbagliata di grosso. Almeno due volte Guerrieri se l’è portata a pranzo, e non mi fare dire la parola che vorrei dire. Facile fare carriera così”.<br />Quello basso risponde: “Giacomo che c’ha lavorato insieme, dice che nel complesso qualcosa capisce, ma in fondo si impegna”<br />“Sì, a capirci ancora di meno”<br />Ridono e scendono a Cavour.<br />Lea socchiude gli occhi; non ha più neanche bisogno di chiuderli, a volte.<br />Il più alto si chiama Alberto, il più basso Giampiero. Arrivano in ufficio. Si salutano rapidamente. Alberto arriva nella sua stanza, non proprio luminosa, con una scrivania un po’ incasinata. Lei, Viola, è già lì; bella è bella, ma non ha troppo gusto nel vestire. Stamattina poi si è messa un fermaglio di finto visone che è inguardabile. Alberto dice ciao, o fa un rumore simile. Alberto esce un paio di volte dalla stanza e va da Giampiero e si lamenta del profumo che è un po’ troppo forte. Dieci minuti prima della pausa pranzo squilla l’interno di Viola; lei alza il ricevitore e le si illuminano gli occhi. ‘D’accordo, all’una e venti’. Alberto capisce subito. Viola chiede ad Alberto una piccola informazione su come impostare una pratica; Alberto le sibila: ‘Chiedi a chi capisce più di me; frequenti così spesso certe persone’. Viola diventa di sale: ‘sono in questa stanza da due settimane e tutte le volte che ti chiedo qualcosa mi tratti male; certe volte mi sembra di leggerti il labiale mentre dici troia. Pensi davvero che qualcuno mi giudicherà mai per quello che valgo realmente? E se a te ti chiamasse Guerrieri per andare a pranzo ci andresti, o no?’. Alberto la guarda e per una volta prova a andare un po’ oltre quegli occhi neri neri ed il naso perfetto. Viola annuisce, per prima a sé stessa, prende il telefono. ‘Dottor Guerrieri? Mi ha chiamato un cliente, devo stare lì alle due, possiamo fare domani? … Ok … perfetto. Buon pranzo’ riattacca. Poi guarda Alberto senza sguardo di sfida e fa: ‘Ho due yogurt 0,1 di grassi e due cucchiaini di plastica. Io e te adesso facciamo una colazione di lavoro’.<br />***<br />Lea arriva a Eur Fermi e torna all’aria aperta. “E quindi uscimmo a riveder le stelle”, pensa Lea tutti i giorni, tutte le volte che esce da una stazione della metro.<br />Il grattacielo in cui sta la Tecnoprogetti non è molto lontano e le due gocce d’acqua che stanno cadendo non le fanno nulla. Lea cammina con le mani nelle tasche del barbour, il tubo a tracolla e si mette a pensare al lavoro.<br />Entra in ascensore, dove l’odore è quasi quello della metropolitana.<br />Suona il campanello, perché ai collaboratori non è stata data la chiave e le apre Gwen, una ragazza inglese che cura tutte le relazione internazionali della società. Gwen ha un sorriso stanco e i capelli rossi praticamente fradici.<br />Lea comincia a girare angoli e a camminare corridoi fino a raggiungere le stanze del team di architetti che sta lavorando al piano regolatore di una cittadina della costa abruzzese.<br />Lea è arrivata per prima; accende il computer, controlla la posta alla casella leaarch @ tecnoprogettispa.it e ci trova un’e-mail dell’architetto che fa da appoggio nella cittadina, che ogni tanto le manda qualche messaggio con dentro piccoli risvolti personali.<br />Lea cancella il messaggio, pensando a quale motivo possa spingere una persona a parlare di stati d’animo ad un’altra persona che ha sentito due volte per telefono e che non ha mai visto.<br />Lea si ricorda a quel punto, con un po’ di rabbia, che non la avevano fatta partecipare alla riunione che il corrispondente abruzzese aveva avuto con quasi tutto il team; si mette a pensare se mai la faranno partecipare a qualche riunione importante con colleghi o con committenti; si mette a pensare ad un contratto che sarebbe durato fino al 31 luglio.<br />Poi arriva Luigi, che divide con lei computer e tavolo da disegno, anche lui collaboratore coordinato e continuativo, che le fa un cenno di saluto un po’ freddo; Lea si chiede ogni giorno come faccia, con moglie e due figli piccoli a carico, a spendere tanti soldi per quelle cravatte nuove.<br />Poi via via, arrivano tutti gli altri e la mattinata va avanti secondo il suo binario.<br />Il suo capo, l’architetto Martini, chiede a Lea di andare a fare una quindicina di fotocopie di una delibera di incarico e Lea si fa quel paio di corridoi che la separano dalla stanzetta mezzo archivio e mezza sala copie. Si ferma ad un cinque-sei metri dalla sala copie, per leggere un sms di sua sorella sulle ultime peripezie di Buddy, il suo devastante bassotto.<br />Le pare di sentire dalla sala copie qualcosa come “Basta”; la gomma degli anfibi non fa troppo rumore e sente un “A dopo” e le pare di vedere due mignoli allacciati.<br />Con qualche foglio di carta in mano ciascuno Luigi e Gwen stanno in piedi davanti alla fotocopiatrice, più di taglio che davanti. Gwen fa un paio di fotocopie e va via, Luigi ne fa una decina e va via. Dicono cose del tipo “Fatto” o “Ok”.<br />Poi Lea comincia a fare fotocopie ed è chiaro che si distrae; alla quarta fotocopia chiude gli occhi.<br />Gwen scende dalla sua Yaris; manca ancora mezz’ora all’inizio dell’orario di lavoro, ma ha continuato la Colombo fino a dopo il Palasport, poi prende una strada a destra e dopo trecento metri vede la Focus di Luigi parcheggiata; riesce a trovare un buco in una piazza un po’ fuori mano e poi sale sulla Focus, che nel frattempo l’aveva seguita. Luigi si sistema velocemente la cravatta nuova poi avvicina il viso e la bacia vicino all’orecchio; sorride ‘Non possiamo continuare a vederci così’. ‘Questa battuta non mi fa più ridere’. Gwen risponde stizzita. ‘Mi sono fatta un’altra notte senza dormire e non ne posso più. Jimmy si sveglia e dice Che hai, e alla cazzata che sono sempre stanca come fa a crederci ancora?’ ‘Io non riesco a evitarmi di pensarti. E tutte le volte che ti vedo ho la gola che mi si chiude. Vorrei fare switch off, come dici tu, ma non ci riesco’. Gwen abbassa gli occhi: ‘Neanche io ci riesco, ma che senso ha. Tua moglie, i bambini …’ Il parabrezza si è appannato e due signore sulla sessantina con l’ombrello se ne stanno ferme accanto al finestrino del passeggero. ‘Luigi, ti prego, metti in moto, parliamo mentre guidi’. Se ne stanno zitti, mentre comincia a piovere; Luigi prende la mano a Gwen, poi la lascia per poter cambiare marcia. Il silenzio si è fatto troppo pesante. ‘Ti prego, accosta. Accosta qui’. Luigi non vorrebbe accostare, dice a Gwen che la macchina è lontana, ma poi capisce che cercare di fermarla adesso potrebbe essere peggio. Accosta. Gwen scende. Luigi riparte e Gwen si sforza di non guardare la macchina andare via. Si mette a camminare, quasi a correre, verso la sua Yaris. Poi comincia a piovere e quando arriva in macchina è praticamente zuppa. I capelli color rame le si attaccano al viso; sente le guance in fiamme. Riesce a trovare un parcheggio vicino all’ufficio e si trova al lavoro con una decina di minuti di anticipo. Corre a prendere un caffè alla macchinetta, poi sente suonare alla porta, va ad aprire. Sono io.<br />Lea si scuote, finisce di fare le fotocopie e se ne torna verso la stanza trascinando un po’ gli anfibi.<br />****<br />Il pomeriggio passa senza che Lea alzi quasi mai la testa dal monitor; Lea si siede con un ginocchio sopra la sedia e il peso sulla gamba ed ogni mezz’ora fa tre passi per vincere il formicolio.<br />La giornata di lavoro finisce, e dopo qualche saluto di circostanza, Lea si infila nell’ascensore e poi per strada e poi la metro.<br />Nella metro si sente un po’ soffocare e quindi decide di scendere a Cavour e di farsi a piedi un bel po’ di strada, tanto l’aria le sembra fredda, ma secca.<br />Cammina con le mani in tasca, il tubo è rimasto alla Tecnoprogetti.<br />Mentre aspetta che il semaforo per i pedoni diventi verde, un vecchio con un vecchio piumone blu e un sacchetto con dentro tre lattine di Nastro Azzurro, sussurra qualcosa del tipo “Stavolta lo deve capì”. Dall’altra parte della strada una signora, forse la moglie, lo fissa, con lo sguardo di chi sta per rimproverare qualcosa.<br />Scatta il verde, il vecchio attraversa la strada con lentezza e quando arriva accanto alla moglie i due non si scambiano nemmeno un cenno, ma cominciano a camminare affiancati e alla fine Lea li vede sparire in un portone.<br />Il vecchio poggia il sacchetto delle birre sul tavolo. Il tavolo è di formica verde, e ricorda i vecchi banchi di scuola; le piastrelle della cucina sono di un giallo malato e la casa odora di brodo di pollo, fatto e poi riscaldato tre o quattro volte.<br />“Il dottore te l’ha detto decine di volte. La bira non te la devi bere” lei è quasi materna.<br />“Nu’ lo voi capì; c’ho settantott’anni, che te credi che se bevo de meno campo nantri sei sette anni?”<br />“Puzzi sempre come un barbone, c’hai gli occhi da ‘mbriaco”<br />“A Terè, sai che dico: ma che me frega”.<br />Il vecchio si prende la prima birra e se la porta nella stanza da letto, che fa pure da salotto quando, una volta ogni due mesi, la loro figlia li viene a trovare.<br />Il vecchio si beve la prima birra a stomaco vuoto. Il dottore gli ha detto che se continua così non gli dà più di sei mesi e da quando glielo ha detto, lui ha deciso di bersi una birra anche a stomaco vuoto. Così si dimentica tutto quello che può e quando quel cavolo di brodo di pollo è caldo, alle sette e un quarto puntuale ogni sera come una littorina, il vecchio è già così ubriaco che riesce quasi a scordarsi della moglie.<br />Lea arriva a Termini. La galleria che attraversa Termini da una parte all’altra è un posto dove Lea si sente felice.<br />*****<br />In surgelatore ci deve essere una busta di spinaci filanti, ma una mozzarella vicino ci starebbe bene. Così Lea entra dentro l’alimentari del sor Fernando, che continua imperterrito a vendere yogurt scaduti e a fregare sul peso.<br />Le mozzarelle però sono sempre fresche e Lea ne compra una da due etti.<br />Sta entrando una signora oltre la quarantina, con un’adolescente, con il mento infilato dentro al collo di un brutto giubbotto. “Allora che vuoi, stasera?” fa la madre. Nessuna risposta. “Cosa vuoi che ti faccio?”. Nessuna risposta. Dopo trenta secondi di silenzio, la ragazza fa in un sibilo “Fa quello che ti pare, come sempre”.<br />Lea paga la mozzarella e esce dall’alimentari.<br />Entra nel palazzo, supera l’enorme androne buio e non troppo pulito e chiama l’ascensore.<br />Entra meccanicamente dentro l’ascensore; la luce è rotta e Lea chiude gli occhi.<br />Valentina cammina due passi dietro alla madre. Ha sempre il mento infilato nel collo del piumone. Entrano in un palazzo; l’androne è buio e non troppo pulito. Salgono a piedi ed arrivano al secondo piano. Entrano in una casa che sa di alcool buttato qua e là in pulizie veloci e sommarie.<br />Oltre alla cucina ed al bagno ci sono solo due stanze.<br />Valentina va nella sua e si chiude a chiave.<br />Resta un’ora stesa sul letto, con la faccia sul cuscino.<br />In cucina la tele grida un cavolo di quiz e poi la sigla del TG1. “Valentì, andiamo, che la cena è pronta” sua madre urla per superare il volume della tele.<br />Valentina trascina i piedi verso la cucina; nel suo piatto c’è una mezza frittata. L’odore di fritto è così forte che sua madre ha aperto la finestra della cucina e quella della sua camera per fare corrente.<br />Mangiano in silenzio. Sua madre le vorrebbe dire ‘che c’hai’. Valentina sa già che pulirà velocemente la cucina e alle nove starà già a letto. Alle quattro la passerà a prendere una collega con cui fa le pulizie in una banca all’inizio della Colombo.<br />Valentina vorrebbe chiedere, perché papà l’hai mandato via, perché non ci passa un soldo e mi tocca andare in giro con gli stessi jeans tutti i giorni, perché sono due anni che non andiamo al mare, perché devo studiare quando Martina e Luana vanno a lavorare e fanno i capelli alle signore e i soldi per le sigarette non li devono rubare dal portafogli di mamma.<br />Valentina si mette a guardare un film. Ha una voglia matta di una sigaretta, ma se si fa beccare a fumare dentro casa, sua madre l’ammazza.<br />Lea esce dall’ascensore.<br />Prende la padella e ci butta dentro gli spinaci filanti.<br />Prende mezza mozzarella, la taglia a fette sul pane e la mette un paio di minuti nel microonde per farla sciogliere. L’altra metà se la mangia a mozzichi mentre prepara gli spinaci.<br />Il film non è pessimo e si fanno le dieci e mezza senza problemi. Lea manda un sms a sua sorella, aspetta la risposta, poi manda uno squilletto di fine conversazione.<br />Alle undici è a letto.<br />All’una meno un quarto, stavolta è lei a cominciare<br />‘Manco tu’ madre te sopporta più’<br />‘Lascia sta’ mi’ madre; pensa a te come madre, piuttosto’<br />Lea sta un’ora buona, le mani incrociate sotto la testa, con gli occhi aperti, a sentirli gridare.stefanopz + laralidiahttp://www.blogger.com/profile/15249029335247491670noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9052045044980251020.post-44207733021121592552012-01-25T15:35:00.003-08:002012-01-25T15:35:55.738-08:00IL CUSTODE<br /><br />Quando passò davanti alla pasticceria l’ingegner Spinosa provò un brivido.<br />Prima che chiudesse lo stabilimento, faceva colazione in quella pasticceria tutte le mattine, un cornetto alla crema e un latte macchiato.<br />Oramai, la colazione al bar era entrata a far parte di quelle spese voluttuarie che aveva dovuto eliminare. Faceva colazione in cucina, con sua moglie, con il tè e un paio di fette biscottate.<br />Era dura inventare scuse con gli amici, quando lo invitavano in qualche ristorante un po’ caro: sperava sempre di convincerli che per stare bene in compagnia bastavano una pizza e una birra.<br />Lo stabilimento era chiuso dal 17 aprile del 2001, il martedì dopo Pasqua.<br />La società era in crisi ormai da qualche anno, ma nessuno pensava che potesse chiudere proprio lo stabilimento della città dove la famiglia Palladini abitava.<br />L’ingegner Spinosa era stato uno dei primi a sapere della chiusura, a metà gennaio, ma non l’aveva saputo da uno dei Palladini. Era stato il suo capo, l’ingegner Baldesi, direttore generale area industriale, ad avvertirlo.<br />Spinosa, nei primi tempi, l’aveva tenuto per sé: non aveva detto nulla in famiglia ed ai suoi collaboratori.<br />A fine marzo la notizia era cominciata a trapelare e dal primo al 17 aprile lo stabilimento era formalmente aperto, ma era occupato.<br />Il 18 aprile era semplicemente sbarrato; l’ingresso degli operai era chiuso con un lucchetto, così come anche quello degli uffici amministrativi.<br />A fine agosto la società era fallita; invece che dai lucchetti, le porte erano state chiuse dai sigilli del Tribunale.<br />Spinosa, come tutti, del resto, a quel punto era senza stipendio dal dicembre 2000.<br />Spinosa superò la pasticceria, salutò un paio di vecchi colleghi che bighellonavano in piazza; al semaforo dopo la piazza c’era ancora la freccia “Tecnocarta Palladini” e Spinosa seguì la freccia.<br />In tutta la città era l’unico ormai ad andare allo stabilimento.<br />Dall’inizio del 2002 il Tribunale fallimentare lo aveva nominato custode.<br />**<br />Spinosa cacciò fuori dalla tasca un mazzo con una cinquantina di chiavi. Erano le chiavi degli uffici, dello stabilimento, dei magazzini, degli spogliatoi, della mensa, di altri edifici all’interno del recinto dello stabilimento, della palazzina dell’amministrazione, che stava in una villetta poco fuori città.<br />“Sembri San Pietro”, la battuta di sua moglie, il primo giorno in cui era andato a fare il custode era stata fin troppo facile.<br />Aprì il lucchetto degli uffici amministrativi, recitò a memoria il cartello che c’era scritto sulla porta a vetri: “Tribunale di *** - Immobile chiuso per ordine dell’autorità giudiziaria. Fto Il Cancelliere”.<br />Tolse i due bigliettini della società di vigilanza dalla porta ed entrò nella palazzina uffici.<br />La prima stanza era piena di vecchi tabulati; Spinosa controllò che la finestra fosse ben chiusa e poi entrò nella seconda stanza, dove c’era il centralino.<br />Poi salì le scale e andò a controllare la sala riunioni grande, dove il curatore ed i suoi coadiutori avevano riunito tutta la documentazione contabile. L’enorme tavolo, attorno al quale c’erano quattordici sedie, era per metà ricoperto dei libri contabili degli ultimi anni: l’altra metà era l’unico tavolo che veniva tenuto pulito. Spinosa con un po’ di Scottex e di Pronto gli dava ogni tanto una botta per poter consultare i registri e le fatture senza riempirsi di polvere.<br />Entrò poi nella stanza che era stata di Rossella, la sua segretaria.<br />La stanza era ordinata, come era sempre stata ordinata nei dieci anni in cui Rossella era stata la segretaria del direttore dello stabilimento.<br />Sul tavolo c’era la copia di una lettera del 31 marzo 2001, in cui Spinosa rispondeva alla Erin Moran, una delle migliori clienti, che lamentava problemi di qualità sull’ultima fornitura.<br />La lettera aveva protocollo 01/48 ES/RS, la quarantottesima lettera del 2001 spedita a firma dell’ingegner Egidio Spinosa e redatta da Rossella Solvino.<br />Era l’ultima lettera partita dal suo ufficio e nei giorni più bui aveva pensato che era l’ultima lettera da lui scritta per motivi di lavoro.<br />Uscì fuori dagli uffici e si diresse verso la stabilimento.<br />Salì su una vecchia Graziella, che aveva scovato facendo le pulizie in garage e che gli serviva per raggiungere le parti più lontane dello stabilimento, come il depuratore, che era a quasi un chilometro dall’ingresso.<br />Fece il primo giro nel perimetro dello stabilimento, per vedere se c’era traccia di una qualche intrusione notturna.<br />***<br />Qualche giorno prima di Natale del 2001, aveva ricevuto un telegramma a casa. Il testo era più o meno questo: “Contattare senza indugio avv. Abbamonte curatore fallimento Tecnocarta Palladini per restituzione immediata auto indebitamente in vostro possesso”.<br />L’ingegner Spinosa aveva chiamato più inviperito che preoccupato, ed il 21 dicembre del 2001, alle cinque, si era presentato presso lo studio dell’avvocato Abbamonte.<br />Dopo una stretta di mano un po’ distratta, Spinosa, che pure non era un tipo aggressivo, aveva esordito a voce piuttosto alta. “Mi ha preso per un ladro? Sarà pure vero che ce l’ho in giardino quella macchina, ma non la tocco da mesi”<br />“Un attimo, un attimo”. Abbamonte aveva preso in mano una delle venti-venticinque pipe che aveva su un mobiletto accanto alla scrivania. “Si figuri, ingegnere, se la prendo per ladro? Abbiamo avuto un colloquio con il presidente del consiglio di amministrazione, il quale ci ha riferito, tra l’altro, che lei aveva assegnata una … vediamo … una Seat Arosa targata BD 219 SP, di proprietà della società”.<br />Spinosa avrebbe voluto chiedere che fine aveva fatto la Mercedes 500 SEC del presidente del consiglio di amministrazione.<br />“Avvocato, mi dica cosa devo fare” aveva invece detto.<br />“Guardi, dovrebbe semplicemente consegnarmi le chiavi ed il libretto” aveva risposto Abbamonte. Poi aveva continuato: “Lasciamo stare per un attimo la macchina … Lei che ruolo aveva nella società?”<br />“Ero il direttore dello stabilimento di ***”<br />“Direttore dello stabilimento” Abbamonte si concentrò un attimo. “Bene. Senta, ha dei problemi se attende un quarto d’ora? Vorrei farla parlare con lo stimatore della procedura”<br />Spinosa aveva soltanto annuito; per il quarto d’ora non c’era problema, il tempo non era un problema da mesi.<br />Esattamente un quarto d’ora dopo, un ometto oltre la cinquantina con un brutto maglione a V ed un paio di vecchi pantaloni di velluto si presentò come l’ingegner Salvatori.<br />Avevano parlato per un’ora dello stabilimento, delle produzioni, di quali macchine erano più commerciabili e quali meno, degli interventi di manutenzione che potevano essere necessari per mantenerle comunque in grado di funzionare.<br />Per Spinosa fu come rinascere: non parlava dello stabilimento da mesi e non parlava con qualcuno competente da mesi.<br />Se ne andò verso le sette con la sensazione di potersi ancora aggrappare a qualcosa.<br />La mattina dopo Abbamonte lo aveva chiamato: in maniera asciutta e senza nessun fronzolo aveva detto: “Ingegnere, abbiamo bisogno di qualcuno che custodisca lo stabilimento, vigili per evitare pericoli e controlli le macchine per evitare che perdano di valore. Ci serve inoltre per dare una mano nelle operazioni di migliore inventariazione delle macchine ed in tutte le fasi di liquidazione dell’attivo. L’ingegner Salvatori ed io riteniamo che lei sia la persona che per competenza e conoscenza dei luoghi possa svolgere questo ruolo per la procedura, a meno che non abbia altri impegni”.<br />Dal giorno dopo Capodanno ebbe in mano l’enorme mazzo di chiavi e 1.250 euro al mese.<br />****<br />Vicino al depuratore trovò due siringhe, ma ormai c’era abituato.<br />Si accese una sigaretta; tutte le volte che l’accendeva pensava che le sigarette erano certamente una spesa voluttuaria, ma poi si giustificava con tutti i problemi che c’erano stati negli ultimi tempi; e poi, in fondo, fumava due sigarette in tutto il giorno, la prima al depuratore e la seconda subito dopo il caffè, sul balcone di casa.<br />Gettò la sigaretta in mezzo ai mozziconi dei giorni precedenti e riprese il giro.<br />Con la Graziella arrivò al deposito prodotti finiti; era stato il primo locale ad essere svuotato, per quelle forniture che erano rimaste sospese al momento del fallimento.<br />Era riuscito ad evitare che il curatore svendesse il materiale, esaminando in maniera piuttosto dettagliata le offerte.<br />Il deposito aveva un lieve strato di polvere, forse sabbia della piccola cava vicina, e su quel pavimento di cemento e sabbia poteva riconoscere le sue impronte dei giorni precedenti: cercava sempre nuovi itinerari per sentirsi come quei bambini che camminano per primi sulla spiaggia dopo che è passato il trattore per arare via la sporcizia.<br />Ormai per continuare il suo gioco privato era costretto a passare quasi radente ai muri. Anche per la notte passata nessuno era entrato nel deposito.<br />Si diresse quindi all’interno del capannone nuovo, che chiamavano così da quando, dieci anni prima, era stato costruito vicino al vecchio che di anni ne aveva più di quaranta.<br />Dentro al capannone nuovo c’era una vecchia linea di produzione, che forse il curatore sarebbe riuscito a vendere come ferraglia. La società l’aveva comprata usata e aveva cercato di farla passare per nuova per un finanziamento regionale, mai ottenuto.<br />Vicino allo spogliatoio degli operai vide un pacchetto vuoto di MS, e pensò “Diavolo, Iordan”. Raccolse il pacchetto e se lo mise in tasca al giubbotto, riproponendosi di riprendere Iordan con la voce impostata e severa che aveva quando teneva le riunioni del Circolo qualità.<br />Sorrise pensando alle riunioni di quel Circolo qualità che gli aveva occupato la mente e la scrivania per mesi: i Palladini erano arrivati a capire che la qualità potesse essere importante solo al terzo cliente che li aveva abbandonati perché non erano certificati.<br />Spesso si affaticavano nell’organizzare feste magnifiche nella villa ad un chilometro dallo stabilimento dall’altra parte del fiume, o nelle riunioni dell’Associazione degli industriali o, più spesso del Rotary: spendere un centinaio di milioni di lire per la qualità appariva una spesa inutile.<br />Il Circolo qualità si riuniva in un gabbiotto in fondo al capannone nuovo.<br />E dentro il gabbiotto, sopra quello che era il divano per gli ospiti di riguardo, sonnecchiava Iordan.<br />****<br />Certamente avevano comprato una casa troppo grande, una villa con giardino un paio di chilometri fuori dal paese; certamente il mutuo per la casa era eccessivamente pesante, un 6 e mezzo per cento a tasso fisso che ormai era alle soglie dell’usura.<br />Ma i soldi, quelli veri, quelli che aveva messo da parte in un paio di decenni di lavoro, quelli erano volati via in un anno.<br />Sua moglie aveva avuto un tumore, e ne era uscita. Ma ne era uscita dopo un anno di viaggi della speranza a Parigi, cliniche private e nessun rimborso da parte dell’assicurazione sanitaria, con cui erano ancora in causa.<br />I soldi erano finiti, alla fine del 99: anzi in banca stavano sotto di una venticinquina di milioni. Per fortuna il direttore era un vecchio amico di famiglia ed era riuscito a reggere la situazione il più possibile: trecentocinquanta Euro al mese se ne andavano in un piano di rientro, che alla fine era stato il male minore.<br />Ma i soldi erano finiti e il lavoro non c’era più.<br />Certe sere la moglie di Spinosa si metteva a fissare un pensile della cucina dietro le sue spalle e gli occhi si perdevano appresso a tutto quello che sembrava essere la loro vita fino a qualche anno prima.<br />Spinosa lo sapeva: sua moglie si sentiva in colpa per essersi ammalata e per tutti i soldi che erano serviti per curarla; una notte era convinto di averla sentita sussurrare “Fossi morta”.<br />Certe volte Spinosa pensava che era una prova, che qualcuno aveva deciso di accanirsi contro di lui per metterlo alla prova: erano rimasti praticamente da soli, lui e sua moglie, le ragazze, all’università, a Roma, per fortuna erano abbastanza brave da poter andare avanti senza incidere troppo sulla famiglia, con borse di studio e mille sacrifici al limite degli espedienti.<br />Proprio la domenica prima le ragazze erano tornate e aveva letto nei loro occhi l’orgoglio per un padre che stava lottando per tutti e quattro.<br />*****<br />“Iordan” sussurrò Spinosa, “Iordan”.<br />Iordan si girò; dormiva vestito, aveva la barba lunga e la pelle di un colore malato.<br />“Ingeniero …” Iordan sbadigliò. “Che ora sono?”.<br />“Quasi le nove e mezza. Ma che fai oggi, non lavori?”<br />“Padrone detto cantiere finito, operai a casa”<br />Iordan sospirò.<br />Spinosa una mattina aveva trovato Iordan su quel divano; da qualche giorno vedeva qualche traccia della presenza di qualcuno, una lattina nascosta non troppo bene, un cartone di un McBacon.<br />Iordan era rumeno e lavorava a nero per un artigiano edile, che dopo essere fallito aveva fatto fare ai suoi operai una cooperativa.<br />Quando aveva guardato negli occhi Iordan, la prima volta che l’aveva visto, ci aveva letto una storia di speranza, sfruttamento e dignità, la storia di una persona che chiedeva di lavorare per vivere.<br />Una storia di tanti piccoli e grandi padroni che un giorno, bello o brutto che sia, avevano detto cantiere finito, operai a casa.<br />Il fornellino da campo su cui la mattina Iordan scaldava il caffè veniva dal garage dell’ingegner Spinosa: anche i brutti pantaloni di fustagno che stavano piegati sopra il tavolo riunioni del Circolo qualità venivano dall’armadio di casa Spinosa, settore pantaloni smessi per incremento taglia.<br />Soldi, Iordan, non ne aveva mai voluti da nessuno, lo stipendio, a quanto aveva capito Spinosa, andava quasi tutto in Romania.<br />“E adesso che farai?”<br />“Cugino Marius, lavorava con me anno scorso, sta a Roma; dice a Roma trova lavoro a me a case private”<br />“Quindi vai via?”<br />“Domenica vado a Roma; lui ci ha casa vicino stazione e per un poco dorme là. Poi vediamo trovare altro.”<br />“In zona?”<br />“Qua più niente; qualche volta vado dentro casa per lavoro e dicono straniero ruba e non vogliono. Spero Roma”.<br />Spinosa mise la caffettiera sul fornello. Non si era mai chiesto se quella busta di caffè Splendid che aveva portato a Iordan una settimana prima fosse una spesa voluttuaria.<br />*****<br />Una volta aveva provato a parlare con il dottor Palladini, dopo la chiusura dello stabilimento.<br />Qualcuno aveva detto che in realtà la famiglia aveva ancora uno stabilimento in Tunisia, qualcun altro che la famiglia aveva nascosto un tesoro in Liechtenstein.<br />Aveva incontrato il dottor Palladini per caso, in un ristorante dove l’ingegner Spinosa era stato invitato per una Comunione; in un’altra sala il dottor Palladini era impegnato in una festa identica a quella di Spinosa, anche se sembrava che il ristorante rispettasse una sorta di divisioni per caste.<br />Il dottor Palladini stava con sua moglie e con il più grande dei figli, che per un po’ di tempo era stato ribattezzato Direttore progetti speciali, senza che ciò richiedesse di conoscere l’esatta ubicazione dello stabilimento.<br />L’ingegner Spinosa guardò i tre Palladini da lontano, ormai più di un anno dopo il fallimento: sembravano felici, o quantomeno tranquilli, con facce non troppo dissimili da quelle con cui ricevevano nella grande villa per uno dei proverbiali ricevimenti.<br />Dal giorno della chiusura dello stabilimento nessuno dei Palladini aveva partecipato a nessun incontro per la riapertura dello stabilimento, né avevano mai risposto ai sindacati che li avevano chiamati in causa sui giornali, né avevano mai parlato con il sindaco, né avevano partecipato ad uno dei quattro consigli comunali straordinari sul futuro dello stabilimento, quando un paio di centinaia di dipendenti, di familiari, di bambini, di donne incinte, avevano aspettato che il sindaco o chi per lui cacciasse dal cilindro un cavaliere bianco che salvasse lo stabilimento e, quindi, la città da qualcosa che somigliava troppo alla disperazione.<br />Dal giorno della chiusura soltanto silenzio, nient’altro che silenzio; certo, niente più feste in villa, niente più Mercedes o Range Rover, ma neanche una parola, neanche mezzo gesto.<br />E dentro quel ristorante il dottor Palladini, come sempre di un’eleganza discreta, ma distinta, strinse la mano all’ingegner Spinosa, alla sua vecchia cravatta penzolante da un colletto sbottonato, con un affabile “Salve ingegnere, ho saputo che per sua moglie tutto è andato per il meglio”.<br />E neanche una parola in un più, a posto o fuori posto. Niente Tunisia, figurarsi il Liechtenstein.<br />I bambini, stanchi ma felici, verso le cinque, avevano distribuito le loro belle bomboniere, esattamente come sarebbe dovuto accadere.<br />******<br />Il caffè non era male, anzi, pensò Spinosa con un po’ di malinconia, usciva ogni giorno un po’ meglio; Iordan ci mangiò sopra due Ringo e ne offrì uno a Spinosa che lo mangiò come aveva visto fare alle sue figlie da bambine, aprendolo in due e leccando la vaniglia prima di mangiare i biscotti.<br />Iordan rise: “Ingeniero, sembri bambino”.<br />Spinosa sorrise apertamente, come tutte le volte che Iordan lo chiamava Ingeniero; aveva provato a dirgli il nome di battesimo, ma Iordan, chissà come, era venuto a conoscenza del titolo professionale e lo usava con rispetto.<br />Un ragno si mise a camminare sui pantaloni di fustagno di Iordan.<br />Spinosa si alzò; doveva finire il giro.<br />Strinse la mano a Iordan: “Buona fortuna”<br />“Buona fortuna” rispose Iordan, forse scambiando la frase per una variazione del buongiorno.<br />Spinosa uscì dal Circolo qualità; sapeva che il giorno dopo di Iordan non avrebbe più trovato nessuna traccia.<br />Uscì dal capannone nuovo; controllò i magazzini, gli spogliatoi e la mensa.<br />Quando stava per finire si guardò quell’enorme mezzo di chiavi che gli sbatteva sulla gamba mentre pedalava con la Graziella. Poi alzò gli occhi.<br />Era mezzogiorno meno un quarto e la giornata era incredibilmente tersa.<br />L’ingegner Spinosa fece un bel sospiro.<br />Alle cinque di quel pomeriggio sarebbe stato davanti ad un computer, con in mano il mouse e sul monitor l’Autocad: l’ingegner Salvatori doveva progettare l’ampliamento di un piccolo capannone di una carrozzeria industriale e gli aveva chiesto una mano.<br />“Ma, ingegnere, guardi comunque che è proprio un piccolo capannone” gli aveva detto Salvatori.<br />Mi basta, aveva pensato Spinosa, con la stessa gioia con cui aveva leccato la vaniglia del Ringo, mi basta pure mezzo muro.stefanopz + laralidiahttp://www.blogger.com/profile/15249029335247491670noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9052045044980251020.post-81760198816433019602012-01-25T15:35:00.001-08:002012-01-25T15:35:28.941-08:00UN VOLTO FUORI DAL CONTESTO<br />Il treno che doveva arrivare a Roma alle otto e mezza arrivò effettivamente a Roma alle otto e mezza.<br />Il ragionier Giancarlo Stellati scese con tutta calma perché doveva arrivare dalle parti di Borgo Pio a mezzogiorno e quindi di fretta proprio non ce n’era.<br />Anzi, si rallegrò del fatto che erano anni che non aveva un paio d’ore per girare Roma e decise che a Borgo Pio ci sarebbe arrivato a piedi.<br />Uscito da Termini si fermò qualche secondo a guardare il cielo, che sembrava non promettere nulla di buono. Era stato in dubbio per molto se portare con sé una borsa, ma poi aveva deciso di arrivare a mani libere.<br />Non era il primo colloquio di lavoro degli ultimi mesi e ormai aveva capito che arrivare con la borsa non comportava che l’intervistatore pensasse necessariamente che aveva qualcos’altro da fare nella giornata.<br />La Tecnocarta Palladini era fallita ad agosto del 2001; quindici mesi senza un lavoro ufficiale pesavano ormai troppo sul ragionier Stellati.<br />Del resto, erano stati quindici mesi terribili, per altri versi.<br />Da aprile del 2001 nessuno aveva più messo piede nello stabilimento e quindi il ragionier Stellati si era trovato senza niente da fare; sua moglie non c’era abituata, a vederlo girare per casa.<br />Ma, soprattutto, dopo più di vent’anni, il loro matrimonio si basava più sull’assenza che sulla presenza. Si vedevano la sera, si scambiavano due parole davanti al telegiornale, sceglievano il programma da guardarsi in TV, qualche volta aspettavano insieme che Luca, loro figlio, tornasse da qualche discoteca o pub alle due di notte, di solito senza fiatare. La domenica il ragionier Stellati andava a pesca in un laghetto di pesca sportiva per tutta la mattina, con un paio di colleghi e con un appuntato dei carabinieri, anche se a pranzo pesce non ne mangiavano mai; la domenica pomeriggio era dedicata a fremere per la Lazio, qualche volta in qualche bar con la pay tv.<br />La prima settimana senza andare a lavorare, la presero tutti e due come una sorta di vacanza; da una parte sembrava impossibile che lo stabilimento chiudesse definitivamente, dall’altra uscire a guardare qualche vetrina o a vedere qualche parente divenne un momento di svago inatteso.<br />Dopo un mese fu chiaro a tutti che lo stabilimento non avrebbe riaperto; ma a quel punto ormai il ragionier Stellati non usciva più di casa, spesso senza togliersi il pigiama per tutto il giorno.<br />**<br />Pensava queste cose, il ragionier Stellati, mentre scendeva via Nazionale, guardando più le persone che le vetrine.<br />Il rumore del traffico gli sembrò di colpo quasi insopportabile e decise di entrare in un bar per una spremuta d’arancia; al momento di pagare cacciò qualche moneta e sorrise a pensare che dentro al portamonetine, i centesimi ce li aveva messi sua madre.<br />Il sorriso sfumò in un digrignare di denti; decise che era il caso di affrontare il traffico, anche perché qualche nuvola un po’ più scura sembrava riempire la quota di cielo che spettava a chi passeggiava per la fine di via Nazionale.<br />“Giancà, Giancà, alzati che perdi il treno”, l’eco della cantilena della mamma alle sei e spiccioli stava ancora nelle orecchie.<br />Viveva con sua madre da maggio, sei mesi ormai; una scelta obbligata e perché così non c’era affitto da pagare e perché poteva contare su un po’ d’aiuto con la pensione di reversibilità di sua madre.<br />Sua moglie l’aveva cacciato di casa a gennaio; ma cacciato non era la parola giusta.<br />La loro convivenza era giunta al suo fisiologico termine: sua moglie faceva la maestra e accanto allo stipendio aveva la fortuna di avere avuto un padre benestante che le aveva lasciato tre o quattro tra appartamenti e locali e mieteva un buon mensile di affitti e quindi non aveva bisogno del marito per campare.<br />“Non ci lega più niente” era stata la constatazione la mattina del primo gennaio, dopo una sera del trentuno in cui il momento più emozionante era stato il messaggio di Ciampi.<br />Il ragionier Stellati non aveva avuto forza di litigare ed era andato via di casa, che era di sua moglie; si erano accordati per vedersi una o due sere la settimana, quando Luca era a casa, per mangiare tutti insieme, di solito in silenzio, senza nemmeno la consolazione di un telegiornale.<br />E Stellati pensava a due sere prima, quando Luca non era andato a cena, per un’improvvisa convocazione a una imperdibile partita di calcetto. Pensava a quanto sembrava incredibile preferire a una cena con quella che era la sua famiglia, qualsiasi altra cosa al mondo, persino pasta e fagioli con mamma che guardava Incantesimo.<br />Un solo gesto di rottura aveva fatto, andando via di casa: aveva buttato via tutti i vecchi pigiami.<br />***<br />La società di ricerca del personale aveva il solito nome inglese: stavolta era Tom Bosley & co.; Borgo Pio a mezzogiorno meno un quarto sembrava quella che doveva essere Roma quarant’anni fa, senza macchine, qualche bicicletta, un paio di Ape Piaggio e delle facce da film di Fellini.<br />Stellati pensò che chi aveva deciso di mettere la sede a Borgo Pio o ci aveva abitato o voleva comunque avere attorno un ritmo di vita lento e romanesco: all’indirizzo che era scritto sull’e mail, c’era un palazzetto di un rosso scrostato, con un androne stretto tra vecchi contatori dell’Enel e un paio di passeggini.<br />Il ragionier Stellati suonò alla porta e il contrasto con Borgo Pio e con l’androne fu quasi stridente: un ingresso ampio e luminoso, una receptionist all’altezza della situazione e un paio di sale discrete dove aspettare il colloquio.<br />A mezzogiorno e dieci Stellati non era stato ancora chiamato; aveva ormai finito di leggere tutte le scritte in latino sotto le stampe seicentesche di Roma.<br />Cominciò ad innervosirsi e sentiva che lo stomaco gli si stava svuotando in fretta, lasciando in bocca un sapore cattivo.<br />A mezzogiorno e venti entrò nella sua stanza un uomo sui trentacinque, con un bell’abito blu e una camicia con le cifre; Stellati pensò che fosse l’intervistatore e invece in qualche attimo capì che si trattava di un altro candidato.<br />Dopo trenta secondi di silenzio l’uomo in blu gli disse: “Nella stanza accanto ci sono altre due persone. A proposito, a che ora aveva il colloquio lei ?”<br />“A mezzogiorno” disse Stellati.<br />“Io a mezzogiorno e mezza, ma qua non si vede nessuno”. L’uomo in blu aprì la finestra; “Sarebbe da farsi una sigaretta” disse “ma, guarda caso, ho smesso di fumà tre settimane fa”. Dopo l’approccio iniziale abbastanza educato e composto, l’uomo in blu era passato all’accento romanesco.<br />Stellati, che pure non adorava i romani, fu più tranquillo, che se l’uomo in blu fosse un rivale superabile nella corsa al posto.<br />“Io ho smesso l’anno scorso. I primi tempi furono terribili: uscivo di casa alle dieci la sera e mi faceva cinque chilometri a piedi per calmarmi” disse.<br />“Nooo, io ho smesso dalla sera alla mattina, un po’ de sforzo certo, un paro de caffè de più e è annata.”<br />Il cameratismo finì così e all’una, dopo una dozzina di minuti di nervoso silenzio, la porta si aprì.<br />“Venite” disse la receptionist “se volete seguirmi”.<br />Seguirti, ma certo, pensò Stellati con gli occhi fissi sulla ragazza, che aveva un passo sicuro e un corpo spettacolare.<br />Entrarono in una sala riunioni molto bella, con un paio di arazzi alle pareti.<br />Tra il momento in cui la porta si chiuse e quello in cui una donna in tailleur grigio d’ordinanza cominciò a parlare, Stellati ebbe il tempo di contare sette persone.<br />“Purtroppo a Milano c’era nebbia stamattina” disse la donna con cadenza anglo-lombarda “e il dottor Garegnani non è potuto arrivare come previsto per le undici. Questa situazione è spiacevole, perché avremmo voluto fare i colloqui con cadenza di venti minuti e con la massima tranquillità, sia per voi, ma anche nell’interesse del nostro cliente. So anche che alcuni di voi hanno difficoltà per oggi pomeriggio, ma purtroppo i nostri tempi non possono dilatarsi e quindi riprenderemo alle quindici, nello stesso ordine di stamattina. Quindi cominceremo da Bernardi, che aveva il colloquio alle undici e venti, poi Gallo, poi Stellati e così via”.<br />Dopo un lieve brusio, un paio di persone andarono a parlare con la donna anglo-lombarda; Stellati stette un attimo a pensare come scansare l’uomo in blu per farsi una passeggiata, quando si sentì toccare un braccio. “Ragioniere Stellati, come sta?”<br />****<br />Stellati si girò a guardare: vide un viso di una donna poco sopra la trentina con capelli tinti di nero, abbastanza corti, occhi neri appena truccati, un twin set beige e pantaloni panna.<br />La donna lo fissava con un mezzo sorriso “Ragioniere Stellati?” disse di nuovo.<br />Niente.<br />Stellati non la riconosceva.<br />“Non si ricorda? Sono Annamaria Adernò, della TYK”.<br />“Oh mamma mia; niente, niente non l’avevo riconosciuta. Sa, un volto fuori dal contesto…”<br />Scesero le scale e appena fuori si incrociarono con un “Cosa fa qui?” ed il coretto un po’ sghembo li fece ridere.<br />“Beh” cominciò Stellati “dovrebbe sapere come è andata a finire la Tecnocarta Palladini. Siamo falliti” Stellati rise “vede, parlo come se fosse stata la mia azienda. E’ fallita e io è un anno e mezzo che sto a spasso, colloqui, cose così. E lei?”<br />“La mia storia è un po’ articolata e di molto preferirei non parlare. Quando ci siamo visti per l’ultima volta? Il piano industriale, forse aprile 1998. Beh, diavolo se ne sono successe di cose in questi anni. A me tante, almeno. Senta, ma ha da fare qualcosa fino alle tre?”<br />“No non ho da fare. Vogliamo andarci a mangiare qualcosa?”<br />Si incamminarono lungo la strada, piena di caciara e di studentesse della Lumsa.<br />Trovarono un baretto piccolo, con un bancone messo in diagonale e un barista che aveva la faccia di chi la sapeva lunga.<br />Stellati prese un pasta gratinata e la Adernò prese un misto di verdure lesse.<br />Con due vassoi e un litro di minerale se ne andarono in una stanza quasi senza finestre dove c’erano i tavolini e stampe di pubblicità di Coca Cola alle pareti.<br />Si sedettero e Stellati non poté fare a meno di cacciare in un sospiro “La madonna ingioiellata”.<br />“Prego?” chiese la Adernò, anche se sembrava aver intuito qualcosa.<br />“Sa, la chiamavamo così in ufficio: la madonna ingioiellata. Sa, tutti quei braccialetti, i ninnoli e le collane”.<br />“ A casa ne ho quasi cinquecento, alcuni valgono soldi, davvero, altri sono pezzi di rame. Mi piacciono e vorrei portarli ancora; ma dopo il primo colloquio, un paio di mesi fa, ho capito che l’esposizione di gioielleria e bigiotteria non era gradita agli esaminatori”.<br />Stellati sorrideva: l’accento siciliano spuntava fuori ogni tanto. La “r” di rame era stata fantasticamente arrotata, ma anche “esposizione” e “esaminatori” erano dette con quell’accento quasi canzonatorio.<br />Quel silenzio li avvicinò un po’: “Ah e così mi prendevate in giro, eh? La madonna ingioiellata”.<br />“Sì come quella delle processioni di paese, con le collane degli ex voto e tutto il resto. Pacicchi, l’altro della tesoreria, si faceva dei braccialetti con le attache e certe volte a mensa faceva un’imitazione favolosa. Che so: ‘fondo svalutazioooone’, cose così. La sua specialità erano le ti e le erre di trattamento di fine rapporto”.<br />La Adernò rise: “Sapevo che mi prendevate in giro, lì da voi, come in altri posti: cercavo di mascherarlo l’accento, ma di Catania ero e di Catania resto. Allora mi incavolavo; adesso ci rido” disse, arrotando con cura la erre.<br />Anche Stellati rise.<br />Un paio di rigatoni alla fine del piatto.<br />“Allora, qualcuna delle cose successe si può dire?”<br />Si pentì subito dell’eccesso di confidenza; si giustificò mentalmente dicendosi che erano mesi che non incontrava una persona diversa da sua madre, sua moglie, Luca e i pescatori della domenica mattina.<br />“Ricorda Santoni, il manager?”<br />“Bravo, un po’ stronzo, magari, ma bravo”.<br />“Giudizio stringato ma calzante. Bene, Santoni me lo sono sposato, a dicembre del 2000”.<br />“Mi scusi…” una goccia gelata di sudore per la gaffe.<br />La Adernò sembrò non farci caso.<br />“Allora, alla Tecnocarta Palladini, stavamo già insieme da un annetto. Ma in TYK la politica era chiara e se due stanno insieme, uno, la donna di solito, se ne deve andare; sa, quelle questioni dei pagellini, delle valutazioni. Ma io ero entrata da poco e Santoni stava per divorziare: quindi resistevamo.” Rise; “Quando qualcuno gli chiedeva se la donna misteriosa di cui ogni tanto parlava esisteva davvero, France… Santoni, diceva soltanto: si chiama Miss A.. Così sono stata Miss A. per un tre anni ed era dura, dura davvero. Certe volte, il sabato sera, entravamo nei ristoranti, eravamo terrorizzati che qualcuno della società o qualche cliente ci potesse vedere; però sa, queste cose clandestine, questo vederci e non farci vedere, in fondo era bello, c’erano brividi. Magari erano soltanto brividi di paura.”<br />Gli occhi di Annamaria si persero un attimo in una stampa Enjoy Coca Cola; Stellati voleva dire qualcosa del tipo “e poi…”.<br />Annamaria capì e lo guardò negli occhi, tamburellò con le dita sul tavolo, si pulì la bocca con il tovagliolino, anche se erano cinque minuti buoni che non mangiava nulla.<br />“E poi, alla fine facemmo il grande annuncio. Doppio annuncio, ovviamente: il matrimonio e le mie dimissioni. Lasciare la TYK mi costò davvero, ma Francesco era il centro della mia vita e mi sembrò la scelta ovvia. No, non ovvia, fu la scelta giusta. A settembre andai a fare la controller ad una subsidiary italiana di un network televisivo giapponese: il nome non lo dico, perché se solo lo pronuncio mi viene da rigettare. Cosa fossero venuti a fare in Italia non era granché chiaro, però io dovevo fare i mie budget, i miei report e lo stipendio era quasi il doppio che quello che prendevo in TYK.”<br />Si prese la radice del naso tra pollice e indice, come se un’emicrania improvvisa le avesse trapanato la fronte. Sospirò e guardò di lato, dietro una spalla di Stellati, come quello sguardo che fissava un oggetto, il tavolino con sopra le posate o la borsetta di una studentessa, potesse farle forza.<br />“A luglio di quest’anno, un anno e mezzo senza infamia e senza lode; insomma, un viaggio di nozze fantastico, abbiamo vista mezza America, poi qui a Roma, il lavoro, spesso anche il sabato, e insomma quei brividi… insomma non dovevamo più nasconderci da nessuno”.<br />A Stellati sembrò che stesse per piangere.<br />“Beh insomma a luglio, l’amministratore unico della mia società, un maledetto giapponese, chiama tutti i dipendenti a raccolta e in un italiano terrificante fa ‘Lunedì società no apre; venerdì ultimo giorno. Spiegazioni dà mister Bianchini’. E Bianchini, il consulente del lavoro della società, ci comincia a parlare di chiusura della filiale, nell’ambito di una cazzo di ristrutturazione globale, che qualcuno potrebbe andare a Ginevra o a Parigi e che comunque le procedure di mobilità e cazzate così. Ci siamo guardati l’un l’altro; e per fortuna eravamo quasi tutti abbastanza giovani… oh mi scusi”<br />“Non c’è problema” Stellati sorrise quasi. “I mutui, vero?”<br />“Sì ragioniere; qualcuno monoreddito, col mutuo appena preso; la mia segretaria si doveva sposare a ottobre; tutto rinviato; tutto all’aria. Io torno a casa quello schifo di sera, alle otto e provo a chiamare Francesco sul cellulare, perché Francesco stava a Pescara per TYK. Volevo parlargli, dirgli quello che era successo, del lavoro. Alle otto niente, spento; alle nove niente; alle dieci mi viene un flash e mi ricordo di un albergo dove ero scesa anch’io qualche anno prima per andare dallo stesso cliente. Insomma chiamo l’albergo e chiedo che mi passino la stanza; me la passano e mi risponde una donna. Io per un attimo penso di avere sbagliato, poi sento una voce sotto del tipo ‘che fai’ e quella voce è di Francesco; in un momento riconosco la voce di una collega che era appena entrata in società quando io mi ero dimessa, una carina, di quelle con quei visini angelici, le fossette sulle guance; nello stesso momento realizzo e urlo ‘Passami Francesco’. Me lo passa e io urlo ‘Cosa cazzo ci fa quella in camera tua?’. E lui niente. Non ha detto niente, per trenta secondi l’ho sentito respirare, anzi no, trattenere il fiato. Quella sera la sua voce non l’ho sentita e non l’ho sentita più. Alle udienze di separazione è stato sempre zitto, guardava davanti a sé; il mio avvocato mi ha detto che nelle riunioni non ha parlato mai. Quella sera stessa, la sera della telefonata, ho preso e me ne sono andata a Catania, una settimana: quando sono tornata a casa, che era casa mia, grazie a papà, non c’era più traccia di lui, nemmeno un capello sul cuscino. Niente, più niente.”<br />******<br />Alle due e mezza uscirono dal bar, e andarono verso Castel Sant’Angelo.<br />Il sole ora era più forte e a novembre c’era persino qualche turista, un paio in calzoncini, calzini e sandali.<br />Un paio di venditori ambulanti parlavano tra di loro ad una velocità impressionante.<br />Il ragionier Stellati camminava senza fretta verso la spalletta che dava sul Tevere; Annamaria gli camminava distante, con gli occhi fissi all’altra sponda.<br />Si appoggiarono sul parapetto e si misero a guardare il fiume.<br />“Che posto stupendo” disse Stellati, “un giorno di questi ci voglio tornare”.<br />Annamaria fissava il fiume adesso, la mano sotto il maglioncino del twin set, come se volesse riattivare la circolazione. “Quante schifezze si porta appresso ‘sto fiume” sorrise.<br />Stellati le poggiò una mano su un braccio, qualche secondo e sorrise a quel volto e le disse “Dai che è ora di andare”.stefanopz + laralidiahttp://www.blogger.com/profile/15249029335247491670noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9052045044980251020.post-71984801931873961292012-01-25T15:34:00.002-08:002012-01-25T15:35:00.679-08:00MALEDETTO ANDY WARHOL!<br />Maledetto Andy Warhol!<br />E maledetta la sua storia del quarto d’ora di celebrità!<br />Luisanna Gandolfi il quarto d’ora di celebrità l’aveva già avuto.<br />Era stata la prima bambina a nascere in città il primo gennaio di un anno alla fine degli anni sessanta.<br />Occupava mezza prima pagina della cronaca locale: nella foto sua madre aveva l’aria riposata, stranamente, con i capelli neri con una specie di soppalco alla Brigitte Bardot, Luisanna con gli occhi chiusi, ovviamente, e qualche mazzetto di ciuffi neri sulla testa.<br />“Benvenuta Luisanna” era il titolo del giornale.<br />All’epoca, per la verità c’erano tre giornali nazionali che avevano l’edizione locale e la tradizione di famiglia voleva che suo padre era andato a comprare i giornali la sera del 2 gennaio, quando gli altri due erano esauriti. Un primo segnale di incompletezza, si diceva Luisanna.<br />Perciò c’era solo un giornale nel cassettone del grande mobile con specchiera del salone e ogni anno sua madre l’andava a riguardare e rideva per quella pettinatura terrificante.<br />**<br />Dopo un pomeriggio a Roma, per andare alla Biblioteca Nazionale, a metà dicembre, Luisanna stava sul sedile del primo vagone del treno, a guardare, più che fuori, un panorama fin troppo noto, il suo viso riflesso nel finestrino.<br />Fu quel pomeriggio che in quel surrogato di specchio, non vide più una ragazza, ma una donna, attorno ai trentacinque, con i capelli tinti di henné, con occhi tanto scuri che l’iride si confondeva con le pupille e con il labbro inferiore in mezzo ai denti, che stringevano quasi a farlo sanguinare.<br />Quello che fino al giorno prima troppo spesso aveva sentito l’aveva chiamato depressione.<br />Ci rideva a volte, come quella storia dell’autobus qualche mese prima, che aveva raccontato a Rachele. “Insomma, sto su quest’autobus, con una sorta di dolore allo stomaco e stavamo in cinque sull’autobus, compreso il guidatore e mi metto a pensare al titolo di un giornale letto quella mattina ‘Un italiano su cinque soffre di depressione’; ecco, gli altri quattro passeggeri dell’autobus erano fortunati perché l’italiano su cinque che soffre di depressione ero io. Poi mi accorgo che sta per scendere una donna africana, una di quei donnoni con quelle tuniche tutte colorate e col turbante e penso, diavolo, per fortuna che è scesa, perché mi rovinava la statistica”.<br />Poi, ripensava, quasi con dedizione, alla storia di Andy Warhol.<br />**<br />A dire il vero, Luisanna quel pomeriggio non ci aveva messo piede alla Nazionale.<br />Era partita con l’intenzione, perché aveva sentito parlare di articoli su vecchie riviste usciti subito dopo la prima traduzione di A Passage to India.<br />Le era sempre piaciuta la definizione che Forster aveva dato di A Passage to India: “il mio romanzo indiano influenzato da Proust”. E Luisanna voleva riuscire a pubblicare un saggio che dimostrasse il più scientificamente possibile quanto Forster fosse stato davvero influenzato da Proust.<br />La parte generale, su Forster, non era altro che uno sviluppo della sua tesi sui personaggi secondari dei romanzi di Forster; il resto stentava ad arrivare un po’ per mancanza di tempo, un po’ per non eccessiva convinzione.<br />Una settimana prima, in sala professori, aveva detto alla De Angelis che sarebbe andata a Roma, alla Nazionale, per la ricerca; il giorno prima, uscendo dalla III B, si era trovata davanti Castaldi che le aveva detto “Andiamo insieme a Roma domani? Vado anch’io alla Nazionale”.<br />Castaldi insegnava italiano e latino, e stava lì allo scientifico solo da settembre.<br />Sulle prime, sembrava un po’ defilato.<br />Luisanna lo aveva giudicato in maniera, pensava, definitiva, al primo sguardo: le era sembrato un po’ impiegatizio, con un viso abbastanza banale ed un abbigliamento abbastanza scontato per un professore di italiano sulla quarantina, maglioni a V, camicie a quadri, jeans e Clark. Aveva, secondo Luisanna, un tono di voce di quelli che dopo mezz’ora di spiegazione stende anche il primo della classe, un tono senza slanci, quasi da predica.<br />Questa sua opinione (‘le impressioni le cambio, le opinioni no’, diceva Luisanna) faceva a pugni con la nomea che aveva Castaldi presso le Cariatidi, come lei e la De Angelis chiamavano le vecchie insegnanti di lettere e di filosofia a un soffio dalla pensione, il cui nome faceva ancora tremare i muri portanti della scuola, come la Reali, la Di Bello e la Ieracitano.<br />Le Cariatidi erano venute a sapere che Castaldi era separato, con un figlio in età prescolare e la moglie, che insegnava matematica, pare si atteggiasse da sedotta e abbandonata.<br />Quella proposta davanti alla porta della III B era stata la prima frase di senso compiuto che Castaldi aveva rivolto a Luisanna da quando era arrivato.<br />L’obiezione di Luisanna (“ma io vado la mattina, ho il giorno libero”) era stata superata agevolmente, poiché il mercoledì era il giorno libero anche di Castaldi.<br />Non venendole in mente altro, Luisanna si accordò per il treno delle dieci e venti, per avere il tempo di fare le cose con comodo.<br />Come Castaldi fosse venuto a sapere della trasferta alla Nazionale preoccupò Luisanna giusto il tempo necessario per arrivare al parcheggio.<br />***<br />Luisanna adorava il personaggio di Lucy Honeychurch, in Camera con vista. Anzi, tutta la storia della tesi, era nata dopo aver visto il film di James Ivory, aver letto il libro, aver rivisto il film, trovandolo semplicemente perfetto nella sua fedeltà al libro, trovando Helena Bonham-Carter deliziosa e Julian Sands, il maschio da sognare per gli anni a venire.<br />Il suo problema è che per un po’ un Julian Sands l’aveva aspettato davvero, convinta che potesse rivivere una storia con qualche somiglianza a Camera con vista; si sarebbe fidanzata con un tipo piatto e noioso (certo che però era Daniel Day Lewis, rifletteva Luisanna) e poi un giorno avrebbe detto di Julian Sands “Certo che lo amo, cosa credete tutti” e lacrime di gioia e camere con vista.<br />Iacopo non era noioso come Cecilio, anzi tanto nel film Daniel Day Lewis era rigido ed impettito, quanto Iacopo era una forza della natura, sempre in movimento, con un brevetto da sub e una passione per gli sport estremi.<br />Iacopo aveva dei difetti; ad esempio, le sembrava a volte troppo accondiscendente, le sembrava che a volte annuisse impercettibilmente mentre lei parlava, come per convincersi di essere d’accordo.<br />Iacopo stava sacrificando una laurea in giurisprudenza, invero non brillantissima, facendo il subagente di assicurazioni per potersi permettere di vivere in affitto in una città che non era la sua.<br />“Perché non ti sposi?” le aveva chiesto, con tono di sfida la De Angelis qualche settimana dopo che Luisanna era stata immessa in ruolo. Luisanna aveva dimenticato che forse per la De Angelis era stato più facile sposarsi con un commercialista figlio di commercialista, ma non le andava di addurre ragioni economiche che in fondo non la toccavano più di tanto.<br />Le sembrava di essere incompleta, questa era la verità, e le sembrava che la strada per eliminare questa sensazione non potesse essere il matrimonio. O meglio, il matrimonio non le bastava, a volte pensava che Iacopo non le bastava, ma poi tornava a pensare che l’incompletezza fosse dentro di lei.<br />Da una parte pensava di poter effettivamente riuscire in qualcosa di particolare, nel saggio ad esempio, dall’altra la frase di Andy Warhol sembrava obbligarla ad una vita senza ulteriori momenti di gloria.<br />****<br />A metà del ritorno in treno, Luisanna cercò un fazzoletto per soffiarsi il naso e trovò in tasca qualcosa che aveva una consistenza simile.<br />Tirò fuori dalla tasca un tovagliolo di carta e si sentì arrossire per aver fatto, qualche ora prima, un gesto, probabilmente meccanico, per infilarselo in tasca.<br />Aprì il tovagliolo e vide due tabelle di due colonne: una aveva sopra LG, le sue iniziali e l’altra aveva sopra PLC, le iniziali di Castaldi.<br />Nella sua tabella, alla colonna di sinistra ci aveva scritto sopra i libri che aveva letto nell’anno e che le erano piaciuti e nella colonna di destra quelli da evitare.<br />Sorrise guardando nella colonna di sinistra Underworld, La versione di Barney, Gli anni con Laura Diaz, ma anche, pure se le sembrava un po’ popular, La scomparsa di Patò e La gita a Tindari.<br />Nella colonna di destra Pastorale americana, Libra, Stanotte nella battaglia pensa a me.<br />Sotto PLC c’era scritto a sinistra “Tutto Ammaniti e tutto Lucarelli”, Altri libertini e a destra, “tutto quello che è stato scritto prima del 1901”.<br />Luisanna aveva protestato, perché adorava Victor Hugo e Zola, ma anche il Master di Ballantrae, per dire di un inglese.<br />Dopo aver piegato il tovagliolo a metà con un mezzo sorriso, Castaldi le aveva sfiorato la mano e a quel gesto Luisanna pensava mentre si mordeva il labbro.<br />****<br />“Mi sono laureato con una tesi su Ariosto. Il titolo non lo dico per non fare pubblicità”; Castaldi aveva cominciato così, con una battuta che non la aveva fatta ridere.<br />Alla stazione di partenza Luisanna non lo aveva visto e aveva tirato un sospiro di sollievo.<br />In treno si era messa a leggere La Repubblica, più per isolarsi dagli altri che per effettivo interesse.<br />Sul marciapiede a Roma Castaldi si era materializzato accanto a lei. “Ti eri nascosta bene!”. Luisanna non aveva chiesto come fosse arrivato a Roma, ma se lo trovò a fianco e attraversarono tutta la stazione Termini senza dirsi quasi nulla.<br />A metà di piazza dei Cinquecento Castaldi disse: “che ne dici se facciamo un salto da Feltrinelli?”. A Luisanna non sembrò un’idea malvagia e, sempre senza parlare, arrivarono da Feltrinelli.<br />Luisanna si portò prima verso i libri in edizione originale: voleva comprare l’edizione americana di Underworld, per vedere se la traduzione italiana, seppure spettacolare, potesse avere rubato qualcosa.<br />Si gingillò un po’ e alla fine prese il libro dallo scaffale; poi andò verso la narrativa italiana e lì ci trovò Castaldi che le disse perché non leggi Ammaniti?, anzi tanto disse e tanto fece che finì per regalarle Ti prendo e ti porto via.<br />Insomma, ridendo e scherzando, con i brividi che Luisanna provava ogni qual volta entrava in una libreria (riusciva a paragonarli solo a quello che provava quando affondava l’indice in un barattolo di Nutella appena aperto) e con le gote rosse per l’aria un po’ viziata, videro che era quasi l’una.<br />“Qui alla Galleria Esedra penso che riusciamo a mangiarci qualcosa” le fece Castaldi<br />Si sedettero in un tavolino che bastava a malapena reggere la minerale e i due bicchieri; mangiarono senza attenzione i tramezzini e, alla fine dei tramezzini, Castaldi se ne uscì con la frase sulla sua tesi.<br />“In realtà, mi sento uno dei massimi esperti italiani su Ariosto; conosco aspetti secondari sull’esistenza, recito a memoria tutto L’Orlando Furioso. E ti giuro, non lo dico per vantarmi. Ma è tutto nato da lì. Un paio d’anni fa, di questi tempi; stavo allo Scientifico di ***. Stavo facendo la lezione introduttiva all’Ariosto e cercavo di fare un Bignami dell’Orlando Furioso, una cavolo di presentazione. A un certo punto li guardo ad uno ad uno negli occhi e capisco: ‘Cosa cazzo gli frega ad un ragazzo del terzo millennio di Ariosto; questi sono ragazzi che si fanno la letteratura con gli sms, che leggono sì e no tre libri l’anno, che a malapena ricordano a memoria un testo di Vasco. E io, che ci sto a fare ad insegnare cavolo di cose che non sanno che farne’. Bè, da allora ho deciso: leggo solo romanzi di scrittori viventi, o comunque quantomeno, prendi Tondelli, che potrebbero essere viventi; ah, e la musica, Pearl Jam, Radiohead, solo cd nuovi, basta con i nice price che so, di quelle cose che ci piacevano quando eravamo ragazzi, i cantautori, Dylan. Ecco, la vita l’ho cambiata io”.<br />Luisanna avrebbe voluto rispondere qualcosa sulle ultime parole, ma si limitò a dire qualche banalità sulle ultime generazioni, sul fatto che se ne stiano anche per la strada accucciati a fissare il cellulare.<br />Quando ebbe finito di parlare, Castaldi stette quindici secondi in silenzio, poi disse. “Non mi hai risposto alla domanda, anzi, hai ragione, forse non te l’ho fatta la domanda. Non pensi che siamo ad un punto della vita che bisogna cambiare tutto? Non parlo della crisi di mezza età, parlo di consapevolezza dell’unicità dell’occasione, parlo del fatto che chi si ferma è perduto sembra una banalità ma è una legge di natura. Io, da allora non mi sono più fermato.<br />Sai come dicono i Pearl Jam?<br />I know I was born and I know that I’ll die<br />The in between is mine<br />E non te lo traduco perché l’inglese me lo insegni tu. E così non mi accontento più di leggermi le recensioni dei film per poi vederli d’estate: se mi piace l’idea vengo a Roma a vedere la prima; e poi i libri me li voglio leggere appena usciti. Sai, ho cominciato a partecipare ai forum su internet e, insomma, gira che ti rigira, sono diventato redattore di una rivista telematica sulle novità librarie. E poi…”; e poi Castaldi disse altre cose e Luisanna aveva cominciato a sudare.<br />Dopo avere annuito e negato quasi a comando ed avere buttato lì qualche ‘certamente’, ‘direi’, ‘d’accordo’, Luisanna si sentì dire “E perché hai lasciato tua moglie? Perché a un punto della vita bisogna cambiare tutto, pure la moglie?”.<br />Castaldi si esibì in un sorriso spettacolare, poi divenne serissimo: “Conosci il significato della parola consunzione? Bene, applicala ai sentimenti.”<br />*****<br />Dopo un respiro un po’ troppo sonoro di Luisanna, Castaldi disse “che ne dici del caffè?”.<br />Quando arrivarono il decaffeinato di Luisanna e il macchiato di Castaldi, lui se ne uscì con “Vuoi fare un piccolo gioco?”<br />Prese il tovagliolo da sotto il piatto del panino, disegnò due T e poi disse: “Scusami, come ti chiami, precisamente, di nome?”. “Vedi”, ridacchiò lei “a volte penso che il mio nome sia un po’ il simbolo di come sono: quando sono nata i miei non vollero fare torto a nessuna delle due nonne e quindi da Luisa e Anna, uscì fuori Luisanna” “Bè, è particolare … “ “Vedi, su certe scelte penso di essere una persona decisa, su altre rimango lì a guardare le due strade e alla fine non scelgo né Luisa né Anna: resto una via di mezzo”.<br />“Non pensi …” cominciò Castaldi. “Ti prego” lo interruppe Luisanna, “non dirmi che ormai sono abbastanza adulta da fare scelte chiare e definitive: primo, è un discorso troppo articolato e, forse, troppo personale; secondo, forse qualche problema ce l’ho, a mettermi in discussione e questa è la cosa più personale che sono disposta a dirti”.<br />Stavolta il sorriso fu qualcosa a metà tra la complicità e la presa in giro. “Pensa che i miei non mi hanno chiamato Pierluigi, tutto attaccato; forse sembrava banale e mi hanno chiamato Pierre Luigi, con il Pierre alla francese. Pare che mio padre avesse letto qualche articolo sul fulgido futuro che attende i nascituri con i nomi particolari, che so, Alcide, Amintore …”<br />Risero e a Luisanna sembrò di aver smesso di sudare.<br />Castaldi scrisse le iniziali sulle due tabelle e disse. “Semplifichiamo un po’ tutto: nella colonna di sinistra i libri che ti sono piaciuti e nella colonna di destra quelli che ti hanno fatto rivoltare lo stomaco”.<br />“Devo avere proprio vomitato, o basta, ad esempio, che abbiano deluso le attese?”<br />“Direi che basta che abbiano deluso le attese”<br />Ci volle una buona mezz’ora per scrivere le tabelle e si misero a commentare (lui disse qualcosa del tipo ‘Underworld è fenomenale, ma l’ho sentito poco vicino a me, per quello tra i buoni ci metto solo italiani’), si persero dentro una serie di coinvolgimenti personali, di pezzi citati a memoria, si scambiarono consigli e promesse di prossimi prestiti.<br />Luisanna guardava Castaldi e ripensava alla storia delle impressioni e delle opinioni.<br />Castaldi disse “Non mi ero sbagliato”, poi aveva piegato il tovagliolo a metà, poi le aveva sfiorato la mano. Anzi, no. Castaldi le aveva accarezzato la mano.<br />******<br />Sul treno c’era lei, c’era Forster, Lucy Honeychurch, c’era Don DeLillo, c’erano mucchi di libri già letti, mucchi di libri da leggere, film, c’erano giornate, c’erano facce, c’era pure Iacopo.<br />Luisanna si mordeva il labbro e si mise a sperare che il treno facesse un ritardo pauroso.<br />Si mise a sperare di restarsene lì, con un inizio di sapore di sangue in bocca; voleva continuare a credere che si trattava di depressione, dato che l’aveva battezzato così, quello strano dolore. Avrebbe trovato qualcun altro disposto ancora a compatirla, a starla a sentire, a dirle di non preoccuparsi.<br />A pochi chilometri dalla sua stazione, riuscì a stare un attimo senza pensare a niente.<br />Si rivide bambina, prima di addormentarsi, che si diceva ‘hai visto, sei riuscita a stare dieci secondi senza pensare a niente’; invece, si mise a pensare come sarebbe stato bello non dover pensare mai più a niente.<br />Ma, in realtà, sapeva come sarebbe andata a finire.<br />Sapeva bene cosa c’era giù da quel treno.<br />Scendendo gli scalini, si disse che se c’era una cosa che sapeva di certo era il significato della parola consunzione. Applicata ai sentimenti, ma non solo.<br />Il vecchio muro scrostato della stazione, un cartone per terra, ormai macerato dalla pioggia.<br />Una pioggia di mezzo dicembre, una città, un posto senza neve, senza nebbia; un posto di un grigio rigoroso e definitivo.stefanopz + laralidiahttp://www.blogger.com/profile/15249029335247491670noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9052045044980251020.post-60749863013347737192012-01-25T15:34:00.001-08:002012-01-25T15:34:32.248-08:00IRLANDA<br />Sono gia’ due anni, a settembre. Antonietta pensava a Guido, che da due anni era finita, due anni a settembre.<br />E nelle cinque e mezza dell’ultimo giorno di lavoro prima delle ferie, Antonietta non riusciva a pensare ad altro, solo a Guido.<br />Il boss era via già da due settimane e, Antonietta si rammaricava ad ammetterlo, l’assenza del boss le dispiaceva. Giambuia, il dottore, il boss, era un signore di mezza età, dall’aspetto piuttosto grigetto, tranne i capelli tinti di nero-lucido da scarpe: era un buon capo, anzi un ottimo capo, che la strapazzava di sarcasmi e la seppelliva di lavoro.<br />La segretaria di direzione in una società di consulenza di direzione, diceva il boss ad Antonietta, è quasi mezzo capo. Antonietta obiettava la differenza di reddito di un paio di centinaia di migliaia di euro, ma in fondo era l’unica segretaria che si pappava a Natale il bonus per lo staff; e persino quando il boss era andato in ferie, dopo la fine del lavoro per la Anson & Williams (e’ andata benone, aveva detto il boss), ci era scappato un bonus di cinquecento, buono buono per le ferie.<br />Ma alle cinque e mezza dell’ultimo giorno di lavoro prima delle ferie, Antonietta non pensava alle ferie. Sempre Guido di mezzo.<br />L’anno prima era stata a casa, al paese, dai suoi; erano quattro anni che non ci tornava ad agosto.<br />Poi squillò l’interno e la centralinista le disse “E’ una tale Luisa”. Antonietta si riscosse e Luisa le disse “Ciao Anto, ho preso i biglietti”. Anto, per fortuna; Guido preferiva Ninetta. “Ci vediamo martedì per i bagagli e tutto il resto, rimani a dormire da me, perché alle quattro e mezza di mercoledì mattina ci dobbiamo svegliare. Il volo è alle sette”.<br />D’accordo, aveva risposto Antonietta; il boss avrebbe detto “benone”.<br />**<br />Luisa aveva un’erboristeria o era di sua cugina; comunque stava in questa erboristeria e la sera del martedì e del giovedì andava in palestra, la stessa di Antonietta. Antonietta c’era finita per seguire Daisy, la segretaria americana di Ian Davis, il gallese responsabile delle relazioni internazionali. Daisy andava in palestra perfino nell’ora di pranzo e tornava con le guance rubizze.<br />Antonietta per non stare da sola due sere la settimana l’aveva seguita.<br />Luisa portava un bodino anche troppo discinto e per ridere un po’ l’istruttore le aveva messe insieme per qualche esercizio in coppia. Antonietta era uno e sessantadue, sì e no, Luisa le portava quindici centimetri, ma era cosi’ magra che pareva uno e novanta.<br />Dopo la doccia ne risero anche loro e Antonietta notò che le ossa ai lati del collo erano così sporgenti che sembravano voler schizzare via; cominciarono a parlare di shampoo (Luisa quel giorno aveva qualcosa che sembrava ortica), poi pensarono a una pizza, forse un sabato sera.<br />Il sabato sera erano andate ad un ristorante vegetariano e la prima cosa che scoprirono fu che erano quasi gemelle. “Gli anni di Cristo” fu l’ovvio commento di Luisa.<br />Luisa disse da subito: “l’estate me ne sto da sola; l’inverno no, d’inverno voglio cambiare ogni sera, stasera ad esempio volevo stare da sola”.<br />Io sto sempre da sola, pensava Antonietta, ma chiese “In che senso?”.<br />“Nel senso che d’inverno mi piace avere qualcuno, senza impegno, con impegno, voglio qualcuno che pensi a me, che mi inviti a ballare, a proposito vai mai in discoteca? Dicevo” (aveva visto gli occhi di Antonietta sbiadire) “mi piace cambiare, qualcuno direbbe che ci sto” rideva. “D’estate, d’estate mi piace viaggiare, andare dove mi pare, senza nessuno che mi imponga niente. A volte sono felice come una bambina, a volte mi sento sola come una cagna, però alla fine mi piace. L’anno scorso volevo andare ad Ibiza, poi mi è sembrato troppo futile, troppo facile e mi sono fatta un giro dei Pirenei. Pensa che sono andata persino a Lourdes: di un mistico, un’esperienza con tutte quelle sedie a rotelle, i vecchi e i malati, le processioni notturne, le suore, non pensavo che ci fossero tante suore. Due anni fa sono andata in Grecia, volevo provare ad entrare al Monte Athos, ci hai in mente quel monte con i monasteri ortodossi dove ci stanno soltanto gli uomini; avevo pensato adesso mi travesto e c’entro, poi magari mi spoglio cosi’ davanti a tutti e vediamo che succede. Sono capace di queste cose, davvero.”<br />Questa che va per monasteri e per Madonne, si disse Antonietta.<br />“Quest’anno ho pensato, quando ti ho conosciuto ho pensato, con Anto” Da quand’è che mi chiama Anto?, pensò Antonietta, “se dovessi andare con qualcuno st’estate, ci vorrei andare con Anto. Perché ho capito che sei come me, che cerchi qualcosa di diverso, che ti faccia davvero felice. Tu sei felice?” “Poco” rispose stavolta Antonietta, non ora, lo sono stata a volte con Guido, avrebbe voluto precisare, ma se comincio a parlare di Guido dove vado a finire?<br />“E stavo pensando, cosa c’è di più bello, più pacifico, più tranquillo dell’Irlanda?”<br />***<br />La sera prima di partire, alla fine di un lunedì di caldo spossante, Antonietta si trovò a non avere niente nel frigo.<br />Scese dai suoi cinquanta metri quadri in affitto all’inizio della Nomentana e finì nella solita rosticceria, dove quasi sempre finivano tutti i propositi per la dieta.<br />“Piccola e rotondetta, mi piaci così, piccola e rotondetta”; Guido le diceva così, quando voleva farle un complimento; certo lei avrebbe preferito altro, qualche parola più precisa, tesoro mio, magari, ma, davanti allo specchio della rosticceria, “piccola e rotondetta” le mancava da morire.<br />Guardò il banco delle pietanze, un po’ desolato in verità, e prese una pasta fredda con pachino e rucola, una cotoletta impanata e un po’ di cicoria ripassata.<br />Stette un attimo a pensare se spararsi una birra, poi pensò che dominava il frigo una lattina di Diet Coke; pagò, prese le tre vaschette di stagnola, in una busta di plastica mezza rotta e se ne tornò a casa.<br />La pasta non era fredda, ma scotta; la cotoletta era così e così, la cicoria era niente male.<br />La busta di plastica della rosticceria divenne busta dell’immondizia e alle dieci e mezza scese per il conferimento al cassonetto alla piazza del bersagliere.<br />Sotto il bersagliere: classico appuntamento dei ragazzi romani; il primo appuntamento con Guido, ovviamente, sotto il bersagliere.<br />Si erano conosciuti a una festa, dove Antonietta era andata insieme alla sua compagna di stanza e di università, Rossella. La festa, se non ricordava male, era di un cugino di Rossella e lì aveva visto Guido.<br />Lei aveva ventiquattro anni, lui venticinque, capelli neri lisci, pettinati con la riga sopra una testa perfettamente rotonda. Gli occhi neri si accendevano solo quando il sorriso non era di circostanza.<br />Non li presentò nessuno, semplicemente, si trovarono a canticchiare tutti e due a memoria Tunnel of Love dei Dire Straits e perciò tutto cominciò da Mark Knopfler.<br />“Ti piacciono i Dire Straits” “Da morire” e così via.<br />Il sabato sera successivo l’appuntamento era per le otto sotto il bersagliere.<br />Lui arrivò con un BMW e (ma Antonietta l’avrebbe capito un po’ di tempo più tardi) non per fare colpo.<br />Lui mise Making Movies appena lei entrò in macchina e stettero una mezzoretta così sotto il bersagliere a sentire gli assoli di Mark Knopfler.<br />Guardava il bersagliere con il sacchetto dell’immondizia e sentì, nota per nota, dentro la testa, l’assolo finale di Tunnel of Love e le venne in mente Guido, il Guido di quella sera, quello che era stato così delizioso da non parlare se non dopo tutta la cassetta, per evitare di commettere sacrilegio.<br />Buttò l’immondizia nel cassonetto, fece un sospiro e, sperando di non pensare più a nulla se ne tornò a casa.<br />****<br />A Dublino, ovviamente, pioveva.<br />Luisa aveva dormito dal momento del decollo a quello dell’atterraggio, senza soluzione di continuità e, a quanto pare, senza Valium.<br />Antonietta, un po’ rincoglionita dai tranquillanti, guardava le nuvole basse su una campagna più marrone che verde.<br />Recuperarono i bagagli, spostarono gli orologi, e fecero la più anglosassone delle file per il taxi.<br />Non si scambiarono praticamente una parola fino all’hotel, che appariva un po’ decentrato rispetto al Trinity College, che, avevano letto, era il cuore della città.<br />Avevano un po’ discusso al momento della prenotazione se prendere una doppia o due singole, poi la differenza di prezzo le aveva convinte alla convivenza.<br />Ad Antonietta ricordò un po’ i tempi dell’università; anche la casetta di via Nomentana in realtà era divisa con Gioia, che però continuava a pagare la sua metà dell’affitto, nonostante stesse per nove mesi l’anno in qualche paese dell’ex Unione Sovietica a fare l’ingegnere minerario.<br />Luisa aprì la valigia e cominciò ad organizzare la divisione dei cassetti e dell’armadio. “Io dormo nel letto più vicino alla finestra. Per te è ok?” chiese.<br />“Ok, ok” rispose Antonietta, mentre guardava spuntare dalla valigia di Luisa alcune tuniche arabeggianti, forse un po’ troppo leggere per Dublino.<br />“Vado a farmi la doccia” disse Antonietta, più per trovarsi un attimo da sola che per effettiva esigenza.<br />“Il bagno com’è, Anto?”<br />“Niente male; ovviamente non c’è il bidet”<br />“Poco male, faremo la doccia”.<br />Antonietta si spogliò e si guardò di sfuggita allo specchio. Piccola e rotondetta, pensò; capelli con la tintura nera, pensò, per quei fili bianchi ostinati sopra le orecchie. Occhi un po’ persi e di la’ una ragazza con le tuniche che forse si metterà a bruciare incenso prima di dormire.<br />Si fece un mezzo sorriso allo specchio e quindi si fece una doccia come Dio comanda.<br />Quando usci’ dalla doccia, Luisa era davanti allo specchio che si truccava o si struccava. Antonietta ne fu un po’ imbarazzata, anche se poi si ricordò che in fondo si erano conosciute nello spogliatoio di una palestra.<br />Antonietta si mise un paio di jeans, una camicia celeste di taglio maschile e un cardigan di lana. Caccio’ fuori un k-way blu dalla valigia e si sentì pronta alla prima passeggiata nell’autunno dell’agosto dublinese.<br />Luisa uscì dal bagno struccata e si mise una tunica viola e oro che le arrivava alle caviglie, senza calze, con dei sandali con l’occhiello per l’alluce ed un maglione di cotone color panna.<br />Uscirono verso il Temple Bar; le due guide che avevano con loro, definivano unanimemente il Temple Bar come il quartiere dei bar e dei ristoranti e quindi decisero di obbedire.<br />In realtà non era una passeggiata: si resero conto che ci volevano venti minuti buoni a piedi, durante i quali un paio di volte ad Antonietta vennero i brividi solo a guardare Luisa.<br />Passarono in mezzo al St. Stephen Garden, delizioso e pulito e quel rettangolo di aiole fiorite le mise di buonumore.<br />Si misero a parlare di fiori e scoprirono una comune passione per i bonsai.<br />“Ho un ficus bonsai in ufficio e tengo più a lui che al mio capo” disse Antonietta<br />“Quando torniamo a Roma, ti porto in un posto fantastico; mia cugina ha un negozio solo di bonsai, con un’aiutante giapponese con un nome da cartone animato”<br />“Fujiko!” fece Antonietta<br />“Vedevi anche tu Lupin III? Diavolo, è favoloso, comunque questa si chiama Masako. La chiamano da tutta Roma”.<br />Così andarono avanti, fino al Temple Bar. Davanti ad un paio di ristoranti c’era la fila che sembrava Londra, più che Dublino. Da un paio di posti usciva una caciara terrificante, violini e gente che batteva le mani.<br />Entrarono in un locale un po’ strano, che al piano terra aveva solo l’ingresso e al piano di sopra i tavoli.<br />Si guardarono attorno e c’erano soltanto coppie. Luisa non sembrava affatto imbarazzata, anzi la luce un po’ soffusa sembrava metterla ancora più a suo agio.<br />Antonietta non riusciva a togliersi dalla mente un locale in una viuzza dalle parti di via dei Coronari, dove era stata con Guido, ancora più buio. Stavano insieme forse da un paio di mesi, poco più. Arrossì quasi, pensando che in quel locale avevano scambiato forse tre parole in un’ora e avevano passato il tempo a pomiciare.<br />*****<br />Stettero a Dublino quattro giorni, che passarono ininterrottamente a passeggiare, parlando abbastanza di rado, ma in fondo facendo le turiste come Cristo comanda.<br />Luoghi joyciani, cattedrali cattoliche e protestanti, porridge la mattina e patatine fritte la sera.<br />La sera del quarto giorno, rifacendo i bagagli, vide, in fondo ad una delle valigie un paio di vecchi jeans celeste chiaro, quasi bianchi, ormai. Una volta, in un agriturismo, Guido si era sbagliato e aveva cercato di metterseli, la mattina presto; a metà della gamba sinistra, davanti alle contorsioni di Guido, Antonietta aveva avuto uno di quei momenti in cui ridi e non ti riesci a fermare.<br />Un mese dopo aver lasciato Guido, Antonietta si era ripromessa dopo una sera di lacrime e buio pesto che si sarebbe infilata in un’altra storia, una qualunque, soltanto il giorno in cui sarebbe riuscita a stare un giorno intero senza pensare a Guido, neanche una volta.<br />Le venne quasi un brivido a pensare che quella sera, guardare quei pantaloni lisi le aveva fatto venire in mente Guido per la prima volta nella giornata.<br />******<br />Né Antonietta né Luisa ebbero il coraggio di affrontare le strade irlandesi, per via della guida a destra.<br />Il giro dell’Irlanda, perciò, lo dovettero fare in autobus.<br />Il primo giorno arrivarono direttamente a Cork, saltando un paio di posti dove le guide consigliavano di andare.<br />La via centrale di Cork ricordò ad Antonietta la Rinascente di piazza Fiume.<br />I marciapiedi erano pieni di gente.<br />“Guarda, è ancora peggio che a Dublino; ogni mamma ha almeno due figli. Guarda quella, con due carrozzine gemellari”: Luisa sembrava scandalizzata dalla prolificità delle irlandesi.<br />Additava famigliole numerose nei MacDonald, ragionava sugli effetti del cattolicesimo radicale sulle donne.<br />“Come fai a lavorare con quattro figli?; e, se sei un uomo, come fa a piacerti una rossa piena di lentiggini, sformata da quattro gravidanze?”.<br />“Be’, in Italia sta venendo su una generazione di figli unici” poi pensò che sia lei che Luisa avevano trentatré anni e non avevano ancora messo in cantiere nemmeno il figlio unico che spettava loro per statistica.<br />Dopo un’oretta a cercare qualcosa di degno in un centro commerciale, da cui uscirono con un po’ di biancheria intima industriale divenuta indispensabile, trovarono una chiesa protestante da cui uscivano strani suoni di campane.<br />Sotto il campanile c’erano delle corde con i nomi delle note (ovviamente A B C e così via) e chiunque poteva mettersi a strimpellare le campane.<br />“E’ favoloso” urlacchiò Luisa “pensa alla libertà: invece della solita nenia, vieni qui e ti metti a fare, che so, Obladì Obladà dei Beatles”. Ad Antonietta le si aprì il sorriso e per la prima volta nella sua vita pensò che cinque anni di conservatorio erano serviti a qualcosa. Obladì Obladà durò i tre minuti canonici e Luisa ballò in sagrestia qualcosa di simile ad una tarantella con due ciccione americane e tre ragazzi giapponesi, invece di mettersi a fotografare, tenevano il tempo con le mani.<br />Per un attimo Antonietta si immaginò una mamma irlandese, piccola e rotondetta, con quattro bambini che si prendevano per i capelli in soggiorno, che accendeva e spegnava fornelli battendo il piede al ritmo di un campanile lontano.<br />*******<br />Guido era ricco, anzi terrificantemente ricco, anche se aveva il pregio di non curarsene. Suo padre era un professore di dermatologia all’Università e, senza dubbio alcuno, il più bravo dermatologo di tutta Roma. Sei mesi dopo averlo conosciuto, Antonietta andò con Guido in una villa sterminata sulla Cassia: la dependance per l’esercito di filippini era grande come il podere di campagna dove il padre di Antonietta passava la domenica mattina a zappettare.<br />Quando il padre morì, di infarto, Guido aveva trentadue anni. Era ancora studente in medicina, anzi era piuttosto lontano dalla laurea in medicina.<br />Fu un periodo non particolarmente diverso dagli altri: morì a metà luglio ed il primo di agosto la Guido, sua madre e la sorella, più piccola di Guido di tre anni, laureata in economia e commercio, se ne andarono come tutti gli anni all’Argentario.<br />Fu lì all’Argentario, una sera, tornando da una cena nell’entroterra, che Antonietta ebbe un puro e terribile flash: quell’uomo che guidava un fuoristrada Mercedes, che aveva una polo bianca e pantaloni di lino beige, scarpe da barca a vela, qualche filo bianco sopra le orecchie di quella testa perfettamente rotonda, che aveva non un sorriso, ma un’aria, un’aura, serena, quell’uomo, il suo fidanzato, era semplicemente un inetto.<br />Non aveva mai lavorato un solo giorno nella sua vita; si sarebbe laureato a quarant’anni, quando sarebbe scomparsa anche l’eco del nome di suo padre e non sarebbe riuscito nemmeno a specializzarsi. Non sapeva cos’era lottare, non sapeva cosa voleva dire sacrificio, come potesse essere una gioia regalare alla mamma un foulard veramente di marca, invece della solita imitazione presa in qualche bancarella.<br />Gli guardò quel non sorriso e non ebbe il coraggio di dirgli subito quello che, dopo tutti gli anni, aveva capito.<br />Da quel momento, ogni volta che si concentrava un attimo su Guido, persino nella spossata felicità dopo una giornata in barca al Giglio, le rimbombava in testa quella parola. Inetto. Inetto e nient’altro, né l’aura serena, né la cortesia, né le attenzioni.<br />Così, la prima domenica di settembre, una domenica oltremodo banale, quattro passi in centro la mattina, sotto un cielo che minacciava pioggia e un salto a Fregene nel pomeriggio, qualche raggio timido di sole, tornando a casa, anzi proprio sotto casa, le parole uscirono da sole, già consunte.<br />Guido strizzò gli occhi e non fece nulla per non lasciarla andare.<br />Guido la chiamò per gli auguri di Natale, poi Pasqua, poi il compleanno a fine maggio.<br />Un amico comune le disse che l’estate dopo Guido era stato all’Argentario con la mamma e la sorella. Poi, nient’altro.<br />********<br />A Killarney c’erano tre laghi ed un parco attorno ai laghi veramente stupendo.<br />“Pace, pace e solo pace” sospirò Luisa; “ecco quello che sento qui: solo pace”.<br />Antonietta stavolta era perfettamente d’accordo: quello che sentiva dentro di sé non era quel vuoto dato dall’assenza di emozioni, ma una piccola brezza, che lasciava il cielo pulito.<br />Si misero a camminare a piedi scalzi su un’erba quasi asciutta; poi misero i giubbotti di jeans per terra e se ne stettero in riva ad uno dei laghi a godersi l’esangue sole irlandese.<br />“Ma poi quel tuo vecchio fidanzato di cui mi avevi detto una volta … come si chiamava? Guido? Che fine ha fatto? L’hai più chiamato?”.<br />Rotto l’idillio, ad Antonietta venne fuori la prima frase con quel tono ingoiato di chi parla tra le lacrime. “No, da tempo non lo sento; ma sai, frequentiamo persone diverse, ormai…” Antonietta sperò che Luisa finisse lì e sperava soprattutto che non chiedesse di qualcuno che lei frequentava, dato che ormai da troppo tempo non frequentava praticamente nessuno.<br />“Peccato, sei dolce, simpatica e pure carina. Sai mia madre come ti avrebbe definito: una donna che sa stare al suo posto”.<br />“E’ un complimento o un’offesa?” chiese Antonietta.<br />“Un complimento, ovviamente; e non hai idea di quello che dice di me. Fa dei giri di parole incredibili, ma il succo è quello di tutte le mamme: vogliono i nipoti, vogliono rientrare nelle nostre vite rifacendo da capo le mamme. Ma tu mi hai guardato? C’è qualche parte di me che ti fa venire in mente un desiderio di maternità?”<br />Risero e ad Antonietta tornò un po’ di pace; qualche nuvola, per ora bianca aveva osato spezzare la perfezione dell’azzurro.<br />“Il cielo d’Irlanda è Dio che suona la fisarmonica<br />si apre e si chiude col ritmo della musica”<br />Antonietta si mise a fare i conti, come ormai faceva troppo spesso. Ho solo sette anni per avere un figlio; a quarant’anni mi ritroverò zitella, sola al mondo, papà già sta male e se mamma resta sola, va a finire che mi tocca tornarmene al paese. Certo, che vita sto facendo a Roma adesso?; chi m’è rimasta: Luisa? ‘sta cosa secca e allampanata, direbbe papà. Solo sette anni; mi metto a guardare gli uomini nei supermercati e prima di guardarli in faccia guardo se alla mano sinistra c’hanno la fede. Perché faccio l’orgogliosa così: se chiamassi Guido, torneremmo insieme. Una famiglia, figli. L’inetto; io a lavorare e lui a cercare di laurearsi prima di rimbambire di demenza senile. Un uomo, cavolo: Luisa sembra una da una botta e via. Io mi metto lì a parlare, ragionare, sognare. Cavolo, è una vita che non succede niente.<br />“Dal Donegal alle isole Aran<br />e da Dublino fino al Connemara<br />dovunque tu stia, danzando tra zingari o re<br />il cielo d’Irlanda si muove con te”<br />Mentre tornavano dal lago alla strada il silenzio era totale, neanche il rumore delle scarpe sull’erba.<br />Era vero, mentre camminavano su quel prato, il cielo d’Irlanda si muoveva, veloce, vivifico e vivo ed era un cielo enorme, che in certi momenti sembrava più vicino alla terra del cielo di Roma; si era chiesta, cosa ci vado a fare in Irlanda e ora sapeva qual era la risposta: “ci sono andata a guardare il cielo”.<br />*********<br />Il bed and breakfast era gestito da una signora con la pelle spropositatamente chiara, con un tono di voce così esile che sembrava quello di una zombie particolarmente gentile.<br />“A cup of tea?” disse la voce dall’oltretomba o qualcosa del genere, perché comunque sul tavolo da pranzo c’era una teiera e dei biscotti al limone deliziosi.<br />La lunga passeggiata finì con il tè delle cinque, in un clima assonnato, nella piccola stanza da pranzo che stava proprio davanti alla loro stanza; Luisa scribacchiava su un quadernetto (Antonietta pensava che Luisa era vestita proprio come le persone che tengono un diario, anche se poi non riusciva a spiegare perché quelle tuniche etniche comportassero l’obbligo di tenere un diario), mentre Antonietta cercava di intuire qualcosa in un articolo di un giornale inglese.<br />“Ho scritto semplicemente ‘giornata di pace’: le giornate di pace come oggi, sono così rare e preziose che me le appunto solo con queste tre parole. Dall’inizio dell’anno” Luisa sfogliò velocemente il quadernetto “il 4 marzo e il 20 giugno sono state giornate di pace; per la verità non ricordo perché.”<br />“Senti, andiamo a cena alle sei e mezzo come le tribù locali o cerchiamo un locale un po’ più pepato?” chiese Luisa; “dopo una giornata di pace potremmo provare a farci una sera da battaglia”.<br />“Ok, comincio a fare la doccia”<br />“Buona idea; quando sento il phon rientro in camera”<br />Antonietta rientrò in camera si fece una doccia che durò forse venti minuti; poi si stese dentro l’accappatoio, sul letto e se ne stette ad occhi chiusi a cercare di non pensare a niente. ‘Sera da battaglia’: per una volta Antonietta si sentiva, come dire, pronta, voleva divertirsi, conoscere qualcuno, un ragazzo, un uomo.<br />Per la sera da battaglia cacciò fuori dalla valigia un vestito avana che le lasciava visibili le spalle, che andava meglio per le sere a Fregene che per le mattine di Killarney; prese un maglione di cotone carta da zucchero che finiva subito sotto il seno e si ritenne così vestita da battaglia.<br />Accese il phon e aspettò che Luisa entrasse; invece, si asciugò i capelli, poi si truccò, poi si mise a leggere il libro che si era portata dall’Italia (un giallo di Elizabeth George), smise e si mise a leggere una guida dell’Irlanda.<br />Alle otto e un quarto, quando cioè il novanta per cento della popolazione irlandese aveva cenato, entrò Luisa, con occhi un po’ strani.<br />Dopo un minuto buono di mezzi convenevoli, Luisa ridacchiò: “Abbiamo un appuntamento per stasera”.<br />“Come un appuntamento?” chiese Antonietta<br />“Sai, quando sei venuta a fare la doccia, sono uscita verso il paese e nel primo bar ho incontrato due ragazzi spagnoli, andalusi se non ho capito male. Una parola, un’altra e insomma alle nove ci vediamo in un pub in paese, dove loro sono già stati ieri e dove giurano ci sia una confusione bestiale”<br />Si rimise a ridere.<br />“Che c’è da ridere?” chiese Antonietta, curiosa e spaventata<br />“Usciti dal bar, in un parco vicino a un cimitero ci siamo fatti una canna coi controfiocchi. Roba high level, ti giuro. Roba che il mio amico marocchino, quello che rifornisce la cerchia che gira attorno all’erboristeria, se la sogna” e rise.<br />Il silenzio di Antonietta era un po’ pesante.<br />“Non mi dire che non ti sei mai sparato un cannone”. Luisa rise pesantemente<br />“Sinceramente ho fumato in vita mia due sigarette; l’ultima, avevo dodici anni”<br />“La canna è bella; è da compagnia. Stai lì in cerchio, tutti amici; uno caccia fuori la roba, prepara lo spinello; poi ha il diritto a farsi la prima aspirata, poi la passa in giro, ognuno si fa la sua tirata. C’e’ il senso di comunità, di amicizia.”<br />“Sarà …” Antonietta pensò alle canne, alle sigarette, poi all’alcool, poi ai sette vizi capitali e oltre alla gola e all’accidia non si sentì personalmente coinvolta.<br />“E non è che usciamo con questi tizi per farci le canne?”<br />“No, è un invito a cena; a quanto ho capito loro sono tre e ci aspettano. Tu con questo tubino sei perfetta; io, vediamo un po’” Luisa infilò prima il naso, poi mezzo viso dentro alla valigia e ne uscì una minigonna nera, tanto semplice quanto mini.<br />Luisa ci mise su una canotta nera con scritto “pretty baby”, con un buco a forma di cuore dalle parti del cuore e una camicia giallo evidenziatore.<br />‘Senza calze schiatterà di freddo’ pensò Antonietta.<br />Si guardarono insieme, nello specchio dell’armadio e Antonietta, senza sapere il perché, sentì salire da sotto il tubino una strana angoscia.<br />**********<br />Felipe e due Miguel, uno bassino e moro e l’altro alto e distinto.<br />Chi comandava era chiaramente il Miguel alto. Parlava più di qualche parola di italiano, ma con Luisa parlavano in inglese e Antonietta capì che era il modo di escludere sia lei, che l’inglese parlato in fretta da un andaluso proprio non lo afferrava e gli altri due spagnoli, che conoscevano, a quanto pare, le parole necessarie per sopravvivere.<br />Antonietta intuì agevolmente chi fosse stato il pusher di Luisa.<br />A mozzichi e bocconi, la conversazione andò avanti. Era chiaro solo a guardarli che i tre dovevano avere al massimo ventitré – ventiquattro anni e il “Trenta y tres” scandito da Luisa fece loro uno strano effetto, un misto di spavento e incredulità.<br />Alle dieci i tre ragazzi spagnoli erano alla terza Guinness da 0,4, Luisa alla seconda e Antonietta si ostinava a non voler finire una 0,2 di birra chiara.<br />Avevano mangiato qualcosa che poteva essere tradotto come stufato di agnello, ma non ne aveva il sapore.<br />L’orchestrina irlandese attaccò con Irish Rover e il pub si incendiò.<br />Felipe batteva la mano sul tavolo, con grossi pericoli per le birre.<br />Quando, dopo Irish Rover, l’orchestrina attaccò Molly Malone, Miguel alto, praticamente fece il controcanto; cantava piuttosto bene, tanto che a tre quarti della canzone lo invitarono a cantare al microfono e fece un figurone.<br />Tornò al tavolo dove fece un high five con i suoi due amici e con Luisa.<br />Alle dieci e tre quarti l’orchestrina si fermò: il locale era pieno di fumo a mezz’aria e sapeva di sudore e di Guinness. Miguel alto e Luisa si allontanarono un attimo (per una canna, pensò Antonietta).<br />Miguel basso e Felipe, abbastanza alticci, si misero a parlare velocemente in spagnolo; ad Antonietta parve di sentire un “vieja” in una risposta di Miguel basso.<br />Qualcosa che sembrava “pero es vieja” o giù di lì. Dal tono e da una mezza occhiata Antonietta intuì che la risposta poteva tradursi in italiano in qualcosa di simile a “Ma non vedi che è vecchia?”.<br />Stava per alzarsi con una scusa quando, vicino all’ingresso, vide che Luisa ringraziava il suo fornitore con un bacio, che si tradusse in pochi attimi in una pomiciata.<br />Dopo un minuto abbondante Luisa e Miguel alto tornarono al tavolo tenendosi per mano; sedendosi Luisa fece l’occhiolino ad Antonietta.<br />‘E’ una da una botta e via; ecco che cos’è una sera da battaglia’ pensò Antonietta e si chiuse senz’altro in un mutismo abbastanza offeso.<br />“Alla grande, eh?”, le gridò Luisa quando l’orchestrina riprese a suonare e Felipe si rimise a battere la mano sul tavolo.<br />Quando l’orchestrina suonò un altro lento e un paio di coppie si misero a ballare nel minuscolo spazio tra il cantante e i tavoli, Luisa appoggiò la testa sulla spalla di Miguel alto e dopo un po’ si scambiarono qualche bacio lì al tavolo.<br />Mentre si parlava con qualche fatica dell’erboristeria di Luisa, Antonietta sentì la mano libera di Felipe che si poggiava poco sopra il suo ginocchio.<br />Antonietta si sentì paralizzata: Felipe faceva finta di niente.<br />Antonietta lo guardò bene, il viso banale, i capelli sudati e qualche brufolo sulle guance. Brufoli; un bambino, praticamente, pensò Antonietta.<br />E mentre pensava cosa fare, cosa dire, la mano di Felipe, abbastanza lentamente, stava salendo.<br />Nei trenta secondi che seguirono Antonietta pensò a quanto tempo era passato dall’ultima volta in cui Guido l’aveva accarezzata, poi pensò all’ultima volta con Guido, poi pensò ai brufoli, poi pensò che stava per diventare una da una botta e via.<br />La mano era a un centimetro dallo slip.<br />A quel punto Antonietta si alzò e scappò via.<br />***********<br />La faccia sul letto, il tubino avana ridotto a un cencio buttato via con un urlo soffocato.<br />Pugni sul cuscino, dopo i pugni sullo stipite della porta.<br />Antonietta piangeva lacrime isteriche; urli soffocati dentro un cuscino ricamato da paffute rosee mani irlandesi.<br />‘Perché, perché; ci stava provando e allora? Ci potevi stare, lo potevi mandare affanculo, potevi divertirti un po’, potevi buttargli la birra in faccia. Invece sei semplicemente scappata. Una vecchia; una vecchia vigliacca. Zitella e vigliacca’. Ebbe un secondo di mezzo sorriso pensando a tutti i sinonimi di zitella, soprattutto quelli che davano alle vecchiacce zitelle su in paese.<br />Si mise seduta, il cuscino calcato in pancia.<br />Un uomo, cavolo, un uomo; un bacio, una pomiciata, persino una botta e via. Tutto le sembrava meglio che scappare.<br />Due anni a settembre.<br />Da sola, A scappare. Se Guido era un inetto, tu che sei? Paura, una vita sprecata, senza un lampo di coraggio.<br />Un ragazzo, coi brufoli, una mano, uno straccio di vita; mezza birra chiara e undici birre scure; né azione né reazione, solo fuga.<br />************<br />All’una tornò Luisa.<br />Disperata.<br />“Quello stronzo, sembrava tanto titin titin. Tutto distinto, perfettino” piangeva e parlava a scatti “Stronzo … con quel suo inglese … carino”<br />Antonietta si riscosse dal torpore con gli occhi ancora rossi delle sue di lacrime “Che è successo?”<br />Ora Luisa piangeva senza ritegno, con una mano sulla bocca, come una bambina.<br />“Quando siamo usciti … insomma mi ha fatto fumare un’altra canna … poi baci … poi toccava … poi non so come … non ero lucida … mi trovo sul sedile di una macchina …chissà che macchina era … insomma quello stronzo mi metteva le mani dappertutto … sì pomiciavamo … poi è arrivato quall’altro …”<br />“Felipe?” chiede Antonietta, persino preoccupata<br />“No, quello basso, l’altro Miguel … insomma mi spogliavano e … io ho detto no … e loro sembrava che mi volessero … che lo volessero fare lo stesso … mi stavano prendendo … Insomma sono riuscita a tirare uno schiaffo a quello spacciatore maledetto e sono scappata … cazzo, ci ho lasciato le mutande e la camicia l’ho buttata in un cassonetto … me l’hanno strappata”.<br />Antonietta abbracciò Luisa che piangeva, a singhiozzi, ora.<br />Anche Antonietta piangeva, con quel pianto sordo, ma persino più disperato, di chi si strapperebbe l’anima da dentro.<br />Piangeva, vergognandosi, pensando a Felipe, alla sua fuga, e a tutta una cavolo di vita come poteva essere e non è.stefanopz + laralidiahttp://www.blogger.com/profile/15249029335247491670noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9052045044980251020.post-34591785261947173702012-01-25T15:33:00.003-08:002012-01-25T15:33:55.381-08:00L'ASSENZA<br />Interno pizzeria, sabato sera. Di sabati sera cosi’ ne ho visti forse trecento. Saverio, Rosario, altri amici e la scuola e lunedi’ ricominciano le lezioni e l’inverno cosi’ e l’abbonamento al treno.<br />C’è un patto di sangue con Saverio, che anche se siamo lontani, siamo vicini, incollati; ma c’è silenzio e null’altro, ‘sto sabato sera. Lunedi’ si comincia e io vado e lui resta, lavora qui a un terminale.<br />Fuori la pizzeria c’è un’aria da stazione e ci stringiamo forte la mano e negli occhi e sorrido a mezza bocca. Poi guardo anche gli altri e, mi passo la mano nei capelli e sorrido a mezza bocca pure a loro e dico ci vediamo un altro sabato sera.<br />Poi faccio due passi e Saverio che arriva e mi dice: “In provincia c’e’ solo gli amici”; io lo guardo di nuovo e il sorriso e’ solo di labbra. “In provincia c’e’ solo gli amici” gli dico e lo guardo. Lui mi dice ingegnere e ci scherza per qualche secondo, io lo guardo e penso maledetti integrali, sei giorni su sette lontano da qui che c’e’ solo gli amici.<br />A Roma sono solo ingegnere, nel senso delle lezioni, della fila alla mensa e poco altro.<br />E allora quattro passi nei vicoli un po’ illuminati, e i passi rimbombano nell’una di notte e le mani in tasca e la testa un po’ china.<br />A casa gia’ dormono tutti, un po’ di televisione, porcate del sabato sera, poi la radio e non mi va di dormire. Come sempre.<br />Mi sveglia una domenica ancora assopita; decido di partire subito, l’impatto con Roma di giorno e’ piu’ lieve; un bacio un saluto e poi giu’ alla stazione.<br />La domenica ha le fabbriche chiuse e l’azzurro di inizio novembre e’ un azzurro da occhiali da sole. Forse anche per le occhiaie del sabato sera, tre del mattino.<br />Il mercoledi’ e’ meno pudico e le occhiaie non le nasconde e si aspetta il treno fremendo per poter sonnecchiare; la domenica il treno arriva per forza di inerzia e si va verso Roma nei colli, controsole, mammelle di blu che non sembrano veri.<br />**<br />La settimana e’ scivolata via senza passioni, soffocata da orari di ferro ed e’ ancora un altro inverno, le stesse abitudini. Ora e’ ora di tornare e il posto sul treno l’ho trovato per miracolo, accanto ad un vecchio gia’ addormentato e a due matricole.<br />Origlio i loro discorsi da vicine di casa: quella a sinistra e’ ossigenata e il suo ragazzo ha finito il militare e due spalle che non ti dico e ora non gli va di lavorare che tanto il padre conosce e un posto quando e’ ora si trova, ma non giu’ in fabbrica che e’ sprecato, mi piacerebbe l’indossatore con le spalle che c’ha.<br />Quella a destra e’ mora, ma si ossigenera’, degli occhi brillanti e un filo scuro di baffetti sopra le labbra e si sente l’invidia e il ragazzo non ce l’ha, c’hai in mente Riccardo, il fratello di Nadia, quello riccio e ne parla e, peccato per gli occhi brillanti che perdono luce.<br />E parlano del futuro come, che so, fossero nell’ottocento e cucissero sotto una veranda, ragazze da marito.<br />Dall’altra parte c’è un padre che dorme e non dorme, la Gazzetta fa da mezzo cuscino; la madre con gli occhi cerchiati non ha manco una mezza illusione e guarda e non guarda suo figlio, sette anni, giocare con un coso che fa un rumore spaziale. Mezzore senza parole e mi sembra di vederla il sabato sera al supermercato gridare a quel figlio mezzo spaziale, Fermati o ti do due schiaffoni, e il carrello pieno di quello che avanza dalle bollette e da quattro vestiti e stasera due ore di televisione e stavita manco piu’ un’illusione.<br />Mezza strada e’ gia’ fatta e mi chiedo se la gente che sta sopra ad un treno e’ la vita che vado a trovare, ragazze che sognano una bolla bella sicura dove rinchiudersi a preparare una vita bella sicura, la posizione e liquori e piante a Natale, ragazzi che inventano qualche avventura da raccontare al biliardo la sera, famiglie nel muto di un supermercato affollato a cercare un tre per due da comprare, a comprare un sorriso dal televisore, niente gesti, intendo dire carezze, sorrisi spontanei, sfiorare.<br />Io sto meglio da solo, mi gioco le carte, le mie, e se sento che e’ uno di quei giorni di ridere e divertirsi, e allora bisboccia, se no tutto scorre.<br />Io sto meglio da solo, ne’ bolle, ne’ carrelli, la televisione solo per le partite, io me ne sto da solo, io non sono fatto per i compromessi.<br />Io sto meglio da solo, come il sole, che li’ e’ l’unico dominatore di questo mezzogiorno di novembre; e come lui io sono orgoglioso. Sono orgoglioso della mia solitudine, proprio cosi’, orgoglioso della mia solitudine.<br />Giusto il tempo di sorridermi per la frase ad effetto ed e’ ora di scendere. Cerco un passaggio, ma non trovo nessuno, solo il dottore che abita verso San Rocco, e’ passato, ma di certo non mi ha notato.<br />E allora compro il biglietto per la circolare, mi appendo agli appositi, e mi sorbisco cinque fermate e i piedi di un bambino che passeggia sui piedi, i miei.<br />A casa mia madre mi dice che ieri ha chiamato Saverio, che stamattina andava su al monte fino al pomeriggio e cosi’ ci si vede stasera cosi’ mi riposo.<br />E’ meglio cosi’: ho fame e sonno e percio’ mangio e dormo. Il letto cigola se mi ci rivolto e gli spiragli delle serrande lasciano filtrare segmenti di luce che sembrano finti.<br />***<br />Un maglione irlandese, la camicia fuori dal maglione, la barba appena fatta, la strada e miei passi rimbombano che e’ strano che non passi nessuno a quest’ora di sabato sera.<br />Gia’ so che sono quattro minuti, fra casa mia e il Belvedere, e la cinquecento bordo’ di Casimiro e gli occhiali-John Lennon di Saverio.<br />Canticchio qualcosa, una vecchia canzone da spiaggia, attraverso la piazza e le bifore del municipio e il campanile scrostato e due rampe di scale e di fronte c’e’ gia’ la ringhiera del Belvedere, e al Belvedere ogni giorno, ogni sera.<br />Saverio e Casimiro stanno appoggiati sulla cinquecento, sul cofano arrugginito; io arrivo e squittisco un Salve ragazzi, vecchio gia’ di sei giorni. Si voltano e sono perplessi e stupiti.<br />Saverio mi guarda stupito e preplesso, con l’occhio sinistro semichiuso, come fa sempre per concentrarsi su una mossa letale di scacchi o su un ricordo sbiadito.<br />“Salve ragazzi”, ripeto gia’ un po’ scocciato, “Saverio,”, mi volto “Casimiro”, non ci ho mai saputo stare agli scherzi, “dai smettetela; bella accoglienza per il vostro figliol prodigo”. Saverio pare imbarazzato. “Non te la prendere” mi dice “ma quanto e’ vero Iddio non ti ho mai visto prima, davvero”<br />Casimiro mi guarda gia’ un po’ di traverso: “ma di dove sei, della campagna?”.<br />“Sono io, sono Stefano, non mi riconoscete; Saverio ... Casimiro, piantatela”, mi dico a mente che non e’ possibile, che cacchio di scherzo e quasi alle lacrime “Davvero non mi riconoscete?”.<br />Loro sono inebetiti; Saverio con disagio evidente sussurra “No, mi dispiace, davvero”.<br />Mi sento annientato.<br />Mi allontano su passi malfermi, mentre mi sto allontanando, Saverio e Casimiro si scambiano frasi, impressioni a mezza voce. Questa poi, dice Casimiro. Sembrava davvero stravolto, mah, aggiunge Saverio.<br />Trattengo la rabbia fra i denti, ma allora non e’ per niente uno scherzo.<br />No, deve essere un pessimo scherzo e ora basta e vado a chiamare Rosario che abita qualche passo piu’ giu’ e a smetterla con questa farsa.<br />Premo il bottone del citofono con foga e la madre di Rosario mi gracchia un Chi e’ da dentro il muro. “Sono Stefano”. Mi sembra che resti un secondo dubbiosa, poi “Va bene, Rosario ora scende”.<br />Poi sbatte la porta e sento Rosario che scende le scale, lui mi riconoscera’.<br />Quando apre il portone a Rosario si aggrotta la fronte e mi dice “Chi e’ lei scusi?” Lei? come lei? “Rosario, sono io!” devo avere una lacrima che mi nasce da un occhio.<br />“Io chi?” mi fa lui, “io non l’ho mai vista; pensavo fosse qualcuno per le fotocopie”.<br />“Rosario...” “Prego” “Niente, mi scusi, devo avere sbagliato”.<br />“Va bene, fa nulla” se ne va conciliante, mi ha dato del lei, e mi sbatte quel vecchio portone di ferro battuto e come vernice lanciata dal secchio su un muro, cosi’ mi allagano gli occhi, mi si secca la gola.<br />La via gia’ stretta di suo mi sembra sprofondi e le case mi si stringono addosso; sento un fiotto di sangue nel naso; tutto attorno e’ un incubo di quelli che si sa che si dorme ma si corre e si soffre come fossero veri.<br />****<br />Per qualche minuto, non saprei dire quanti, ho girato angoli senza far caso a case, cose e persone; poi, non so neanche dove, mi fermo a guardarmi indietro, intendo dire nel tempo, a quei pochi terribili minuti.<br />Saverio, Casimiro, Rosario, frasi brevi, anche troppo, magari sognavo, magari e’ uno scherzo ben riuscito davvero, Saverio ne sarebbe capace.<br />Saverio lo conosco che saranno dieci anni e lo so quando mi prende in giro; negli occhi invece gli ho visto imbarazzo, pieta’, vorrei dire.<br />Eppure mi chiedo se un po’ non e’ colpa mia, che sono scappato un po’ troppo presto, sono io che non so farmi riconoscere.<br />Decido di tornare su la Belvedere, su perche’ e’ stato piu’ facile scappare per i vicoli in discesa e sono quasi fuori le mura, quasi alla vecchia statale. Risalgo al Belvedere, che sono le otto e mi dico addirittura le otto, quanto tempo sono stato a scappare.<br />Cerco facce note, e vedo ragazzini sciamare, forse terza media, per loro e’ quasi ora di tornare a casa; poi ecco di nuovo Saverio e Casimiro, e’ arrivato pure Rosario e Bergamo, il figlio del giudice. A qualche metro Angelo e Peppe, i gemelli, e Peppe quello basso, che fischia a una che avra’ quindici anni e il rossetto di un rosso sboccato le ha macchiato un po’ i denti.<br />Mi vado a sedere nella parte piu’ alta del Belvedere, dove la mattina stanno i vecchi a guardare la valle, a scatarrare, a guardare i lavori in corso del nuovo parcheggio, per ore.<br />Da li’ mi guardo il mio sabato sera e i miei amici e io non ci sono, sono qui a guardarli darsi pacche sulle spalle e ridere forte, come chi sa che puo’ permetterselo, come fossero a casa loro. A casa nostra, direi.<br />Passano altri dieci minuti e il coraggio alla fine mi torna e mi avvicino al gruppetto; e’ arrivato anche Dante e Rocco alle otto esce dal negozio di frutta e verdura.<br />“Saverio, scusa un attimo” “Ah sei ancora tu” “Mi rendo conto che e’ stupido, forse” comincio “visto che non mi riconosce nessuno, e io ... quindi ... non conosco nessuno, certo nemmeno voi, ma, ti prego, Saverio, mi piacerebbe stare qui con voi, oggi, stasera, poi, non so ...”<br />Saverio annuisce, che amico, io penso, anzi no, che persona; mi presenta agli altri (ai miei amici), e dice che sono appena arrivato in paese e non conosco nessuno, che ci siamo visti gia’ al mare, qualche anno fa e guarda i casi della vita.<br />Io stringo le mani con foga ad uno per uno e aggrappo al mio “Stefano, ciao” una speranza che dura solo qualche secondo. Cerimonie nessuna e mi ritrovo da solo, escluso da tutti i discorsi che ho fatto pure io, magari parlando dei miei ricordi.<br />Prendo da una parte Peppe quello basso, che ci ho fatto le elementari insieme e le famiglie si conoscono da sempre. “Non ci siamo gia’ visti noi due?” gli chiedo con un sorriso che deve fargli un po’ schifo. “No, non sono mai stato al mare da Saverio”. “No qui, qui; qui ci ho fatto le prime classi delle elementari” “No, ... come ti chiami? Stefano, vero? Ecco i miei compagni delle elementari be’ li frequento anche ora; giusto Alfredo che era figlio del maresciallo dei carabinieri e’ tornato in Sicilia”.<br />Mi lascia di botto, c’e’ un’altra ragazza che passa, la ferma, ci si mette a parlare; io cosi’ ogni tanto prendo da parte qualcuno e gli chiedo non ci siamo gia’ visti e mi accorgo che Saverio mi osserva, mi squadra, mentre dice come e’ andata in montagna e che ci vuole tornare.<br />Sto parlando con Dante quando Saverio afferra il mio braccio e mi porta alla ringhiera. Quante volte ci siamo staccati dagli altri per andare alla ringhiera, a parlare di cose diverse da quelle che puoi dire agli altri; l’ultima volta a settembre mi ci aveva portato per dirmi di Valentina, che era finita, finita davvero e ci stava di un male.<br />Stavolta mi guarda spietato e mi dice “Non so chi tu sia, non discutiamo nemmeno sul fatto che conosci tutti, perche’ non e’ vero e basta. Smettila di angosciarci; se vuoi venire andiamo in pizzeria fra mezzora, e li’ puoi venire; poi basta”.<br />Sento un no a denti stretti alle mie spalle, devo avere gia’ rotto abbastanza un po’ a tutti; poi penso, ci pensi, Saverio, poi basta vuol dire che dopo la pizza voi andrete al Barnaba Bar a sentire le storie di Barnaba sugli anni settanta, di quando i fasci gli gridavano “Compagno” alle spalle e se lui si girava lo sprangavano a sangue e degli esercizi che facevano per imparare a non girarsi al grido “Compagno”.<br />E quanti chinotti mi hai offerto, Saverio, all’una del sabato notte, sentendo un Bruce Springsteen d’annata, parlando di ragazze, canticchiando con Barnaba le ultime frasi di Thunder Road, che questa e’ una citta’ di perdenti, e che per vincere bisogna scappare.<br />Lo guardo e gli dico va bene, mi basta la pizza e lo vorrei ringraziare, ma ecco che arriva Duilio, il suo profumo francese, i suoi denti rifatti, la cravatta a striscioni (lui dice regimental); petulante che parla di vestiti, palestra e se’ stesso, soprattutto se’ stesso. Al Belvedere lo odiano tutti.<br />Mi si avvicina e un sussurro, neanche troppo sussurro “Vai che se lo becca Duilio”, viene da sinistra, forse Peppe il gemello. Giuro che me la paga.<br />Duilio cinguetta “Ciao Stefano, sono Duilio” (come fa gia’ a sapere il mio nome, se non mi conosce nessuno) “ho saputo, sei nuovo di qua. Io sono Duilio” (l’hai gia’ detto, cretino) “faccio giurisprudenza, ho gia’ fatto otto esami, ed ho quasi ventotto di media; mai come mia sorella, no, bravo come lei non ci diventero’” E comincia a parlarmi di Roma, di un negozio a via della Croce, e quest’anno ritornano le cravatte di lana, e diritto del lavoro fra due settimane e avanti cosi’ per due o tre minuti. Mentre mi sto inventando dove avevo abitato prima di venire qui, mi blocca e mi dice “Ma sai che la tua faccia non mi e’ proprio nuova; ti ho gia’ visto in paese”.<br />Lo fisso giusto qualche secondo, immobile, fisso quel viso di gomma, sudore e profumo.<br />Poi quasi senza volerlo, gli sferro un pugno giusto sopra uno degli incisivi finti.<br />*****<br />Il mio pugno mi deve aver messo in una luce migliore, se Rocco si avvicina e mi comincia a parlare della squadra che quest’anno va davvero alla grande. Salgo nella sua 128 e si va da Rocco e Giulia, una pizzeria che sta giu’ nella valle e, che strano, non c’ero mai andato.<br />La pizza scorre normale e snocciolo qualche parola qua e la’, senza impegno eccessivo. Non so di cosa parlare e puo’ darsi che tutti i ricordi con loro siano cancellati.<br />A Dante dovrei dire di come si e’ sfregiato la faccia, ad Angelo di come Romina gli mettesse le corna e della volta che ci mando’ Peppe il gemello all’appuntamento.<br />Ma forse non e’ ancora il momento e mi sento in un limbo, in mezzo ad un suono di trombe stonate; preferisco il banale, la risata facile di una barzelletta.<br />A fine mangiata Saverio mi prende da parte e magari e’ finito lo scherzo e Dio solo sa se e’ riuscito.<br />Fuori dalla pizzeria invece mi dice soltanto “Va un po’ meglio ora?” “Sara’ che mi sono sfogato” rispondo; “Duilio cercava da anni quel pugno, ma nessuno voleva sporcarsi le mani”. Mi accorgo che oltre queste piccole frasi c’e’ soltanto silenzio e disagio.<br />Gli vorrei dire di tutte le cose che abbiamo vissuto, di quella volta in montagna che portammo la bandiera per piantarla vicino alla croce in cima alla vetta, delle discussioni sul gambetto di donna, di Ivano Fossati, di quando a quattordici anni camminavamo con i compagni di classe gia’ giu’ al Belvedere e bastava un cenno ed insieme ci voltavamo per restare da soli e parlare di quel romanzo che volevamo scrivere insieme, di quell’uomo che si chiude in se’ stesso e poi perde la chiave, di quando Valentina gli aveva detto stasera i miei non ci sono, di quando in Germania ubriaco si era gettato vestito nel lago, del concerto di Dylan.<br />Ma capisco che non posso fiatare, tutto questo e’ dissolto, scomparso, non mi resta che ricominciare.<br />“Come si vive di solito, qua; cioe’ che fate, chi siete, dove andremo a finire?” gli chiedo. Lui ride “In provincia c’e’ soltanto questo, il Belvedere, la pizzeria, qualche amico, le ragazze e tante parole, giuste, sbagliate, nessuno sta zitto”; non mi basta, in provincia c’e’ solo gli amici, vorrei dire o sentire.<br />“E oltre questo, qualche amico basta?” “ Basta se sai farlo bastare; che vuoi andare a cercare, l’unione perfetta, il per sempre?”.<br />“Be’ l’unione imperfetta” dico io “a che serve; o è totale, definitiva o è meglio stare da soli, che dici?”.<br />“Dico che così cerchi qualcosa che non sta né in cielo né in terra. E certamente non la trovi da ‘ste parti”.<br />“Io penso che in provincia c’e’ solo gli amici” ci provo<br />“E in città, che c’è, c’è forse qualcosa di meglio?” Saverio svicola e vedo che sta smettendo di prestarmi attenzione<br />“Figurati, ma certe volte, anche qui, le vedi le situazioni, false, ipocrite, di comodo; non è meglio restare da soli?” chiedo e mi pento<br />“E’ meglio cosa?”<br />“Che so, riuscire a volte a fare a meno degli altri, che so, è meglio contare fino a uno che fare complicate combinazioni probabilistiche” cazzo, penso, voglio fare colpo, parlando complicato.<br />“Che vuol dire? Se ho capito bene, non hai bisogno di nessuno, giusto? Stai alla tua finestra, in cima a un tuo cazzo di monte, a un piedistallo; come e’, combinazioni probabilistiche; ma che fai, tratti le persone come cosa? Equazioni. Ho l’impressione che ti piaccia giudicare gli altri e che la voglia o cosa di solitudine sia solo mancanza di coraggio” mi fa un po’ teso<br />“Non pensi che a volte è meglio bastarsi da soli che nuotare senza salvagente nella piattezza, nell’abitudine, nello squallore. A volte nella falsità” mi sto infervorando, quel cacchio di pensiero del treno che torna e non capisco da dove. “Non posso pensare di tarpare i miei sogni e le aspirazioni per un’altra persona che a sua volta si tarpa le ali; penso sia idiosincrasia a certi rapporti cosiddetti d’affetto”.<br />Saverio ne ha avuto abbastanza. Chiude un occhio del tutto, l’altro è un lampo di una lama: “Ti farei un complimento se ti dicessi che sei un’isola. Tu dici che in chissà quale cacchio di vita siamo stati amici e sono io che non ti riconosco” le parole le sembra sputare. “Ma, ti giuro, non so proprio come avrei potuto avere per amico uno come te, uno che pensa come te”.<br />Apre gli occhi, come se avesse visto qualcosa nei miei, poi si volta e torna nel ristorante.<br />Vedo che si chiude la porta e decido di anderemene e cosi’ me ne vado.<br />Su al colle ci arrivo, penso, con l’autostop o con l’autobus.<br />L’ultima frase di Saverio mi rimbomba dentro e dietro e forte e chiara e me la ululano gli alberi che stanno ai lati della strada. E sembrano quelli delle favole con le mani alla fine dei rami e i nodi dei tronchi sembrano bocche deformate in un ghigno.<br />E questi minuti bastardi e soli che vorrei fossero incubo, ma che sono disperati, ma veri.<br />******<br />Sono arrivato a casa, a piedi, a pezzi, e mi sono gettato sul letto vestito.<br />Alle otto e mezzo sono già sul treno e desidero Roma e voglio studiare e ho occhi gonfi come non mai.<br />Il panorama è cosi’ consueto che preferisco la Gazzetta, che quando sono triste faccio sempre così, Gazzetta o Corriere e non penso.<br />Roma è una settimana così, e alla fine mi ricordo ragazze annegate nel fard e ragazze col viso buche e bolle dopo essere annegate nel fard.<br />Il mercoledì sera mi sono ubriacato, che di birra non è mai il caso, ma mi sono ubriacato di birra e il giorno dopo tutto il mondo e qualcosa di più pesa sulle palpebre, che pure se le alzi ci hai un male cane. Ma tutto è inutile.<br />“Ma, ti giuro, non so proprio come avrei potuto avere per amico uno come te, uno che pensa come te”.<br />A mensa cerco di non incrociare gli occhi con chi penso di conoscere, che non si sa mai.<br />E poi la codardia mi convince a restare a Roma anche il sabato e la domenica, che non l’ho mai fatto.<br />Mi guardo allo specchio e mi sistemo i capelli, abbasso gli occhi e in una domenica sera che neppure il pallone, capisco cos’è la codardia.<br />Avere paura di prendere l’aereo.<br />Avere paura di chiedere per paura di sentirsi rispondere no.<br />Avere paura di rischiare, nuove cose, nuovi amici, una nuova ragazza.<br />Guardarsi allo specchio solo per sistemarsi i capelli.<br />Non sono mai stato capace di fare il primo passo, ho sempre mandato qualcuno davanti e poi sono arrivato io.<br />Il lunedì mattina quasi mi convinco a chiamare Saverio, per sapere non so cosa, se mi riconosce o chissà.<br />Poi vado alla stazione Termini, salgo sul treno giusto, ma scendo due stazioni prima e so dove scendo, ai piedi di un paese che da lontano sembra un presepe e dentro è solo voglia di scappare.<br />Il paese è quasi deserto, che quelli che sono andati a lavorare nella valle devono ancora tornare e chi è rimasto qua, a mezzogiorno ha finito le cose da dire.<br />Ieri qui ha piovuto e io esco dal paese e salgo su una strada che ci passano solo le coppiette il sabato sera.<br />Ieri ha piovuto e si sente dentro all’erba ai lati della strada e nello stillicidio degli alberi vecchi in mezzo ai tornanti.<br />Il vento che mi passa tra i capelli ieri ha portato la pioggia e stanotte l’ha spazzata via, ma oggi è ancora freddo e tagliente e porta quasi neve. Un’ora e qualcosa senza pensare o fischiare e arrivo su una piazzola che dà sulla valle: davanti a me l’intera valle e i campanili sui colli e c’è anche il campanile della mia città e il duomo e c’è la striscia dell’autostrada e i camion che corrono sull’autostrada sembrano modellini spinti da un bimbo.<br />*******<br />Ho sempre fatto così, nei momenti che pensavo fossero tristi; sono sempre venuto quassù, a sentirmi il dominatore della valle, io e il mio occhio pennuto quassù, il mio occhio pennuto a spaziare tra i colli.<br />Oggi mi sento un ridicolo codardo.<br />Mi ricordo, qualche anno fa, capelli più lunghi e qualche ruga di espressione in meno, seduto al Belvedere a parlare male delle coppiette occhi negli occhi mano nella mano e vicino a me Saverio e sentirlo amico. E pero’ Saverio non parla, che questo deve essere un ricordo vero.<br />Che differenza ci passa tra un ricordo e tutti gli altri minuti passati a non fare niente di importante; solo nei ricordi, in quei momenti cerchiati di rosso, si stava bene.<br />Ma cacchio, perché mi ricordo che a Pisa a sette anni al ristorante mi incavolai perché mi misero troppo parmigiano sulle lasagne; perché mi ricordo di quando d’estate ci mettevamo a disegnare le astronavi facendo il rumore dei dischi volanti, perché mi ricordo tutte cose che sembrano inutili, perché proprio questo.<br />Perché non ricordo la voce di Saverio adesso; perché mi ricordo quanti sono i campanili giù nella valle che da qua se ne vedono otto e otto croci e trantadue campane e tante quante i denti e i campanili sono simboli fallici e perché Freud diceva che quando uno sognava di perdere i denti sognava di farsi una sega e, porca vacca schifosa, chi mi ha sbattuto su questa terra, qui dietro proprio a questi occhi e perché sono io e penso in me e non riconosco le mie idee quando mi guardo allo specchio.<br />E gli altri visi, se lo sono chiesto perché sono proprio lì dentro e da dove viene quella voce, quella che legge a mente, che canticchia, che dice e qualche volta sembra voler venire fuori; e canticchio pure io e cerco di farlo con una voce in falsetto che non è la mia.<br />E se continua così va a finire che si vive una volta sola e ovviamente si spreca tutto in pensieri progetti sussurri che invece si dovrebbe gridare e gridare e godersela, che si vive una volta sola e non se ne accorge nessuno, se non quando un attimo esatto prima di crepare si rivede l’inutile inutile e non ci si può perdonare che si poteva morire da giovani ma si è morti, e vissuti, da vecchi.<br />********<br />Sono sceso, a tratti di corsa, e forse mi ha dato solo uggia e mal di gola, il vento tagliente sulla piazzola.<br />Così torno a Roma. E vado a lezione e mi impegno a seguire matrici o qualcosa del genere, a guardare passare la vita degli altri per le scale, in sala studi, la fila della mensa, la fila alle cabine telefoniche; ed incontro qualcuno, in fila, gli parlo, forse sorrido persino e mi presti il giornale e che tempo schifoso, forse dovrei avere qualche amico qui a Roma.<br />Ma come si fa a avere amici così, che non ricordano nemmeno il tuo nome, magari il telefono e se non hanno la macchina è radio, tivu’ e computer e così credono che quel compagno di brioche e cappuccino e mi presti il giornale di cui non ricordano il nome, magari il telefono li pensino e li chiamino amici.<br />E dentro ad un tubo di metrò, in cima a qualche barrato, restano lì a vederla appannare, la fotocopia dell’amicizia, dentro distanze che non sono soltanto chilometri e strade, ma anche l’incredibile nulla che c’è dentro i palazzi, che i vicini li senti solo gridare, la notte, a guardare la targhetta del peso sull’ascensore, a girare le chiavi, a guardare l’orologio, tutti a correre verso un divano, una tele, e una vita normale normale normale.<br />Ora alla fine di questa settimana che è già sabato e risalgo sul treno, me la vedo sfilare, la fotocopia ingiallita e la vedo restare in questa Roma di grigio novembre e i giorni sono scappati perché stavolta voglio tornare.<br />L’ho preso alle dieci, quasi da solo quel treno, che non torna nessuno a quest’ora, e c’è il sole, ma no, ora piove; e la pioggia scheggia i vetri dei finestrini e i bambini la guardano scheggiare i vetri dell’aula, la pioggia, che il sabato a scuola è quasi giorno di festa e l’occhio sta fisso oltre il vetro per un sabato sera e una domenica che tornano che poi se ne vanno.<br />E la pioggia e il sole di prima esistono perché quei bimbi li stanno a guardare, come me che me li guardo apparire e sparire, come tutto quello che ho visto apparire e sparire.<br />E così tutto ciò che ho guardato ho potuto sapere e ora sento, tutto quello che ho capito, tutto quello che sono riuscito a farmi passare tra le mani e negli occhi e me lo racconto in una nenia un po’ strana e tento di trovare la rima, la rana fa rima con strana.<br />E ora so che questa cantilena e questo fiume di parole e sussurri che quella vocina dentro di me mi fa sapere, ora so che non posso più farla sentire solo a quel solo e orgoglioso me stesso; quel me stesso che pensavo superiore e infrangibile e che, come mi ha detto il vento freddo su alla piazzola, ora lo riconosco piccolo, vile, un angolo.<br />E quello che ho visto e quello che ho sentito, che cosa riesco ad essere o sono, il nevrotico osservare e guardare e spiarmi è inutile, fine a sé stesso, se rimane in questo vagone su questo sedile da non fumatore, in me.<br />Certo, le stelle le ho viste da solo e la luna e i colori e la valle e i campanili e Roma e Saverio e la pioggia e i vetri scheggiati e il sorriso di un bimbo, li ho visti da solo e me li potrò raccontare quanto mi pare, ma chissà se poi sono veri se non trovo qualcuno che dice che sì sono veri e mi racconta e mi inventa le sue stelle, i suoi colori e la valle e i campanili e Stefano e Milano e il mare e, infine, una spiaggia.<br />E per ricominciare su una spiaggia c’è un bimbo.<br />*********<br />Alla stazione c’è il capostazione con una bandiera rossa per far andare un treno pieno di macchine verso il nord e un militare, da solo.<br />La piazza è già la mia città, con corriere che non partono e non arrivano mai in orario e se partono in orario chissà che non è quella di prima.<br />Ho paura, lo ammetto, ma sono tornato.<br />Appeso agli appositi, teso come un tamburo, appendo me stesso a uno strano riflesso di un vetro un po’ sporco, che sembra un miraggio e mi divide la faccia, me la rende un po’ sghemba.<br />Scendo, sono a casa, mangio, poi dormo.<br />Dopo dormito esco e sono al Belvedere che non c’è ancora nessuno, sono le sei e fa freddo e il freddo lo respiro. Chissà se si ricorderanno di un ragazzo che hanno portato a mangiare una pizza e stava lì lì per crollare; chissà se mi faranno stare ancora con loro, mi chiedo e mi guardo il Belvedere sempre uguale a sé stesso, non cambia di certo in due settimane, anzi deve essere stato sempre così.<br />Una mano sulla spalla, un tocco e “Stefano, vecchia carogna” è Saverio che mi abbraccia “Cristo” mi fa “è quasi un mese che non ci vediamo; trovato qualcuna giù a Roma eh?”<br />“Ma come un mese” balbetto “Saverio …” ma è Saverio e io sono io ed è un mese e mi abbraccia.<br />“Perché non ti sei fatto sentire, carogna. Bionda? Lettere, ci butto che fa Lettere”.<br />Mi sorride e mi guarda con gli occhi distesi.<br />“Guarda Saverio che due sabati fa …” “E’ di qua, allora; chi è, se è di qua me lo devi dire”.<br />“Stronzo, te l’avrei detto subito se era di qua, più o meno subito” rido anch’io.<br />“Mi sa che una festa al figliol prodigo non gliela leva nessuno” dice, mentre arriva la cinquecento di Casimiro e Casimiro mi dice “chi non muore eccetera eccetera”.<br />“Eccetera eccetera” rido e poi loro parlottano e passano due ragazzine, quindici anni forse, trucco pesante e passano l’amico di Barnaba, quello scoppiato che parla alle mosche, e Sandro, che ci ha due pupille a spinello, e poi macchine, moto, ragazze, è sabato sera.<br />E lo guardo il mio sabato sera e non capisco come sono scomparso e poi ricomparso e dov’ero?, eppure era vero che nessuno mi riconosceva ed ora è normale e i sorrisi e gli sguardi, normale.<br />E il Belvedere è davvero un belvedere e il tramonto se n’è andato via e ha lasciato le luci di paesi più o meno lontani, che l’umidità che le fa tremolare, entra i dentro i polmoni e rimane.<br />Saverio mi guarda col suo sguardo più vero e mi dice “Niente pizza, che ne dici del mare?”.<br />Io dico va bene e ci andiamo, giù al mare, e la sabbia d’inverno è fredda davvero e castelli non se possono fare, ma è meglio star zitti e lasciare che il vento dal mare ci passi i cappotti e ci faccia lacrimare.<br />E così ci stringiamo tutti per sentire più caldo e lacrimiamo, piangiamo e piangere è finto, ma così, a noi sembra vero.stefanopz + laralidiahttp://www.blogger.com/profile/15249029335247491670noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9052045044980251020.post-50653374621040561062012-01-25T15:33:00.001-08:002012-01-25T15:33:22.993-08:00L'AMICA DI ORSETTA<br />Giulio dall'altro capo della doppia scrivania alzò la testa: “Che triste, c’ho qua uno, anvedi, un ciociaro proprio come te, vuole portà a Jersey manco mezzo mijardo, un poveraccio”. Gli sorrisi a mezza bocca: “A forza di stare qua dentro stai perdendo il senso delle proporzioni; quanto ci metteremo noi a fare mezzo miliardo ... una decina d’anni, se va bene”.<br />“Senti, ciociarone triste, amico mio, qua dentro o entro due anni me fanno associato o arrivederci e grazie: m’apro lo studio mio, uno studiolo fresco, co’ la donna mia come segretaria e qualcun altro de qua dentro, che so Battaglini ... persino tu che sei bravo ma lento. Je famo un didietro così a ‘sti quattro bambacioni”.<br />Giulio Nardoni era così, dimenticava che la madre era una nobile di origini triestine e che il padre manteneva un po’ di cadenza marchigiana, era un romano integrato e convinto.<br />La cosa che mi piaceva più di lui, oltre al suo sorrisone, un lampo in mezzo al viso lampadato, era il fatto che conosceva due soli aggettivi qualificativi: fresco, per tutto ciò che era positivo e triste, per tutto ciò che era negativo. E così una ragazza carina era fresca, una gratifica natalizia era fresca, una vittoria della Roma era fresca; i comunisti erano tristi, i laziali erano tristi, la camicia a maniche corte sotto la giacca era triste (e su questo per la verità ero d'accordo anch’io).<br />Ce ne stavamo lì, nell'ultima stanza dell’ultimo corridoio del terzo (e ultimo) piano dello Studio Legale e Tributario Internazionale Costa Colombo Granata e Labernacher, Ufficio di Roma, ordinariamente confinati alla verifica della congruità con le risoluzioni ministeriali dei contratti tra casa madre e filiale italiana di qualche multinazionale e a scovare il paradiso fiscale di moda nel semestre.<br />“Le Cayman le ha bruciate John Grisham con Il Socio” dicevo io; “Jersey” (o meglio lui diceva proprio Gersi), “Gersi è un paradiso triste; ce fa un freddo cane, na vorta che me c’hanno mannato con un siciliano, come minimo de San Giuseppe Iato, me so’ preso trentanove de febbre e fori ce stava ‘na bufera” diceva lui. “E’ perché non ti vuoi mettere la maglietta della salute che stai sempre raffreddato; mia madre, donna di campagna, me lo ricorda tutte le sere” rispondevo io.<br />Ma la storia più carina era che lo aveva battezzato Andreotti in persona. "E perché me chiamerei Giulio, se no?”. Io gli fischiettavo il motivo del Padrino e lui se la rideva. "Sei triste, Andreotti è il più grande; e poi la Ciociaria, nun era terra der divo Giulio?” “Come no” rispondevo io, “era il presidente onorario dell'Associazione tra i Ciociari a Roma e poi devo riconoscere che quando c’era lui qualche soldo nelle zone nostre arrivava, tra Cassa del mezzogiorno e sgravi contributivi. Te l'ho già raccontata la storia del sindaco del paesino ciociaro e dell'ambasciatore che aspettano fuori la stanza di Andreotti e la segretaria che gli dice ‘Faccio entrare prima l'ambasciatore, ovviamente’?”. “Sì la so già, che Andreotti j’arisponne 'Fa’ entrà er sindaco burino che se nun c’era lui, io quanno c’arrivavo a parlà con l'ambasciatore’”<br />“Oh ma il piano ferie per Natale?” gli chiesi<br />“Il ventisette è mercoledì, per cui o ventisette, ventotto e ventinove, oppure, trenta sabato, trentuno domenica, il primo è festa, quindi due, tre, quattro e cinque. Io me farei i tre di dicembre”.<br />Sai che palla, pensavo io, da Natale a Capodanno, solo come un cane, a Roma; quasi quasi faccio avanti e indietro; però in fondo dal trenta dicembre al sei gennaio in ferie, anzi no, al nove.<br />“Per me va bene” feci io.<br />“E’ annata” fece lui<br />“E’ ita” feci io.<br />Era l’ultima settimana di novembre e a Roma riuscivo ancora a andare in giro senza giubbotto, in una proroga incondizionata dell’ottobrata.<br />“Senti, ciociarone triste, fa ‘no sgaro alla triste Ciociaria e stasera fatti un venerdì sera co’ Giulio tuo”<br />“Party?”<br />“Party dalla contessina di Sant’Olmo”<br />“Cacchio, Giulio, ma alla Festa de noantri non ci vai mai, porchetta, grattachecca?”<br />“A moro, io so’ nobbile e vado alle feste dei nobbili”<br />“La contessina di Sant’Olmo. La scorsa settimana chi era? La marchesina Serbelloni Mazzanti Vien Dal Mare?”<br />“Stronzo, era la marchesina Gregori Bianchi, i proprietari di palazzo Gregori, dietro a via Veneto”<br />“E palazzo Sant’Orso dov’è?”<br />“Sant’Olmo, non Sant’Orso; nun c’hanno il palazzo, si va all’Olgiata.”<br />“Ma come mai sempre tutti questi nobili? E poi ti vorresti portare appresso me, che so’ così popular.”<br />“Ma è per tojerti quell’espressione triste; sei un bravo ragazzetto e devi comincia’ a vede la Roma bai nait. E le feste dei nobbili so’ le più fresche, mica se spareno li cannoni come li borgatari”<br />“Ah” lo interruppi “i nobili si fanno di coca”.<br />“No, nun hai capito; è l’atmosfera; ‘ste ragazze de classe, tutte affettate, tutte educate. E poi la contessina Ottilia Corsivieri di Sant’Olmo ha fatto er liceo co’ mi’ sorella. Mi’ sorella sarà annata all’Olgiata almeno quaranta volte”<br />“Ma tu ti chiami Giulio Nardoni e io Stefano Palmigiani; come ci presentiamo alla contessina Corsivieri di Sant’Orso”.<br />“Ancora co st’orso. Senti, a Ste’ parlaje ciociaro si voi, nun te preoccupa’. Si voi, te vengo a prende alle nove”.<br />“Parè, che te tengo da di’, iami da ‘sta contessina, fateme ude’ sta casa. Basta che te stai sitte”, gli sbottai nel migliore ciociaro che potevo.<br />“Che triste. Namosene a prende un caffettino, va”<br />*<br />Giulio, ovviamente, aveva un BMW. “Avevo preso er vecchio modello del 318, poi, manco un mese dopo era uscito il modello nuovo; ar concessionario j’ho detto de non prende pecculo e quello ha capito e m’ha chiesto solo cinque mijoni de differenza. Ma guarda che spettacolo”.<br />“Ha pagato papa’?” dissi io, un po’ scocciato.<br />“Perche’ quell’accrocco che c’hai tu chi te l’ha pagato?”.<br />“Metà io e metà l’assicurazione, dopo che m’hanno fregato l’Ibiza”, dissi pensando alla mia Rover 216 color verde Rover, che mi scarrozzava sulla A1 ad inizio e fine di ogni week end.<br />“L’Ibiza te l’aveva comprata tu’ padre”<br />“Ovvio”<br />“E allora stai pari a me”.<br />La BMW grigia di Giulio mi accolse col fumo delle Marlboro a mezz’aria; “Ce l’ho fatta, me porto er ciociarone”.<br />Erano le nove meno dieci dell’ultimo venerdì di novembre e mi sentivo un po’ un traditore a restare a Roma il venerdì sera, perché non l’avevo mai fatto.<br />A chi mi aspettava, a casa mia, avevo rifilato la più classica delle balle su un contratto da verificare entro e non oltre.<br />Superammo il raccordo e arrivammo all’Olgiata alle dieci meno un quarto.<br />La macchina di Giulio era un’utilitaria; sembrava di stare al concessionario della Mercedes, dalla jeep allo station wagon passando per le coupé, contai quattro Jaguar, ma devo dire che anche qualche altro poveraccio sfoggiava Golf Turbodiesel.<br />Io e Giulio eravamo vestiti come al lavoro, completi grigi, camicia celeste (questa la dico con orgoglio: io e lui eravamo gli unici senza le cifre sulla camicia) e cravatta con sfondo bordeaux.<br />La differenza tra lui e me era nel colore del viso: cioccolata chiara contro itterizia appena superata.<br />La villa ovviamente aveva un piscinone semiolimpionico, un patio che c’entrerebbe un campo da tennis ed un salone delle feste che era una piazza d’armi.<br />La contessina Ottilia Corsivieri di Sant’Olmo era una ragazza sui ventotto, con delle meches da quarantenne e un vestito carta da zucchero che la rendeva banalmente impeccabile: ci sorrise e io mi aspettavo una erre moscia da pazzi.<br />“Giulio carissimo; tua sorella mi ha detto che saresti venuto tu in rappresentanza dei Nardoni ed è sublime” aveva un tono terrificantemente privo di accento e l’ultima sillaba di sublime si era persa in una sorta di sospiro.<br />“Questo è Stefano, un collega, l’ho portato per non venire da solo” Giulio aveva le vene del collo tese per lo sforzo di parlare italiano e rideva mentre parlava, esattamente come quando in qualche riunione doveva sbocconcellare qualcosa in inglese.<br />“Piacere” dissi<br />“Piace’ ” rispose, troncando il finale; “Olmo e Orsetta dovrebbero arrivare più tardi. Scusatemi è arrivata la piccola Rehinstein”. Ci lasciò muovendosi come su un cuscino d’aria.<br />“Chi sono Olmo e Orsetta?” chiesi io.<br />Giulio mi fece un sorriso da vero intenditore: “Olmo Corsivieri di Sant’Olmo, trent’anni, fotogenico, è direttore generale della Donny Most inc., la merchant bank”.<br />“Cacchio, un nobile che lavora; e Orsetta, non mi dire che Orsetta è la sorella di Olmo e Ottilia”. Giulio annuì. “Ci butto che i genitori si chiamano Ottavio e Ornella, il maggiordomo Oscar ed il cane Oliver”.<br />“L’hai quasi azzeccata. Il padre è il conte Oliviero Maria, la madre è donna Oneira; sur maggiordomo ed sur cane nun c’ho notizie”.<br />“Ti prego, e qui dentro si chiameranno tutti Lupo, Brando, Flaminia e Guia”.<br />“Be’ in fondo ce stamo pure noi, che siamo Giulio e Stefano. Ma nnamo, Ste’, buttamose ner vortice degli aperitivi”.<br />Il catering era il trionfo di rucola e pachino, i cocktail erano tutti di colori pastello, tranne una specie di botte di succo di carota su cui le nobili si catapultavano per ordine imperioso dei dietologi di corte.<br />Io presi un bicchiere che conteneva un liquido celestino chiaro, il cui sapore evocava la limonata fatta in casa da mia nonna. “Ma du’ birozze n’ce le potarimo fa’, massera, Giù” sbottai a Giulio, andato palesemente in estasi sorseggiando con occhi sognanti estratto di sedano e mandarino.<br />“Smetti di fa’ er burino; m’ha detto mi’ sorella che er catering l’ha fatto ‘na società che fa li party a palazzo Chigi, mica pizza e fichi”.<br />“D’accordo, ma a volte mangiarsi pizza e fichi non mi sembra disdicevole”.<br />“Guarda me stai così a rompe, sei così triste, che la prossima vorta nun me te porto di certo. … Ughetta!” esclamò di colpo.<br />Ughetta era un metro e ottanta ed era scalza, aveva una tunica bianca che lasciava intendere una predilezione per biancheria intima piuttosto succinta; l’aggettivo filiforme la ingrassava.<br />“Giulio, tesooooro”. Baciò Giulio con la parte della mascella più vicina all’orecchio. “Stai sublime, veramente”. “Ughetta, sei stupenda, da quanto tempo non ci vediamo; ah da quest’estate al Gilda On the beach” “Santi numi, Giulio, Fregene è così terribilmente CPT, davvero; da Capalbio in poi si comincia a respirare. Pensa, ho passato quindici giorni a cavalcare a pelo cavalli maremmani a Punta Ala. Un'esperienza miiistica. Oh guarda, c’e’ Urbi, scusami tesoooro, vado”.<br />“Cosa vuol dire CPT?” chiesi a Giulio. “Vor di’ Casilino Prenestino Tiburtino, li quartieri piccolo borghesi: anche quando offendono ‘sti nobili nun sanno che esistono le borgate vere”.<br />“Ehi fantastico tesoooro” mi misi a sfotterlo“ c’hai un attimo sociologico”.<br />Mi guardò di sottecchi, come per dire ‘lo sai che sono meglio di quello che sembro’.<br />Intanto la musica si era fatta new age, quelle nenie dei nativi americani e Giulio tornò in sé stesso: “Senti che musica fresca; Ottilia jel’ammolla proprio, non c’è che dì. Senti a Ste’, te devo lascià che senno’ me rovini la piazza”.<br />“Vai da Ughetta, non ti preoccupare”<br />“Ma no, lascialo perde quer troione; a scola se la semo scopata tutti tranne uno perché era frocio. Piuttosto, ecco quella triste di Orsetta”. Mi diede di gomito.<br />Mi girai verso una ragazza che era la copia lievemente sbiadita della sorella, solo che al posto delle meches aveva i capelli rasta; facevano a pugni con un abito semplice, lievemente etnico, color sacco di juta. Era chiaro che entro i trenta avrebbe ripreso le meches, avrebbe comprato un vestito carta da zucchero ed avrebbe sposato un ambasciatore.<br />Vicino a lei c’era una ragazza, con i capelli castano chiari, due occhi che dai miei dieci metri di distanza sembravano celesti, il viso un po’ irregolare; quando sorrideva il mento si spostava un po’ a sinistra.<br />In questa parata di bellezze così convenzionali, il suo viso semplice ma particolare la faceva spiccare come una casina multicolore in mezzo alle case a schiera dei minatori del Galles.<br />Mi voltai verso Giulio nella speranza di vederlo tornare dalle mie parti e di farmi presentare Orsetta e, di conseguenza, l’amica di Orsetta.<br />Lo vidi vicino ad un tizio sul metro e sessanta con il nodo della cravatta più largo del collo, che gesticolava furiosamente. Il tizio basso era più abbronzato di Giulio e questo doveva rendere il mio collega oltremodo nervoso.<br />Mi girai di nuovo e ad un metro da me Orsetta mi sorrise e mi fece: “E tu chi sei?”. “Io sto con Giulio Nardoni … non nel senso letterale del termine, ovviamente”. Orsetta rise, quasi con un colpo di tosse: “Il sospetto su Giulio c’è sempre stato” fece, con una voce che al telefono avrei attribuito ad una novenne dal vocabolario particolarmente forbito.<br />“Sei Orsetta?” chiese<br />“Si’, piacere”<br />“Piacere, Stefano. … E la tua amica?”<br />Come sorpresa da un professore mentre chiacchiera con la vicina, l’amica di Orsetta si voltò di scatto verso di me: “Liana, piacere”.<br />“Amica intima di Tarzan, suppongo”.<br />Rise, forse per educazione. “Be’ almeno uno che non mi dice ‘come Liana Orfei’”.<br />“Cercare di essere originale è il mio forte” dissi, con voce un po’ tremante.<br />E per dire la verità mi tremava la voce, e mi tremavano le ginocchia e nello stomaco c’era un groviglio che non mi sembrò immediata conseguenza del cocktail color pastello.<br />“Scusaci … Liana, ti porto in camera mia, per quella questione…” Orsetta me la portò via.<br />Sussurrai un ciao in cui cercai di mettere una qualche componente arrochita da tombeur de femmes.<br />Cercavo di darmi un contegno, avevo un’arsura terrificante, mi misi a sussurrare un non ci posso credere, cercai un’altra volta Giulio con lo sguardo.<br />Urtai inavvertitamente Ughetta che ne approfittò per parlarmi: “Tu sei l’amico di Giulio. Spleendido. E come ti chiami?”. Le risposi.<br />“Sai cavalcare?” mi chiese.<br />Ci trovai subito un doppiosenso e sbottai “No, vado a malapena in bicicletta”.<br />“Ah ah ah, divertente questa” rise con una distanza di un secondo tra un ah e l’altro, come un nobile inglese, coprendosi la bocca con la mano. Guardandola, compresi il significato dell’espressione ‘contare le costole’.<br />“Scusa ho un problema sotto la spalla” mi prese la mano “non potresti darmi una mano; è qualcosa, qualcosa a metà tra un prurito ed un dolore”.<br />La mano era dalle parti della scapola, quando un tizio con un riporto abbastanza approssimativo le diede un pizzico in zona perizoma.<br />Ughetta si voltò: “Rigoooo!; ci volevi proprio tu, qui a nessuno piace cavalcare”<br />Non mi presentò nemmeno il tizio del riporto, che aveva una camicia a quadri celesti con le cifre che occupavano quasi mezza camicia, dato che erano R.M.C.D.S.O., che qualcuno, qualche minuto dopo, mi avrebbe evidenziato essere l’acronimo di Rigoberto Maria Corsivieri di Sant’Olmo, cugino della festeggiata.<br />**<br />Ho sempre avuto il sospetto che ogni festa a Roma ad un certo punto comporti cantare in coro a squarciagola “La società dei magnaccioni”.<br />Alle undici e un quarto, invece, la situazione non era ancora degenerata.<br />La musica era penosa, con echi celtici e a me che piace la musica popolare irlandese, quella che suonano nei pub, per intenderci, questi celtici qui mi facevano due palle.<br />La gente era sparpagliata in gruppetti, divisi forse a seconda del colore del cocktail.<br />Giulio, per non sapere né leggere né scrivere, aveva trovato una bottiglia di Braghetto, che ci stavamo centellinando insieme a pochi altri privilegiati.<br />Guardai di sfuggita l’orologio e le lancette dicevano undici e mezza; dato che, come molti altri fissati come me, porto l’orologio sette minuti avanti, si navigava a vista tra le undici e venti e le undici e venticinque.<br />Avevo appena rimesso il braccio lungo il corpo, quando sentii un tocco sulla spalla.<br />Mi voltai.<br />Liana.<br />Aveva sul viso qualcosa meno di un sorriso, ma il mento era già un po’ sghembo.<br />“Com’era la storia di Tarzan?”<br />Mi ero sbagliato: gli occhi non erano celesti, erano verdi, ma di un verde a cui bisognava aggiungere un ulteriore qualificativo, ancora non inventato.<br />“Be’ Tarzan, la liana, Cita, il signore delle scimmie, quella cosa lì, quella classica”<br />Mi appare Woody Allen, in Io e Annie, quando nel primo colloquio con Annie Hall, lui e lei parlano, sparano banalità, con i sottotitoli con scritto ciò che pensano davvero.<br />Il mio sottotitolo era: “entro dieci secondi inventatene una di altissimo livello, o perdi una delle più grandi occasioni della tua vita”.<br />“Per la verità mi chiamo Liliana, ma era il nome di mia nonna e allora in casa per distinguerci mi hanno sempre chiamato col diminutivo”<br />“Accento del nord: milanese?”<br />“No, veneta, di Treviso. Niente battute sul radicchio, ti prego!”<br />Rimasi col fiato a metà bocca. “Figurati chi sta peggio, io sono di Frosinone. Lavori qui a Roma?”.<br />“No, sono qui a Roma, per un corso di aggiornamento. Faccio volontariato con una sorta di consorzio tra parrocchie a Treviso; la sede centrale è qua a Roma. Al corso ho incontrato Orsetta ed eccomi qua”<br />“Io sono un imbucato” le feci “non volevano farmi entrare perché ho un nome normale. Mi ha portato qua il primo ministro delle Lampados” le addito Giulio, ormai groggy per il Braghetto “e spero che la sua utilitaria 2500 turbodiesel mi riporti sano e salvo a casa. Anzi, per essere preciso, lo speravo fino a un paio di minuti fa” (Sottotitolo: stai a fa’ il cascamorto).<br />Ridacchiò: “mi fanno un po’ lo stesso effetto anche a me. Sono andata a mangiare in un wine bar con Orsetta ieri sera e avevo sospettato qualcosa; qui è terrificante”.<br />“In che senso?”<br />“Ostentazione, lusso, macchine”<br />“Dovrebbero fare effetto a me, che sono un povero contadino ciociaro, non ad una figlia del mitico nord est”<br />“Lascia stare, mi fa effetto, un po’ come quelli che hanno la collana con il crocifisso e bestemmiano come turchi”. Per un attimo sembrò cercare la concentrazione “Ascolta, spostiamoci verso la finestra, che qui fa troppo caldo”.<br />Masticai un occhei, e, dato che mi sembrava quasi un invito, sentii un brivido che partiva da uno qualsiasi degli organi del ventre e finiva al centro esatto dell’inguine.<br />“E che volontariato fai? Scusa, è una domanda mal posta; questo seminario, scusa seminario sa di prete; questo corso, insomma …”<br />“Beh, faccio assistenza domiciliare ai malati terminali di cancro”<br />Mi si spense il sorriso e la mia bocca divenne semplicemente un segmento ebete.<br />“Non vorrei offenderti, ma mi hai risposto come se mi avessi detto che hai una rivendita di carpenteria metallica”<br />“Questo pare che sia uno dei segreti per riuscire a fare questa attività. Farla come se fosse una cosa normale, quotidiana. Sai, ci bombardano ogni giorno medici, psicologi, infermieri”<br />Cercai di uscirne: “E oltre al volontariato?”<br />“Sono laureata in Economia e tra un paio di settimane comincio a lavorare in un grosso studio di Treviso”<br />“Fantastico; che fai, contabilità, paghe, cose così?”<br />“No è uno studio che segue clienti enormi, lavora molto sull’estero…”<br />“Magari è Zaniolo e Rigutto”<br />“Sì proprio loro …”<br />“Cazz…, cacchio, non ci credo; io sto da Costa e Granata. E’ il nostro corrispondente in Veneto. Non ci posso credere, che fortuna!”<br />Feci un po’ il fighetto a parlare di convenzioni internazionali ed amenità connesse, ma compresi abbastanza rapidamente che era completamente fuori luogo.<br />Tornai sulla luna.<br />Fu una sorta di viaggio. Un’ora, forse un’ora e un quarto, vicino alla finestra; è banale, ma attorno non c’era più niente.<br />Cercavo di stupirla con la mia cultura enciclopedica, partendo da Dostoevskij, dalla distonia tra il mio lavoro e la passione smodata per i Pearl Jam.<br />Ma fu sul cinema che mi ammazzò.<br />“L’hai visto Un cuore in inverno?” feci<br />“Sì”<br />“Favoloso: sai, io penso che il mondo si divida tra quelli che hanno visto Un cuore in inverno e quelli che non l’hanno visto”.<br />“Non sono d’accordo” mi fece il sorriso sghembo “io penso che il mondo si divida tra quelli che Un cuore in inverno l’hanno capito e quelli che non l’hanno capito”.<br />Restai come un ebete; lei aveva un occhio, il sinistro, che le brillava di una cialtroneria da bimba.<br />Fu il segnale. Parlammo di noi, lasciando stare musica cinema e libri, ma infilandoceli dentro ogni tanto, come lo sfondo di un bel quadro.<br />Dissi cose su me stesso che probabilmente compresi solo in quel momento: riuscii a descrivere senza fare la vittima, la paura delle responsabilità, i miei tentativi di andare d’accordo con tutti (lei giustamente disse “semplicemente non vuoi andare d’accordo con tutti, vuoi che tutti quelli che ti stanno attorno ti esprimano quell’apprezzamento, per farti sentire sicuro”), la sindrome da insoddisfazione perenne.<br />Lei parlò di come non ne potesse più della sua aria di brava ragazza (disse: “sono stanca di essere la pecora bianca della famiglia”), di come d’altra parte facesse sforzi immani per apparire sempre perfetta; poi, le attese della famiglia più per una buona madre di famiglia (“cattolica veneta”, aggiunsi io e lei annuì sghemba) che per qualcosa d’altro, una donna realizzata, ad esempio, i sensi di colpa per un fratello più piccolo, che finiva per essere schiacciato dalla sua personalità e che, per fortuna, era riuscito a trovare una dimensione a Milano, lontano da casa e da lei.<br />E poi, un fidanzato (“un moroso” disse lei; io me ne uscii con un terrificante “chi è? Uno che non ti paga l’affitto?”), che sembrava tutto rose e fiori, ma che negli ultimi giorni al telefono, davanti a questa prima esperienza lontano da casa e lontano da lui, era stato, per la prima volta in otto anni, freddo, ostile.<br />“Perché le persone alla fine sono diverse da quelle che sono sembrate per anni?” chiese<br />“Prova a pensare se da domani lui non ti chiamasse più; forse la vita sarebbe identica; oppure, questa qui era la prova necessaria per rigenerare il sentimento” dissi.<br />“Sai, è successa una cosa strana; l’altro ieri sera ci siamo sentiti ed insomma c’era questa freddezza. Diceva ‘ma era necessario che andassi lì? Devi cominciare a lavorare … hai studiato tutti questi anni per finire a fare l’infermiera … assumiti le responsabilità da persona adulta … devi capire la vita vera come è fatta … la gente, non sono mica tutti buoni come te’. Ecco diceva qualcosa di questo genere; poi alla fine, mi ha detto ‘Liana, mi manchi’. E ho risentito quello che mi piace di lui, quel suo essere dolce e deciso, rassicurante. Poi mi ha salutato e ha riattaccato il telefono; ma in realtà non ha chiuso la comunicazione e io l’ho sentito per cinque minuti che girava per casa, con una voce normale, che diceva alla mamma cose del tipo ‘sarebbe il caso di portare fuori il cane’ o ‘i biscotti sono finiti?’; poi è arrivato qualcuno, una zia, e si sono messi a parlare del tempo, di un vicino di casa sempre ubriaco. Era tutto così normale, stava vivendo, e aveva quel tono … anonimo, senza sentimento, né ostile né appassionato. E io pensavo, ha una sua vita, banale, nella quale io esisto o non esisto è la stessa cosa. E … quindi, hai ragione tu, forse se da domani non chiamasse più, la vita sarebbe identica o forse è la vita che è così, banale”<br />A quel punto si mise a fissare un punto, indefinito, forse dalle parti della mia spalla sinistra. Venti secondi buoni, così.<br />“Si vede proprio, la forfora, eh?” provai.<br />Scoppiò a ridere; “scusami, mi ero persa”<br />“Io sono sempre perso”<br />Stemmo zitti; ci guardavamo soltanto. La guardavo respirare; poi passavo lo sguardo dall’uno all’altro occhio. Non dovevo sforzarmi per liberare uno sguardo forte: il mio sguardo era forte, i miei occhi erano naturalmente brillanti. I suoi, di occhi, sapevano di leggerezza e di stupore e le sue lacrime, se mai avesse pianto, non potevano essere salate.<br />Quando mi scossi, mi accorsi, girandomi, che il salone esisteva ancora, che c’erano altre persone, che parlavano, qualcuno rideva, ma nessuno poteva essere felice.<br />Giulio, a quanto riuscii a capire, se ne era già andato, con una discrezione che me lo rese immensamente caro.<br />Liana all’una doveva prendere servizio dalle parti di corso Trieste.<br />Chiamammo un taxi.<br />Liana andò a salutare Orsetta, dandosi appuntamento, a quanto compresi, per l’indomani pomeriggio; bevvero qualcosa insieme, mentre, quasi sulla porta, guardavo quell’ora e qualcosa passata vicina alla finestra e la confrontavo con altre ore, con altri giorni, con la vita normale.<br />Il taxi, Belgio 24, arrivò piuttosto rapidamente e Liana diede l’indirizzo.<br />Era una vecchia Regata gialla ed il sedile del guidatore era stato sostituito con un materiale che ricordava le sedie a sdraio con lo schienale fatto di strisce di gomma rossa.<br />I sedili di dietro potevano essere stati di velluto.<br />Mi misi a guardare fuori, perché la presenza dell’autista mi sembrava impedire qualsiasi tipo di atmosfera.<br />Mi sbagliavo.<br />La mano sinistra di Liana e la mia mano destra stavano piuttosto vicine sin dal momento in cui eravamo saliti in macchina.<br />Penso che nessuno dei due cominciò, ma le dita si sfiorarono, si toccarono, si intrecciarono, poi si sfioravano ancora, come se non volessero fare rumore; io guardavo fuori verso sinistra, Liana guardava avanti, come se fosse preoccupata che l’autista sbagliasse strada.<br />Le mani si strinsero, forte, dotate, direi, di vita propria.<br />Non ce la feci più e chiusi gli occhi, sopraffatto dalla tenerezza.<br />Ebbi la sensazione che anche lei li chiudesse, gli occhi; fuori poteva pure fare freddo, ma le due mani stavano lì immerse in un dormiveglia di dolce tepore.<br />Mi vennero in mente, non so perché, dei vecchi Smiths; si vede che il tempo lo volevo fermare.<br />And if a double-decker bus<br />Crashes into us<br />To die by your side<br />Such a heavenly way to die<br />And if a ten ton truck<br />Kills the both of us<br />To die by your side<br />The pleasure and the privilege is mine<br />Il tempo non poteva avere senso, ma in una ventina di minuti, in quella notte di fine novembre arrivammo dalle parti di corso Trieste.<br />Scendemmo tutti e due e lei aveva fretta, perché era l’una passata e doveva essere dal paziente, dall’assistito, o come lo chiamava, all’una, per dare il cambio al suo collega.<br />Per il sabato sera avevano previsto una riunione finale, alle sette e mezza, del loro gruppo e lei avrebbe staccato dal turno alle dieci, probabilmente insonne.<br />Negli unici venti secondi di lucidità avuti dentro Belgio 24, avevo deciso cosa fare per l’indomani.<br />Liana accettò.<br />***<br />Alle dieci meno dieci, con la mia Roverina, ero dalle parti di corso Trieste.<br />Scese alle dieci e qualcosa.<br />“Mi piacerebbe lavarmi; anzi per la verità mi piacerebbe dormire” disse, comunque sorridendo.<br />“Per la seconda, ti fornisco il sedile del passeggero. Per la prima …”.<br />“Per la prima, passiamo dieci secondi in collegio”.<br />“In collegio?” chiesi.<br />“Già, non te l’avevo detto; alloggio in collegio di monache. Un’allegria …”<br />Il collegio era poco lontano, per fortuna; salì e stette una ventina di minuti.<br />Tornò con i capelli ancora umidi, essenziale in jeans, camicia bianca, maglione blu e giubbotto.<br />“Ok, si va” dissi io, con il tono di John Wayne che comanda la carovana delle diligenze.<br />Lei sbadigliò: “Com’era la storia del sedile del passeggero?”<br />Mi accennò rapidamente ad una notte terrificante, per l’assistito e per lei; nessuno aveva chiuso occhio e così all’altezza della prima area di servizio della Tangenziale Est, Liana si era già addormentata.<br />****<br />Si svegliò che erano quasi le tre. Vedere Liana dormire era stata un’esperienza di una dolcezza disarmante.<br />L’alba ci colse con la sua dolcezza<br />Un dormiveglia di gesti più belli<br />Mi svegliai con in mano una carezza<br />E gliela sciolsi a lungo tra i capelli<br />David Riondino era divenuto col passare delle ore una sorta di mantra.<br />Quando ancora si stropicciava gli occhi, le accarezzai i capelli al lato della testa e glieli misi dietro l’orecchio.<br />“Dove siamo?” gemette<br />“A Bari; anzi per la precisione siamo a Palese, sul lungomare”.<br />Riuscì a mascherare la sorpresa.<br />“Andiamo, che lo chef il pesce sotto sale fra un po’ ce lo butta appresso”.<br />Mangiammo quasi in silenzio, guardando l’Adriatico muoversi con lentezza e accarezzare i frangiflutti.<br />Gli angoli della bocca mi si alzavano da soli, senza sforzo, perché la gioia, quella a cui tutti quanti per qualche minuto tutti abbiamo diritto, io ce l’avevo davanti.<br />Gli occhi verdi + aggettivo qualificativo non ancora inventato giocavano con i riflessi del sole sulla tovaglia, cercavano i miei occhi.<br />Sapevamo che non c’era tanto tempo.<br />Alle quattro e venti ci alzammo e i tre gradini del ristorante li scendemmo abbracciati, o qualcosa di simile.<br />Stemmo qualche minuto dalle parti dello sportello del passeggero, poi risalimmo in macchina.<br />Casello di Bari Nord.<br />Tutto cominciò cinque chilometri prima dell’uscita di Canosa.<br />Il sole stava per raggiungere le ultime colline delle montagne tra l’Irpinia e la Puglia.<br />Il cielo verso quelle montagne era a metà tra rosa e arancio.<br />Liana e io guardavamo quella parte di cielo, con gli occhi sereni di chi ha già capito.<br />Allo svincolo tra la A14 e la Napoli – Bari, dopo una curva che sembrava non finire mai, il sole ce lo troviamo davanti.<br />Il lunghissimo rettilineo che va da Canosa a Candela.<br />Attorno, campi di grano a non finire, come possono essere i campi di grano a fine novembre: nient’altro che la nostra autostrada, la nostra macchina e attorno, attorno il deserto nostrano.<br />Se la macchina non avesse fatto il rumore che faceva, non si sarebbe sentito niente; l’unico rumore sarebbe stato quello di un sole che stava tramontando.<br />Poi il sole finì dietro Candela, divenne rosso fuoco e il cielo intero a ovest divenne rosso fuoco; le tre nuvole blu che striavano il tramonto sembravano ideogrammi scritti in una lingua perduta.<br />Poi il cielo divenne rosso tiziano.<br />“Ci sono delle persone che non si conoscono, che stanno separate, a volte non si incontrano mai per tutta la vita. Tra queste persone c’è un legame, un’affinità, chiamala come ti pare. A volte non si incontrano per tutta la vita; certe volte, se sono particolarmente fortunate, si incontrano al momento giusto e hanno la fortuna di poter fare insieme qualcosa che somiglia ad un lungo viaggio. Che so, un matrimonio, un’amicizia, di quelle vere. Altre volte il momento non è quello giusto, il posto neanche, magari sono separati da chilometri, o da anni; ma se esiste, il legame, dico, queste persone si riconoscono. Si riconoscono e la loro vita non può rimanere uguale, perché sanno che quello che magari hanno cercato per tutta una vita esiste davvero. Rimane dentro qualcosa, per sempre, la sensazione di una mano accarezzata, il più bel tramonto mai visto nella storia dell’umanità. Si riconoscono e gli iceberg che avevano dentro si sciolgono”. Liana smise di parlare, perché dentro un mare di rosso ormai bruno, l’ultimo pezzettino di sole se ne andava dietro una montagna e lasciava il cielo a sanguinare e lasciava le nuvole, gli infiniti campi morti di novembre, e pure noi, senza più niente da poter aggiungere.<br />Liana fece un respiro, che somigliava a quello che, un giorno, sarà l’ultimo respiro dell’ultimo uomo sulla terra.<br />Io avevo tante di quelle lacrime, che non mi ricordai nemmeno di piangere.<br />“Anch’io ti ho riconosciuta” dissi io, nel momento esatto in cui tutto finì e il cielo divenne definitivamente buio.<br />****<br />Le ho scritto una volta, qualcosa a metà tra un tentativo e una provocazione.<br />Lei mi ha risposto, con la più bella lettera che abbia mai letto.<br />Ho provato a chiamarla una volta, ma penso che l’ultima eco di quello che avevamo vissuto sia stata quella lettera, che finiva con queste tre parole: “Non siamo soli”.<br />Sono otto anni ormai, questo novembre e la mia vita ha seguito il più logico binario.<br />A Treviso ci sono stato, tre o quattro volte, ma l’amica di Orsetta non l’ho più vista o sentita, o meglio, non l’ho più cercata.<br />Non so dove sia, cosa faccia, e a volte la immagino, sola, ai bordi di un prato.<br />Non so perché, ma immagino quegli occhi verdi guardare il tramonto e stare ancora a aspettare.stefanopz + laralidiahttp://www.blogger.com/profile/15249029335247491670noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9052045044980251020.post-77965643934846765592012-01-25T15:32:00.001-08:002012-01-25T15:32:40.640-08:00NICO FA UN SOGNO<br /><br />L'indomani Nico avrebbe compiuto diciott’anni. Per questo, dopo che sua madre, datagli una buonanotte, ebbe chiuso la porta, saltò fuori dal letto e accese la lampada della scrivania.<br />Pochi minuti ancora a mezzanotte.<br />Nico prese da dentro la polvere di un cassetto un volumetto, l'album delle foto, le sue.<br />Apri' prima distrattamente nel mezzo, le foto di un vecchio Carnevale, vestito da cowboy. "No, no, dall'inizio!" pensò Nico. E si rivide, senza riconoscersi, vestito di bianco, cucciolo di uomo con un ciuffo di capelli nerissimi, allora come ora. Era nato in una grande città, in una clinica con un grande parco, di quelle che si chiamano Villa Bianca o Villa Santa Chiara, qualcosa del genere. E già i primi giorni li aveva trascorsi da solo, in una camera a pagamento; sua madre si fidava solo di "quel" dottore.<br />Nico girò qualche pagina senza sorridere a quel neonato, a quelle mille foto di primi anni, che dovevano essere i suoi.<br />E poi suo padre, i baffi prima neri, poi grigi, suo padre, in quelle foto non c’era mai. Nico a Natale. Nico e suo cugino. Nico e la nonna. Nico e la mamma. Poi, girate almeno una quindicina di pagine, Nico si fermò a guardare i suoi cinque anni e la sua maglietta a righe bianche e blu in un campo di girasoli; si fermò e capì che si fermava perché quello, finalmente, era il suo primo ricordo, quel campo di girasoli e quella maglietta e una domenica che doveva essere di inizio giugno e il profumo forte di campagna che gli aveva fatto girare la testa. Finalmente un suo ricordo e Nico sotto quella foto ci scrisse il suo nome e lo sottolineò.<br />Poi continuò a girare le pagine dell'album, avanti e indietro, per almeno una mezz’ora, che ormai il suo compleanno doveva essere arrivato. E quando arrivò all'ultima foto, dell’estate di due anni prima, Parigi e castelli della Loira, Nico ristette, chiedendosi se li avesse vissuti davvero tutti quegli istanti.<br />Stavolta nemmeno si sorrise, si scostò la frangetta da sopra gli occhi e, senza pensare più a nulla, andò a dormire.<br />**<br />"Auguri, caro". Sua madre aprì la serranda e ripeté tanti auguri Nico, sorrise quando aveva già riaperto la porta e lasciò Nico solo, a vestirsi.<br />Nico non riuscì a decifrare il suo umore mentre in jeans e T-shirt usciva dalla sua stanza per andare in bagno.<br />Bussò e suo padre, come ogni mattina, gorgogliò "Occupato"; Nico continuò allora verso il bagno di servizio, piccolo e scarno, con la lampadina nuda, la lavatrice e vecchie piastrelle arancioni. Nico, presa la camicia, arrivò in cucina per fare colazione. Sua madre gli dava le spalle mentre riscaldava il latte; si voltò giusto il tempo per versare il latte nella tazza di Nico, poi accese il fuoco sotto la macchina del caffè. Il padre di Nico arrivò proprio mentre il caffè stava uscendo; "Non fai gli auguri a tuo figlio?" lo rimproverò sua moglie; allora, si concentrò un attimo, poi esplose: "Diciott’anni, Nico, auguri, auguri".<br />Nico alzò gli occhi dalla tazza e ringraziò a labbra serrate; “Allora io vado”, si lavò i denti, prese quaderni e libri, li mise dentro un elastico e nel perfetto silenzio dei rumori della strada si avviò verso la porta.<br />Suo padre raccoglieva le carte delle pratiche che lo avevano accompagnato a casa la sera prima.<br />Sua madre buttava un po’ d’acqua nel pentolino del latte.<br />Nico urlò il suo ciao e più che lui, fu una corrente d'aria a chiudere la porta, più forte del solito.<br />***<br />A scuola fu Diego, ovviamente, il primo a ricordarsi del suo compleanno.<br />“Un disastro Nico, diciott'anni, un disastro” si voltò dal banco davanti e gli rifilò una pacca sul braccio. “Grazie Diego” sorrise Nico.<br />Fuori, pioggia. La pioggia di maggio, puzzolente di gas di scarico, un cielo definitivamente grigio.<br />Dentro, in classe, Diego lì davanti che si agitava, si sbracciava, bisbigliava cose irripetibili sulle gambe di Betta, poi citava Montale, poi si addormentava.<br />Nico ricordava i primi giorni di quarto ginnasio, quando guardandosi attorno, da dietro il ciuffo nero, cercava spalle larghe su cui appoggiare la sua timidezza. Diego già si faceva la barba, sapeva far ridere, sapeva muoversi. Poi gli piaceva il nome, Diego e Nico, stanno bene insieme.<br />Nico non aveva capito come mai Diego aveva accettato la sua fedele amicizia, fatta di silenzi, di rari sorrisi, quasi avesse bisogno di calmarsi ogni tanto con lunghissime passeggiate mute, con partite a scacchi e a Scarabeo. Qualunque fosse il motivo della loro amicizia, Nico non se lo chiedeva più, magari per scaramanzia.<br />****<br />“Stasera andiamo a Radio Delta” gli disse Diego a ricreazione “portano le chitarre e Giulio dovrebbe offrire; sai, ha passato gli esami per la patente”.<br />“E io?” alzò appena gli occhi Nico “dovrei portare qualcosa anch'io?”. “No, no, tu non ti preoccupare, re dei timidi” disse Diego rassicurante, “non vorrai mica stare al centro dell'attenzione?”.<br />*****<br />Diego passò da Nico verso le sette.<br />Il pomeriggio era stato poco incoraggiante per Nico e la torta gli aveva lasciato la bocca amara.<br />Suo padre doveva forse concludere un contratto importante in serata ed era uscito senza neppure bere il caffè.<br />Sua madre, sparecchiato, era andata in salotto a sfogliare una rivista e il volume della TV era sempre un po’ troppo alto.<br />Nico aveva guardato per un po’ il regalo, un orologio, che sua madre aveva comprato qualche giorno prima e che suo padre aveva visto solo quando Nico l’aveva scartato.<br />Nico aveva ben presto lasciato l’orologio sul polso e aveva ringraziato Diego per quel Beethoven che gli aveva occupato il pomeriggio.<br />Nico aveva rispettato la gerarchia delle camicie e per la sera del suo diciottesimo compleanno aveva scelto una fantasia di foglie con colori autunnali, che metteva un po’ con orgoglio, un po’ con circospezione.<br />Entrando in casa Diego salutò ad alta voce la madre di Nico, che ricambiò con calore, poi abbracciò Nico, gli diede una pacca sulla spalla (come fa un vero amico, pensò Nico) e gli diede il suo regalo, che teneva nascosto nel giubbotto. Era un enorme poster di un fiordo norvegese che copriva quasi mezza parete in lunghezza, e solo mezzo metro in altezza. Sul biglietto c'era scritto: “Nico fa rima con amico. Fin troppo facile”. Nico rise arrossendo e con gli angoli della bocca in alto, finalmente, uscì di casa con Diego.<br />******<br />Radio Delta era stata un magazzino di carta da parati, lo studio di un pittore misteriosamente scomparso e poi, negli anni settanta, una radio, Radio Delta.<br />Chiusa la radio, i tre stanzoni erano stati per anni soltanto topi e polvere. Poi era diventato un club con le tessere e il bancone degli alcolici, dove ci si ritrovava, si davano feste per qualsiasi motivo, e il sabato sera, tardi, si diceva, davano i film porno.<br />L'esame di guida di Giulio era un ottimo motivo per far fuori barili di Martini.<br />Diego e poi Nico entrarono nella nuvola di fumo pesante e faticarono un po’ per trovare volti amici, Betta, Andrea, Lilli, i gemelli Di Donato, Sonia e altri e altre. Diego mise un bicchiere di Martini, forse, in mano a Nico, che bevve un sorso e poi, dopo una smorfia, scelse un’aranciata.<br />"Vieni, sediamoci a quel tavolo!" gridò Diego e guidò Nico al tavolo di Sonia e Lilli.<br />Sonia aveva un viso dolce, velato da un’ombra di pazienza materna e un corpo tutt'altro che disprezzabile.<br />Lilli era Lilli e basta, e rideva troppo spesso, secondo Nico.<br />Parlarono di scuola per un po’ e Nico poté dire la sua, poi Lilli mise in mezzo i segni zodiacali e Nico cominciò ad annoiarsi. Si alzò e andò verso il bancone per un’altra aranciata, ma Pino Di Donato lo bloccò dopo qualche passo. "Diciott'anni oggi, vero?" gli gridò in faccia. Nico faticò ad annuire. Gli si avvicinarono un po’ tutti quelli che lo conoscevano; gli diedero pacche sulle spalle, due o tre ragazze gli diedero un bacio sulla guancia; Giulio gli chiese quando avrebbe preso la patente.<br />E ancora auguri, auguri, abbracci e grida che lasciarono Nico frastornato. Qualche amico già ubriaco gli fece bere una lattina di birra.<br />Si era alzato ormai da dieci minuti quando tra la gente che ancora lo festeggiava intravide il suo tavolo nello luce gialla di un faretto psichedelico.<br />Sonia rideva e le si disegnavano sulle guance due splendide fossette. Diego le stava parlando, accompagnandosi come al solito con gesti ampi e ieratici. Sonia lo fissava con dolcezza e ogni tanto annuiva divertita. Diego le diede un buffetto su una guancia.<br />Nico cessò di percepire gli strepiti di auguri e i Clash a tutto volume e respirò tutto il fumo della stanza, continuando a fissare quel tavolo.<br />Si sentì solo e quando Lilli inavvertitamente lo urtò, Nico avrebbe voluto quasi reagire.<br />*******<br />“Ti dico che Sonia e' assolutamente stupenda; un sabato sera assolutamente indimenticabile”. Diego camminava nell’azzurro della domenica mattina gesticolando come se volesse misurare i suoi assolutamente. “E’ intelligente, è carina e che sorriso!".<br />Nico, accanto a lui, per la prima volta non lo stava a sentire. “Ehi, ma mi ascolti?” grido' Diego. “Sì sì ...” si risvegliò Nico “e perché .... e di che avete ... parlato?”. “Non me lo ricordo più. Sai, è come se solo da ieri avessi avuto il dono della parola; devo aver parlato addirittura di pallone ad un certo punto. E lei, con quel sorriso, rassicurante, protettivo, sai già che non ti interromperà, qualsiasi cosa ti verrà in mente ti starà sempre a sentire”. Nico sentiva freddo e capiva che qualcosa stava scappando, come le nuvole del sabato notte se ne vanno per lasciare libero il cielo di inventare la noiosa perfezione della domenica mattina.<br />********<br />Quel pomeriggio Nico cacciò tutte le foto degli ultimi anni da dentro un cassetto e se le mise a contare: ce n’era una sulla spiaggia, Nico con gli occhi bassi e Diego con gli occhi diretti dentro l'obiettivo; ce n’era qualcuna dove Diego guardava oltre, lontano; ce n’era un’altra con tutta la classe dove Nico sembrava sorpreso e Diego invece sembrava il centro della foto.<br />Nico ci fece qualche didascalia, dietro quelle foto, “Sorridiamo”; “Sorride solo Diego”; “Foto di gruppo”, “Diego con altri”; capì che non poteva fare altro, per ora, e rimise le foto dentro al cassetto, magari per dimenticarle.<br />Prese un vecchio Topolino, tossì per la polvere, si buttò sul letto, accavallò le gambe, appoggiò il Topolino sul petto, incrociò le mani dietro la nuca e si concentrò sul ronzio del silenzio, forse per ore.<br />“Nico! La cena e' pronta” sua madre dalla cucina, mezzo grido e mezza cantilena. Nico arrivò nel salotto. Suo padre guardava il telegiornale; sua madre, con la padella in mano, chiese “Tutto bene, Nico?”, ma non aspettò la risposta perché di là, in cucina, c’era un fornello da spegnere.<br />*********<br />Diego camminava accanto a lui per strada, in un giorno, mezza mattina e mezza sera.<br />E parlava, e Nico non lo stava a sentire. Si sentì un rumore di passi, lontani, vicini, il rumore si fermò e Sonia, sorridente, guardò Diego con degli occhi che parevano stelle. Diego abbracciò forte Sonia. “Sei assolutamente stupenda” le disse. Nico stava lì, a un metro a guardarli, poi smise, guardava oltre, lontano.<br />Sonia e Diego si presero per mano, si guardavano forte negli occhi. Nico capì che qualcosa stava avvenendo e, sia pure di traverso, se li mise a guardare.<br />Diego, senza fretta, cominciò ad invecchiare; gli crebbero i baffi, prima neri, poi grigi, prese il telecomando, si sedette in salotto e si mise a guardare il telegiornale. Sonia sospirò, sfogliò una rivista, poi chiese “Tutto bene, Nico?”, ma non aspettò la risposta perché di là, in cucina, c’era forse un fornello da spegnere.stefanopz + laralidiahttp://www.blogger.com/profile/15249029335247491670noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9052045044980251020.post-32054841913347878772012-01-25T15:08:00.001-08:002012-01-25T15:08:14.486-08:0013/11/2011<br /><br />Un sabato sera di novembre<br /><br />è uscita un'edizione straordinaria<br /><br />il buffone è scappato dal palazzo<br /><br />cacciato da una porta secondaria<br /><br />Che fa la folla accorsa al Quirinale?<br /><br />Lo aspetta con orgoglio e lo saluta?<br /><br />Inneggia, lo esalta, lo ringrazia?<br /><br />Oppure è riconoscente e muta?<br /><br />No, la folla ha stappato lo spumante<br /><br />vede la luce dopo la notte buia.<br /><br />La folla urla buffone e lancia gli euro<br /><br />Un'orchestra suona e canta l'Alleluia!<br /><br />Chi è stato questo nano calvo e inetto?<br /><br />Chi ci ha costretto a questa notte lunga?<br /><br />un pedofilo, puttaniere laido e sciatto<br /><br />re del viagra, re dei bunga bunga.<br /><br />Lui è il sogno dell'italiano medio<br /><br />dei leccaculo, del suo parco buoi<br /><br />vent'anni a annunciare le riforme<br /><br />e a farsi solamente i cazzi suoi<br /><br />Corrompe testimoni e minorenni<br /><br />una sua troia nomina ministra<br /><br />attacca toghe rosse e comunisti<br /><br />(come se esistesse la sinistra...)<br /><br />I dittatori, questo è risaputo<br /><br />fanno presto o tardi brutta fine<br /><br />Gheddafi seppellito nel deserto<br /><br />Osama in pasto a scorfani e sardine<br /><br />Non ti auguro la decapitazione<br /><br />né stare a testa in giù come benito<br /><br />ma per quello che hai fatto alla nazione<br /><br />un augurio ti fo, ed è sentito.<br /><br />Possa tu, debosciato culo moscio<br /><br />senza tintura e senza più cerone<br /><br />con tre capelli bianchi e senza denti<br /><br />vivere con mille euro di pensione<br /><br />Senza viagra, senza più palazzi<br /><br />più rughe della Levi Montalcini<br /><br />passare le giornate dentro ad un parco<br /><br />tra cacche di cane ed urla di bambini<br /><br />Guardare disperato i volantini<br /><br />dei tre per due che fanno all'Eurospin<br /><br />e niente più troiette e minorenni<br /><br />ad aspettarti sul letto di Putìn<br /><br />E quando, una volta ogni due mesi<br /><br />avrai una parvenza di erezione<br /><br />sbavando, zoppicando e biascicando<br /><br />andrai a contrattar la prestazione<br /><br />e una vecchia bagascia sessantenne<br /><br />a cui ha detto "Ce l'ho quasi come un mulo!"<br /><br />Dirà: "tu me l'hai messo in culo per decenni<br /><br />adessa cerca d'annartene a fanculo!"stefanopz + laralidiahttp://www.blogger.com/profile/15249029335247491670noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9052045044980251020.post-12023000137142056012012-01-25T15:07:00.001-08:002012-01-25T15:07:51.290-08:0020/05/2011<br /><br />La bomba atomica di Hiroshima<br />e la sciagura di Fukushima<br />i pochi soldi alla polizia<br />è tutta colpa di Pisapia<br /><br />Non ci son più le mezze stagioni<br />Erika, Omar e poi la Franzoni,<br />le cavallette, la carestia<br />è tutta colpa di Pisapia<br /><br />Le coltellate date a Melania<br />e la monnezza nella Campania<br />le bombe in Iraq e quelle in Turchia<br />è tutta colpa di Pisapia<br /><br />Quando cantando prendi una stecca<br />quando sei al letto e fai cilecca<br />e le emorroidi di nonna e di zia<br />è tutta colpa di Pisapia<br /><br />Se un giorno Atlantide è sprofondata<br />se danno Sgarbi in prima serata<br />se a volte Davide batte Golia<br />è tutta colpa di Pisapia<br /><br />Se la bistecca che hai cotto è una sòla<br />se sbagli candeggio per le lenzuola<br />il quattro e mezzo che c'hai a geometria<br />è tutta colpa di Pisapia<br /><br />Se paghi un mutuo al venti per cento<br />se ci sta facebook che gira un po' lento<br />se sei più grasso del sergente Garcia<br />è tutta colpa di Pisapia<br /><br />Se non vedi dieci euro nemmeno dipinti<br />se i dinosauri si sono estinti<br />se è larga la foglia e stretta la via<br />è tutta colpa di Pisapia<br /><br />Se non digerisci la peperonata<br />se una vecchietta viene scippata<br />se c'hai vent'anni e la sciatalgia<br />è tutta colpa di Pisapia<br /><br />Se tua moglie è tre anni che ti mette le corna<br />se senza lo Swiffer la polvere torna<br />se ti tocca leggere questa poesia<br />è tutta colpa di Pisapiastefanopz + laralidiahttp://www.blogger.com/profile/15249029335247491670noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9052045044980251020.post-5911144683904000422012-01-25T15:06:00.004-08:002012-01-25T15:07:24.731-08:00DELFINI<br /><br />alfano è così servo di berlusconi che molti pensano che il suo nome di battesimo sia Lodo <br /><br />20/04/2011<br />Ecco il nuovo articolo 1 della Costituzione:<br />"L'Italia è una repubblica democratica fondata sulla gnocca. La sovranità appartiene a silvio che la esercita nelle forme e nei limiti del palinsesto Mediaset"<br /><br />30/04/2011<br />Sono un po' confuso in questo week end. Cosa è successo? Ah sì, William e Karol si sono sposati e Kate è stata dichiarata beata durante il concertone di piazza san Giovannistefanopz + laralidiahttp://www.blogger.com/profile/15249029335247491670noreply@blogger.com0